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6 Maggio 2023
Stella Morra

8. Rendere grazie

Commento a: Mt 26, 1-30


Il percorso di quest’anno

Siamo all’ultimo passo e al tentativo di riprendere il filo di tutto il percorso. A mano a mano mi sono resa conto che probabilmente alcuni passaggi erano chiari per me, ma non necessariamente chiari per tutti. Ci eravamo dati l’obiettivo di riflettere sulle forme della preghiera, in particolar modo alla ricerca di forme concrete, di forme corporee, di forme quotidiane che non fossero necessariamente separate in un ambito sacrale o legate a gesti o parole che non useremmo mai in nessun’altra situazione della nostra vita,  ma che fossero mescolate dentro le situazioni della nostra vita, però anche riconoscibili in qualche modo.  A questo scopo il percorso ha provato a dare alcuni criteri e la lectio di oggi, almeno nella mia comprensione, di fatto riprende un po’ tutti i criteri, quindi alla fine potremo stilare un elenco dei criteri efficaci per una forma di preghiera.

Richiamo solo velocemente il percorso che abbiamo seguito. Abbiamo iniziato con i quattro testi dell’Antico Testamento (Tobia, Elia, il Salmo 91 e la morte di Mosè) che erano un po’ i quattro passaggi intorno alla questione del desiderio di morire o del desiderio di vivere e intorno alla realtà, e alle regole della realtà, che pare indifferente al nostro desiderio di vivere o di morire. La realtà è più grande di noi, va avanti coi suoi ritmi, con i suoi tempi. Noi possiamo pregare per la nostra morte o decidere di metterci dalla parte della nostra vita e della vita degli altri, ma in ultima analisi non è la realtà esterna che ci conferma o ci smentisce. Siamo noi che in qualche modo cogliamo degli aspetti di conferma o di smentita.

Abbiamo proseguito il percorso con i tre testi del Nuovo Testamento, a cui si aggiunge il quarto di questa sera. Il primo testo, Simeone e Anna, segnava nel mio ragionamento, il salto di qualità necessario tra l’Antico e il Nuovo Testamento, cioè il superamento di un’esperienza antropologica condivisa, che è quella che a tutti capita o è capitata, di invocare la morte o quantomeno esprimere una domanda di sottrazione alla propria stessa esistenza. Simeone e Anna in qualche modo rappresentano la capacità fedele di non sottrarsi all’attesa rispetto alla propria esistenza, dello stare a vedere se la propria esistenza fa nascere qualcosa di nuovo, in quel caso un bambino, irriconoscibile di per sé, però loro lo riconoscono, raccolgono questa visita, con i loro rispettivi atteggiamenti. Poi il secondo testo, il miracolo di Cana e il discorso sul tempio (“Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere”) come lo stare dentro la vita nella gioia come nell’ira, dove non sono la gioia e l’ira che la qualificano. In qualche modo Gesù si pone in rapporto a un altrove, a un altro, che nei vangeli si chiama il Padre, dentro le cose della vita, che siano allegre o tristi non fa differenza, che siano ira, giudizio negativo o la partecipazione a una festa. Nello scorso incontro abbiamo commentato il testo di Filippesi, dal tono molto pasquale: “siate lieti”, tradotto “non siate ansiosi”. L’ansia è una fonte fondamentale di preghiera, solo che è una fonte di preghiera distorta. È la gioia che dovrebbe far nascere la preghiera, non l’ansia, perché se no la preghiera che ne nasce è una preghiera centrata sul risultato, sulla necessità di riempire l’ansia e non semplicemente di accogliere e riconoscere nella vita quello che c’è.

La lectio di oggi

Oggi siamo alle prese con la prima parte del capitolo 26 di Matteo. Il vangelo di Matteo è un vangelo per alcuni versi pesante, pieno di discorsi, di insegnamenti, però mi interessava molto questo testo, perché mi sembra riassuma nella parte finale della storia di Gesù. Qui siamo all’ultima cena, tutti i passaggi di cui abbiamo parlato negli incontri precedenti, trasformandoli in qualche modo in criteri che possono aiutarci a trovare luoghi e forme di preghiera possibile.

