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11 Marzo 2023
Stella Morra

6. Dentro la vita, gioia e ira

Commento a: Gv 2, 1-25


Proseguiamo questo nostro percorso di riflessione sulla preghiera. Come al solito provo a riprendere le fila rispetto alle lectio precedenti. I primi quattro incontri sono stati dedicati a testi dell’Antico Testamento in cui la preoccupazione è quella di descrivere i grandi movimenti, le dinamiche profonde dell’umano, quelle che in qualche modo caratterizzano tutti e che la Bibbia è così bene in grado di mostrarci e renderci.

E dunque abbiamo riflettuto, all’inizio, sul desiderio di morire e di vivere col libro di Tobia, poi sulla vicenda di Elia che vive come una realtà rovesciata e cioè vince, però poi di fatto perde; e quindi viene preso dalla depressione, perché vive tutto un po’ al contrario di come dovrebbe andare. È la tipica esperienza di quando si prega, cioè che si ha sempre la sensazione di non essere esauditi, o che ciò che risulta dalla preghiera è una cosa che va anche bene, ma non è quello che si era chiesto, e quindi è in qualche modo un’altra cosa. Poi abbiamo riflettuto sul tema della sovrabbondanza legato alla riflessione sul Salmo 90, e in ultimo non più il desiderio di morire, ma benedire e morire col racconto delle benedizioni finali di Mosè, un percorso cioè intorno al nucleo della vita e della morte.

Poi siamo passati al Nuovo Testamento. La volta scorsa abbiamo ragionato su un testo iniziale del Vangelo di Luca, la Presentazione al tempio di Gesù, con Simeone e Anna (Lc 2,21-52), e con l’idea dei desideri che vengono accolti, ma in un modo ancora invisibile perché quel bambino non è ancora niente. Eppure, sia Simeone, che Anna, dicono: “abbiamo visto”; Simeone dice: “Ora lascia, o Signore, che il tuo servo vada in pace, perché i miei occhi hanno visto”. Hanno visto cosa? Un neonato di cui non si sa che fine farà e cosa gli succederà, sul quale si possono augurare tante belle cose, ma ancora non c’è niente, e quindi l’idea è di rimanere sulla soglia.

La lectio di oggi

Oggi torniamo al Vangelo di Giovanni, che è quello che in questi anni trascorsi io ho più commentato, perché mi piace moltissimo, col capitolo 2, che ci presenta quello stesso bambino che, ora cresciuto, inizia il suo ministero pubblico.

Nei vangeli sinottici l’inizio del ministero pubblico di Gesù è il Battesimo, in Giovanni col primo segno, che è il miracolo di Cana. È l’inizio di un ruolo pubblico visibile, di quel bambino invisibile comincia a vedersi qualcosa, che non vuol dire che si capisce tutto, infatti si capisce poco. I suoi contemporanei, compresa sua madre, un po’ capiscono, un po’ no, non è mai lineare, ma  in qualche modo è come se quel bambino cresciuto si misura lui stesso con la realtà. Fa lui stesso, Gesù, quel percorso di cui abbiamo parlato di Elia che si trova a doversi misurare con quello che gli succede intorno, con ciò che gli viene chiesto, con ciò che accade e anche con ciò che lo fa arrabbiare.

In qualche misura entra dentro la vita, esattamente come ciascuno di noi che crescendo viene inserito nella vita, e anche il suo modo di rapportarsi al Padre in certo modo cambia. Non nel senso che cambia in assoluto, perché fin dalla creazione Gesù è “immagine del Dio invisibile, primogenito di tutta la creazione, ed è prima di tutte le cose” (Col 1,15ss), ma nella sua vicenda storica la realtà di Gesù, col suo assumere la nostra umanità, col suo essere un bambino, poi un’adolescente e un adulto, e fino al compimento della sua vita nella morte, nell’obbedienza della morte, ha funzionato per lui come per noi, sennò non sarebbe stato un vero uomo. Dunque la realtà gli ha mostrato delle cose, con cui lui ha fatto i conti, si è misurato con la propria realtà umana e quindi con la realtà che lo circondava.

In questo capitolo 2 di Giovanni abbiamo i due casi limite: un caso di festa e di allegria, e un caso d’ira. Il miracolo delle nozze di Cana e la cacciata dei mercanti dal tempio, che nella liturgia si leggono sempre separati, perché sono due episodi molto diversi. Giovanni, però, li mette insieme e li pone all’inizio del ministero pubblico di Gesù, perché sono un po’ come a dire: la vita è fatta così, ci sono cose belle e pure cose storte; ed è esattamente la stessa questione che aveva Elia: si vince e si perde, a volte si perde quando si vince, e si vince quando si perde.