Il testo: Mt 26,1-30

26 1Terminati tutti questi discorsi, Gesù disse ai suoi discepoli: 2“Voi sapete che fra due giorni è Pasqua e che il Figlio dell’uomo sarà consegnato per essere crocifisso”. 3Allora i sommi sacerdoti e gli anziani del popolo si riunirono nel palazzo del sommo sacerdote, che si chiamava Caifa,  e tennero consiglio per arrestare con un inganno Gesù e farlo morire. 5Ma dicevano: “Non durante la festa, perché non avvengano tumulti fra il popolo”.

6Mentre Gesù si trovava a Betània, in casa di Simone il lebbroso,7gli si avvicinò una donna con un vaso di alabastro di olio profumato molto prezioso, e glielo versò sul capo mentre stava a mensa. 8I discepoli vedendo ciò si sdegnarono e dissero: “Perché questo spreco? 9Lo si poteva vendere a caro prezzo per darlo ai poveri!”. 10Ma Gesù, accortosene, disse loro: “Perché infastidite questa donna? Essa ha compiuto un’azione buona verso di me. 11I poveri infatti li avete sempre con voi, me, invece, non sempre mi avete. 12Versando questo olio sul mio corpo, lo ha fatto in vista della mia sepoltura. 13In verità vi dico: dovunque sarà predicato questo vangelo, nel mondo intero, sarà detto anche ciò che essa ha fatto, in ricordo di lei”.

14Allora uno dei Dodici, chiamato Giuda Iscariota, andò dai sommi sacerdoti 15e disse: “Quanto mi volete dare perché io ve lo consegni?”. E quelli gli fissarono trenta monete d’argento. 16Da quel momento cercava l’occasione propizia per consegnarlo.

17Il primo giorno degli Azzimi, i discepoli si avvicinarono a Gesù e gli dissero: “Dove vuoi che ti prepariamo, per mangiare la Pasqua?”. 18Ed egli rispose: “Andate in città, da un tale, e ditegli: Il Maestro ti manda a dire: Il mio tempo è vicino; farò la Pasqua da te con i miei discepoli”. 19I discepoli fecero come aveva loro ordinato Gesù, e prepararono la Pasqua.

20 Venuta la sera, si mise a mensa con i Dodici. 21Mentre mangiavano disse: “In verità io vi dico, uno di voi mi tradirà”. 22 Ed essi, addolorati profondamente, incominciarono ciascuno a domandargli: Sono forse io, Signore? 23 Ed egli rispose: “Colui che ha intinto con me la mano nel piatto, quello mi tradirà. 24Il Figlio dell’uomo se ne va, come è scritto di lui, ma guai a colui dal quale il Figlio dell`uomo viene tradito; sarebbe meglio per quell`uomo se non fosse mai nato!”. 25Giuda, il traditore, disse: “Rabbì, sono forse io?”. Gli rispose: “Tu l’hai detto”.

26 Ora, mentre essi mangiavano, Gesù prese il pane e, pronunziata la benedizione, lo spezzò e lo diede ai discepoli dicendo: “Prendete e mangiate; questo è il mio corpo”. 27Poi prese il calice e, dopo aver reso grazie, lo diede loro, dicendo: “Bevetene tutti, 28perché questo è il mio sangue dell’alleanza, versato per molti, in remissione dei peccati. 29Io vi dico che da ora non berrò più di questo frutto della vite fino al giorno in cui lo berrò nuovo con voi nel regno del Padre mio”.

30E dopo aver cantato l’inno, uscirono verso il monte degli Ulivi.

 

Commento:

26 1Terminati tutti questi discorsi, Gesù disse ai suoi discepoli: 2“Voi sapete che fra due giorni è Pasqua e che il Figlio dell’uomo sarà consegnato per essere crocifisso”. 

Chiamiamo questi primi due versetti “criterio A”.

 1Terminati tutti questi discorsi…

Il vangelo di Matteo è un vangelo pieno di discorsi, ma c’è un punto in cui le parole finiscono. La preghiera nasce dove le parole finiscono. Per questo tradizionalmente noi usiamo “le preghiere”, cioè usiamo dei testi condivisi, dal Padre Nostro che ha insegnato Gesù a tutte le altre preghiere che la devozione ha codificato. La preghiera, se davvero nasce da qualcosa che ha a che fare con la morte, nasce dove le parole finiscono. Un po’ come i messaggi di condoglianze, per i quali tutti usiamo delle parole convenzionali, perché non c’è nulla da dire, in sostanza, e quindi usiamo alcune espressioni attraverso le quali l’altro capisce che tu sei vicino al suo dolore e questo tu vuoi cercare di dire, però lo fai con delle parole standardizzate. La preghiera comincia “terminati tutti questi discorsi”; non sostituisce il confronto, il dialogo, la discussione, la riflessione, ma comincia dopo, in qualche modo ha a che fare con la vita e con la morte.

2“Voi sapete che fra due giorni è Pasqua e che il Figlio dell’uomo sarà consegnato per essere crocifisso”. 

Secondo il vangelo di Matteo, Gesù lo aveva preannunciato e qui glielo dice chiaramente: tra due giorni ci siamo, il dado è tratto. Una delle cose che secondo me serve come criterio base è che, quando uno si vuole mettere in atteggiamento di preghiera, dovrebbe in qualche modo chiedersi se, a quale livello, su cosa, su quale pezzo della sua vita, è in gioco lì la sua vita e la sua morte, che non è necessariamente la morte fisica, evidentemente, ma che può avere tante forme.

Come per tante altri aspetti della vita cristiana, il disastro dell’ottocento devozionista è stato la moltiplicazione di pratiche devozionali, moltiplicazione di pratica dei sacramenti, per cui rimaniamo con una logica quantitativa nella quale l’idea della preghiera è che si dovrebbe pregare tanto. Ci sono delle figure nella vita della chiesa, degli stati di vita come quella monastica, che effettivamente mettono al centro questa dimensione della vita e cioè vivono per quello; tutto il resto della loro vita è organizzato intorno a quello, i loro orari di lavoro, di vita sono condizionati dagli orari di preghiera. Tutti noi andiamo a Pra d’ Mill una volta all’anno perché ci fa bene sapere che lì c’è una comunità che prega, sia che noi ci siamo sia che noi non ci siamo. È importante, ma non è il dato di tutti. La preghiera è sempre un gioco tra la vita e la morte, è uno scegliere ancora una volta davanti a Dio, gridando a lui, possibilmente anche un po’ con potenza, che scegliamo la vita, che ci mettiamo dalla parte della nostra vita e della sua. Non c’è un’altra cosa.

Questo dunque secondo me, è il criterio A, dopo di che c’è un altro pezzo che è il criterio B.

  3Allora i sommi sacerdoti e gli anziani del popolo si riunirono nel palazzo del sommo sacerdote, che si chiamava Caifa, e tennero consiglio per arrestare con un inganno Gesù e farlo morire. 5Ma dicevano: “Non durante la festa, perché non avvengano tumulti fra il popolo”.

Mentre Gesù finisce i discorsi e preannuncia la resa dei conti, dall’altra parte cominciano i discorsi, si fa consiglio ed è una specie di contro-storia, è il cercare con l’inganno di arrestarlo. Discorsi per ingannare e per di più con un’attenzione affinché non accada durante la festa: evitare i tempi lieti.

Allora questo criterio B ci dovrebbe dire che “fare consiglio” genera inganni, bisogna accettare la vulnerabilità di non avere parole o perlomeno di non avere sempre le proprie e quindi magari di usare le parole dei poveri, quelle che nella chiesa si sono distillate come le parole comuni, per pregare. Accettare di non stare in un consiglio per non produrre inganni e dall’altra parte non evitare i tempi lieti, ma, come ci raccomandava Filippesi, cercare di nutrire il tempo lieto il più possibile.