Allora questo è un po’ il titolo della nostra Lectio: Gesù entra dentro la vita con tutta l’ambivalenza che questa comporta, esattamente come noi, per questo possiamo dire che è vero uomo. La sua ambivalenza è quella della vita, quella che è in sé, e che è il motivo per cui vivere stanca, perché non è tutto chiaro, non è tutto evidente, non è tutto immediatamente ricostruibile, non si sa bene dove si andrà a finire e che cosa succederà, e a volte anche con le migliori intenzioni non si danno i migliori risultati.

Il testo: Gv 2, 1-25

2 1Il terzo giorno vi fu una festa di nozze a Cana di Galilea e c’era la madre di Gesù. 2Fu invitato alle nozze anche Gesù con i suoi discepoli. 3Venuto a mancare il vino, la madre di Gesù gli disse: «Non hanno vino». 4E Gesù le rispose: «Donna, che vuoi da me? Non è ancora giunta la mia ora». 5Sua madre disse ai servitori: «Qualsiasi cosa vi dica, fatela».

6Vi erano là sei anfore di pietra per la purificazione rituale dei Giudei, contenenti ciascuna da ottanta a centoventi litri. 7E Gesù disse loro: «Riempite d’acqua le anfore»; e le riempirono fino all’orlo. 8Disse loro di nuovo: «Ora prendetene e portatene a colui che dirige il banchetto». Ed essi gliene portarono. 9Come ebbe assaggiato l’acqua diventata vino, colui che dirigeva il banchetto – il quale non sapeva da dove venisse, ma lo sapevano i servitori che avevano preso l’acqua – chiamò lo sposo 10e gli disse: «Tutti mettono in tavola il vino buono all’inizio e, quando si è già bevuto molto, quello meno buono. Tu invece hai tenuto da parte il vino buono finora».

11Questo, a Cana di Galilea, fu l’inizio dei segni compiuti da Gesù; egli manifestò la sua gloria e i suoi discepoli credettero in lui.

12Dopo questo fatto scese a Cafàrnao, insieme a sua madre, ai suoi fratelli e ai suoi discepoli. Là rimasero pochi giorni.

13Si avvicinava intanto la Pasqua dei Giudei e Gesù salì a Gerusalemme. 14Trovò nel tempio gente che vendeva buoi, pecore e colombe e, là seduti, i cambiamonete. 15Allora fece una frusta di cordicelle e scacciò tutti fuori dal tempio, con le pecore e i buoi; gettò a terra il denaro dei cambiamonete e ne rovesciò i banchi, 16e ai venditori di colombe disse: «Portate via di qui queste cose e non fate della casa del Padre mio un mercato!». 17I suoi discepoli si ricordarono che sta scritto: Lo zelo per la tua casa mi divorerà.

18Allora i Giudei presero la parola e gli dissero: «Quale segno ci mostri per fare queste cose?». 19Rispose loro Gesù: «Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere». 20Gli dissero allora i Giudei: «Questo tempio è stato costruito in quarantasei anni e tu in tre giorni lo farai risorgere?». 21Ma egli parlava del tempio del suo corpo. 22Quando poi fu risuscitato dai morti, i suoi discepoli si ricordarono che aveva detto questo, e credettero alla Scrittura e alla parola detta da Gesù.

23Mentre era a Gerusalemme per la Pasqua, durante la festa, molti, vedendo i segni che egli compiva, credettero nel suo nome. 24Ma lui, Gesù, non si fidava di loro, perché conosceva tutti 25e non aveva bisogno che alcuno desse testimonianza sull’uomo. Egli infatti conosceva quello che c’è nell’uomo.

 

Commento

Il racconto di Giovanni inizia così:

1Il terzo giorno vi fu una festa di nozze a Cana di Galilea e c’era la madre di Gesù. 2Fu invitato alle nozze anche Gesù con i suoi discepoli. 3Venuto a mancare il vino, la madre di Gesù gli disse: «Non hanno vino». 4E Gesù le rispose: «Donna, che vuoi da me? Non è ancora giunta la mia ora». 5Sua madre disse ai servitori: «Qualsiasi cosa vi dica, fatela».

Per adesso ci fermiamo qui. L’ambientazione, usando un termine tecnico, è escatologica. È un’ambientazione in cui l’inizio della vita pubblica è di entrare nella vita, ed è sotto il segno del racconto della fine. Tutte le immagini che sono usate: il banchetto di nozze, le anfore per la purificazione, l’acqua che cambia in vino, sono tutte immagini escatologiche. Per un ebreo del tempo, che aveva nelle orecchie la letteratura escatologica e anche quella apocalittica, il paragone era immediato. L’inizio dello stare dentro la vita è sotto il segno della fine, e secondo me questo aspetto è ciò che ci consente di usare questo testo per la preghiera. Perché in fondo il salto evangelico è quel passare semplicemente dal sentimento antropologico del desiderio, che tutti gli uomini e le donne vivono, al rivolgersi ad una identità che noi chiamiamo Dio, ma che si può forse chiamare in tanti modi, nella speranza che qualcuno dell’universo ascolti e collabori al raggiungimento dei propri desideri, che è l’esperienza più comune del mondo.