E poi c’è un blocchetto, dal versetto 6 al versetto 13, che è un blocchetto che apparentemente non c’entra niente, che rompe il racconto e che sono i criteri C e D. Apparentemente un’interruzione del reale, ma come adesso proverò a dire, non interrompe niente, anzi, perché c’è da una parte la chiarezza nuda della posizione di Gesù coi suoi discepoli, dall’altra il consiglio che produce inganno e che vuole evitare la gioia e poi però c’è una terza scena, che è parzialmente interpretata da Gesù, che fa vedere il senso profondo, ma non è solo interpretata da Gesù. Dice così:

6Mentre Gesù si trovava a Betània, in casa di Simone il lebbroso,7gli si avvicinò una donna con un vaso di alabastro di olio profumato molto prezioso, e glielo versò sul capo mentre stava a mensa. 8I discepoli vedendo ciò si sdegnarono e dissero: “Perché questo spreco? 9Lo si poteva vendere a caro prezzo per darlo ai poveri!”. 10Ma Gesù, accortosene, disse loro: “Perché infastidite questa donna? Essa ha compiuto un’azione buona verso di me. 11I poveri infatti li avete sempre con voi, me, invece, non sempre mi avete. 12Versando questo olio sul mio corpo, lo ha fatto in vista della mia sepoltura. 13In verità vi dico: dovunque sarà predicato questo vangelo, nel mondo intero, sarà detto anche ciò che essa ha fatto, in ricordo di lei”.

Questo versetto finale, “in memoria di lei”, è il titolo del primo grande libro di teologia femminista [Elisabeth Schüssler Fiorenza, In memoria di lei. Una ricostruzione femminista delle origini cristiana, ed. Claudiana] che è stato scritto e che parte dalla domanda: “È scritto nel vangelo che questo sarà sempre narrato in memoria di lei, ma in realtà questo episodio non lo conosce praticamente nessuno. Come mai?” Qui si potrebbe fare una serie di ragionamenti che però ci porterebbero fuori strada.

Il criterio C dunque è: c’è una interruzione del reale che dà senso; il racconto sembra spezzarsi, si riprenderà dopo, ma spezzandosi acquista senso. Questo è l’effetto della preghiera che normalmente costringe a un altro punto di vista, spezza il racconto, l’auto-racconto, il luogo dove noi ci sentiamo, la comprensione di noi che ci fa identificare in uno dei personaggi (i discepoli, Gesù, il consiglio, Caifa).  Se la preghiera parte sulle premesse che dicevamo, introduce un criterio di rottura del racconto. Di fronte al mio auto-raccontarmi la preghiera dice: fermati. E interrompe con due criteri fondamentali: “a casa di Simone il lebbroso” e “una donna con un vaso di alabastro di olio profumato”. Secondo la tradizione questa donna sarebbe la Maddalena, sarebbe la peccatrice, perché il gesto di una donna che toccava Gesù era un gesto sguaiato, che non si dovrebbe fare, secondo le buone maniere del tempo. [1]

Allora, c’è Simone il lebbroso e questa donna sguaiata, che non segue le buone maniere. Questi due fanno la casa. La prima domanda da farsi, nella preghiera, è: “Che cosa fa la mia casa? Chi dentro di me, quali parti di me fanno la mia casa in cui posso ospitare Gesù?”. Qui il criterio è molto chiaro: un lebbroso e una presunta peccatrice fanno la casa che può ospitare Gesù, cioè sono le parti deboli, non quelle forti. È una vulnerabilità e uno squilibrio che fanno la mia casa per Gesù, con Gesù. Questo è il primo criterio.

Il secondo criterio è: la donna fa un gesto che anticipa quello che faranno le donne all’alba della resurrezione, che andranno al sepolcro con gli oli profumati e gli aromi. È un gesto non per la morte, anche se è un gesto di cura del cadavere, ma è un gesto che richiama quel primo annuncio della resurrezione che ricevono le donne e anche qui è una donna che fa questo gesto. Dunque il legame è che la parte vulnerabile di me, contro ogni logica, che fa casa con Gesù, si mette dalla parte della vita contro ogni logica; anche quando si tratta di ungere un cadavere, si mette dalla parte della vita.

Il terzo pezzo del criterio è: uno spreco (“E i poveri?”). È un discorso molto ragionevole, giusto anche per alcuni versi. D’altra parte, non si può sentire il profumo se, come nel racconto di Marco, non si spezza il vaso. Marco dice che la donna spezza il vaso di alabastro, ancor peggio, doppio spreco. Ma non si può sentire il profumo se non si spezza il vaso o se non si versa il suo contenuto, sprecandolo da un certo punto di vista. Nessuno di noi sentirà il profumo della preghiera se non spezza o spreca qualcosa. La preghiera non segue le leggi dell’economia, della logica ragionevole di somme e sottrazioni: è un’esagerazione come tutti gli amori. Dunque si capisce abbastanza bene perché non è tanto consueto parlare di questa storia in memoria di lei. Perché è una donna, ma anche perché questo passaggio è molto inquietante e non interrompe il racconto, ma ne rovescia il senso. Di fronte alla diatriba tra Gesù e i suoi, e i sommi sacerdoti e le loro logiche politiche, sono i poveri, i poveri veri, non i poveri che teoricamente avremmo potuto aiutare se non avessimo sprecato il profumo, ma i poveri che hanno un nome e un cognome. La donna, Simone il lebbroso, sono i poveri che fanno casa, la vulnerabilità riconosciuta. Quello è il luogo, la nostra parte povera, dove si decide davvero della vita della morte, non si decide nel dialogo ufficiale. Arminio nel suo ultimo libro “Sacro minore” dice a un certo punto: “Sacro è voler salvare il mondo con la tua resa”.

14Allora uno dei Dodici, chiamato Giuda Iscariota, andò dai sommi sacerdoti 15e disse: “Quanto mi volete dare perché io ve lo consegni?”. E quelli gli fissarono trenta monete d’argento. 16Da quel momento cercava l’occasione propizia per consegnarlo.

Riprende il racconto precedente come se questo episodio a casa di Simone il lebbroso fosse chiuso lì e c’è un soggetto, Giuda, e un’occasione, cercava l’occasione propizia, in cambio di denaro. Questo è il quinto criterio: in una preghiera ci va un soggetto e un’occasione propizia. E ci va perché si compia seriamente una scelta tra la vita e la morte, non solo la vita e la morte di Gesù, ma anche, secondo la tradizione, quella di Giuda. Non si compie senza di noi, non si compie senza un’occasione propizia, cioè non ci si perde per distrazione, ci si salva per distrazione. Possiamo salvarci senza accorgercene, ma non perderci senza accorgercene. Se non siamo consapevoli di dove siamo noi, di cosa stiamo facendo, di quale è l’occasione che cerchiamo, non ci capiterà di fare veramente delle stupidaggini grossissime: spesso faremo male a noi stessi, in mancanza di consapevolezza, ma non faremo grossi danni. Ci può accadere invece che Dio ci tiri fuori anche se non siamo consapevoli; bene e male non sono equivalenti da questo punto di vista. Per fare davvero seriamente il male bisogna essere molto consapevoli, non è così facile farlo.

17Il primo giorno degli Azzimi, i discepoli si avvicinarono a Gesù e gli dissero: “Dove vuoi che ti prepariamo, per mangiare la Pasqua?”. 18Ed egli rispose: “Andate in città, da un tale, e ditegli: Il Maestro ti manda a dire: Il mio tempo è vicino; farò la Pasqua da te con i miei discepoli”. 19I discepoli fecero come aveva loro ordinato Gesù, e prepararono la Pasqua.

Questa è un po’ una ripetizione per quanti non avessero capito. È di nuovo la ripresa del terzo e del quinto criterio: quale casa, dove vuoi che prepariamo, quale casa abbiamo per avere spazio di preghiera; la casa di Simone il lebbroso, la casa con la donna che spreca l’unguento, la casa di una vulnerabilità, la casa di “un tale” che sta in città. Avevano poche indicazioni i discepoli, se questo era tutto quello che sapevano, eppure fecero come aveva loro ordinato Gesù e prepararono la Pasqua, cioè soggetto e occasione propizia. I discepoli non hanno capito tanto, non sanno bene, però fanno come è stato ordinato perché loro diventano soggetti di questa storia e colgono l’occasione propizia di preparare la Pasqua.

20 Venuta la sera, si mise a mensa con i Dodici. 21Mentre mangiavano disse: “In verità io vi dico, uno di voi mi tradirà”. 22 Ed essi, addolorati profondamente, incominciarono ciascuno a domandargli: Sono forse io, Signore? 23 Ed egli rispose: “Colui che ha intinto con me la mano nel piatto, quello mi tradirà. 24Il Figlio dell’uomo se ne va, come è scritto di lui, ma guai a colui dal quale il Figlio dell’uomo viene tradito; sarebbe meglio per quell`uomo se non fosse mai nato!”. 25Giuda, il traditore, disse: “Rabbì, sono forse io?”. Gli rispose: “Tu l’hai detto”.

Qui c’è una cosa curiosa che ho pensato relativamente negli ultimi anni, dopo aver sentito questo testo miliardi di volte: qual è lo scopo per cui Gesù preannuncia il tradimento? Di per sé l’unico risultato che ottiene è aumentare l’ansia nei discepoli e il sospetto. Questo annuncio non risolve niente e nemmeno fa sì che Giuda abbia un ripensamento e non lo tradisca. Perché Gesù preannuncia? Si potrebbero fare molti ragionamenti, ovviamente. Io personalmente trovo che la chiave sia nel dialogo finale: “Rabbì, sono forse io?” Gli rispose: “Tu l’hai detto”. In fondo Gesù spera fino all’ultimo di rendere ciascuno di noi un soggetto, cioè capace di dire di sé e di mettersi dalla parte giusta; non costringe nessuno, ma ci spera fino in fondo, ci dà sempre un’opportunità di una presa di coscienza anche quando questo può creare ansia collettiva. Dà a Giuda un’ultimissima chance, un’ultima possibilità. Una cosa su cui non possiamo permetterci di disperare è che succederà ancora qualcosa e qualcosa di buono, avrò ancora un’occasione. Non sappiamo quale è e forse, se siamo troppo occupati a piangere sulle occasioni perdute, alla fine rischiamo di non riconoscere l’occasione che ci viene offerta, ma fino all’ultimo minuto, fino a un minuto prima che Giuda esca, Gesù preannuncia la dinamica e dice: “Tu lo dici”. Prendi in mano, mettiti dalla parte della vita, c’è una possibilità, fallo. Sembra sciocco da dire, ma è vero che è la nostra reazione nel novanta per cento dei casi è: “È troppo difficile, non ce la faccio, sembra facile dirlo, ma…”  La resistenza cresce man mano che ci si avvicina al punto decisivo.

 Ora, mentre essi mangiavano, Gesù prese il pane e, pronunziata la benedizione, lo spezzò e lo diede ai discepoli dicendo: “Prendete e mangiate; questo è il mio corpo”. 27Poi prese il calice e, dopo aver reso grazie, lo diede loro, dicendo: “Bevetene tutti, 28perché questo è il mio sangue dell’alleanza, versato per molti, in remissione dei peccati. 29Io vi dico che da ora non berrò più di questo frutto della vite fino al giorno in cui lo berrò nuovo con voi nel regno del Padre mio”. 30E dopo aver cantato l’inno, uscirono verso il monte degli Ulivi.

Il racconto dell’istituzione dell’eucaristia è molto scarno, se confrontato con i racconti degli altri evangelisti, è proprio ridotto al minimo ed è in qualche modo la trasfigurazione del racconto di Mosè; prima di morire Gesù pronuncia una benedizione che non è più la benedizione sui figli di Israele, è la benedizione sul pane e sul vino, la benedizione rituale del pasto condiviso della Pasqua (anche se forse questa non era la cena della Pasqua, non lo sappiamo esattamente). Gesù prende il pane e il vino, pronuncia la benedizione, lo spezza e lo condivide. Crea il criterio fondamentale: ri-conoscere e ringraziare. Riconosce in ciò che è il nostro bene primario, il pane e vino, il nutrirsi, il condividere il nutrimento, una delle strutture base della nostra esistenza, riconosce lì il luogo della benedizione possibile e il luogo dove Lui è: questo è il mio corpo, questo è il mio sangue.Questo sono io, non è un’altra cosa, questo è il luogo, la casa che voglio, diventare pane per la vostra fame. E dice: “non berrò più di questo frutto della vite fino al giorno in cui lo berrò nuovo con voi nel regno del Padre mio”. È un gesto radicale di morte e di vita mescolate, mescolate insieme.

Alla fine di questo escono e poi ci sono ancora due versetti, che a me piacciono molto, con Gesù che dice: “Voi tutti vi scandalizzerete per causa mia in questa notte […], ma dopo la mia risurrezione vi precederò in Galilea”. Papa Francesco in questi tempi di Pasqua, in particolar modo nel tempo di Pasqua del Covid, quando quotidianamente veniva trasmessa la messa da Santa Marta, commentando i brani delle apparizioni del risorto nei quali, secondo vari evangelisti, il risorto dice “Vi precederò in Galilea”. Papa Francesco – dicevo – ha molto riflettuto su questa cosa, devo dire in un modo bellissimo, che io non avevo mai notato. La Galilea è due posti, secondo il vangelo. È la Galilea delle genti cioè il luogo dei pagani (non Gerusalemme, non il tempio) e dall’altra parte la Galilea è dove Gesù ha chiamato i discepoli, il punto di origine. E allora Francesco diceva: il risorto ci precede in Galilea, non ci precede nel tempio, ma ci precede dove è nato il primo amore con lui e dove stanno i pagani, dove sta la gente, dove stanno le cose normali della vita. Se vogliamo ritrovarlo dobbiamo andare lì.

Allora si esce verso il monte degli Ulivi e Gesù preannuncia che ci precede in Galilea. Si esce, si ri-conosce e si vive il gesto grato di questo riconoscimento per ricominciare, per cominciare di nuovo il circuito di tutti i criteri, per fare case, luoghi di riconoscimento, di ringraziamento, attraverso e insieme ai poveri o comunque alla parte vulnerabile di ciascuno di noi. In qualche modo riconoscere e ringraziare è il contenuto di ogni preghiera sulla base dei criteri che abbiamo provato a percorrere. Per questo molti maestri spirituali dicono che la preghiera matura è una preghiera di ringraziamento, ma non di ringraziamento perché semplicemente dico delle parole di gratitudine. È la preghiera eucaristica, quella preghiera che prende la forma di una benedizione di ciò che ci è più comune perché diventa il luogo dove il Signore è e dunque dove, non essendo da sola, posso mettermi dalla parte della vita e uscire per ricominciare, per ricominciare a scegliere la vita e a mettermi a costruire una casa e arrivare a benedire, prendendone coscienza, riconoscendo, a benedire e dunque rendere grazie e dunque di nuovo a uscire per ricominciare.

Fossano, 6 maggio 2023

Testo non rivisto dall’autore

 


[1] Se volete veramente divertirvi, guardate questa serie che è uscita anche in italiano, è gratuita, non è su nessuna piattaforma e si intitola “The Chosen” (www.thechosen.it).  È una storia di Gesù rivisitata con categorie moderne, fatta benissimo. Ovviamente ci sono una serie di interpretazioni post-psicanalitiche degli atteggiamenti dei vari personaggi, per cui ad esempio Levi, prima della conversione è un fobico ossessivo gravissimo che ha questa ossessione per le tasse che lo fa andare contro ogni regola sociale e così via. Ci sono un po’ di cose carine e inizia intorno alla figura di questa donna che poi sarà la Maddalena, costruito secondo la leggenda che identifica tutte queste figure di donne.

 

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