In altre parole l’esperienza umana comune è di sperare che i propri desideri siano in qualche modo raccolti da qualche entità, o da qualche altro essere umano, e così via. È il salto che ci mette nella logica della preghiera cristiana, che sicuramente non nega tutto il precedente, lo assume, perché ogni preghiera cristiana è anche umana evidentemente, risponde alle esigenze dell’umanità, ma lo assume mettendolo in un’altra cornice. La cornice è questa: per un cristiano che prega, la realtà ogni giorno della vita, ogni realtà che vive, è sempre finale, è sempre l’ultimo giorno, è sempre sotto la regola dell’ultimo giorno. La vita è attirata, trasformata, scritta, interpretata, vissuta, sbilanciata sull’ultimo giorno.

Tale concetto esposto in questo modo sembra faccia un po’ impressione. In modo semplice e sbrigativo vi dico che dal medioevo in poi è stato tradotto nel modo per cui tutto quello che si fa è in funzione del giudizio finale, serve per andare in paradiso o per finire all’inferno, e quindi era stato spostato tutto sul risultato, ma a noi tale maniera di intendere non basta più. È chiaro che questa impostazione, poi nel tempo, ha prodotto molti effetti negativi, pur tuttavia questa è una traduzione di una cosa che rimane vera, e che noi dobbiamo capire in un altro modo se vogliamo salvarla senza cadere in quei risultati negativi, senza appunto svalutare il tempo della storia, dicendo che la vita è una valle di lacrime, che la vita non conta niente, col risultato di vivere nell’ansia del giudizio.

Quello che rimane vero è che la vita cristiana è totalmente una preghiera, perché è sempre giocata sull’eccedenza, su ciò che non è ancora, ma che sarà, o se volete sul fatto che siamo certi che questa vicenda finirà bene, perché la salvezza è già accaduta. Quindi possiamo permetterci di vivere senza negare la fatica, il dolore, il negativo, gli errori, tutto quello che succede, affrontandoli, se riusciamo correggendoli, limitandoli, ma curando e beneficando, come viene detto nei Vangeli. Raccogliendo la dimensione di benedizione, e contemporaneamente sotto un segno, che è la festa finale, e che ogni acqua diventerà vino, che in questo gioco non si può perdere, perché Gesù ha vinto. Quindi davvero non ci si può rimettere. Ed è in questo senso che tutta la vita di un cristiano è preghiera, perché è sempre sotto il segno della speranza, non del desiderio che è mio, ma proprio della speranza, del nutrire la forza di scommettere su ciò che sarà.

Quante volte quando ci succede di fare qualcosa, anche in modo molto concreto, siamo combattuti tra due tendenze, e cioè fare solo ciò di cui siamo sicuri, di cui abbiamo deciso tutto, il governo, l’organizzazione, gli strumenti, assicurandoci che gli altri siano d’accordo, e quindi che tutto funzioni e che si giochi sul sicuro, oppure l’altra strada del bivio potrebbe essere giocare un po’ di rischio, cioè posso fare questo, quest’altro, impegnarmi, investire su tutta una serie di pezzi che dipendono da me, e poi devo anche un po’ dire: ci sono dei pezzi che non dipendono da me.

Questa è un’esperienza comune nella vita, cioè il dover spesso scegliere tra queste due possibilità. Una delle esperienze classiche rispetto a questo è la decisione di mettere al mondo dei figli: da una parte è una preoccupazione su come possiamo occuparci di loro, se abbiamo tutte le condizioni necessarie, e dall’altra è un tasso di rischio inevitabile. Perché per il fatto che il figlio è un’altra persona, da un certo punto in poi, non si può più tenerlo sotto controllo, come si è fatto fin da piccolo quando, dovendolo educare, gli si diceva: si fa così e non si fa, e sempre di più vistosamente. Man mano che cresce, prende la sua autonomia, e il genitore dice a se stesso: ho fatto quello che mi competeva, continuo a farlo, tengo il mio posto, però speriamo bene e da questo punto di vista è la classica esperienza di tutti i genitori. Non è un caso che nei nostri paesi si fanno sempre meno figli, perché tende a prevalere il bisogno di rassicurazione, di mantenere la nostra vita così com’è, di non crearsi altri problemi: cioè rischiamo di sentirlo proprio così.

Allora, da questo punto di vista, questa è la logica della preghiera cristiana, è la vita com’è giocata sulla speranza, cioè sul fatto che ogni gesto è già finale, perché di per sé i cristiani, e questo è il grande atto di fede, si mettono sempre dalla parte del bivio del rischio. Perché in realtà non rischiano, in quanto ciò in cui crediamo non comporta il rischio, perché Gesù ha già vinto il mondo, perché da quella parte lì va bene, perchè non sono io che assicuro tutte le condizioni, ma la storia finale è già raccontata. E questo fatto, cioè che la realtà è sempre finale, è caratterizzato, e si vede benissimo nei primi cinque versetti, da un gioco di relazioni: c’era la madre di Gesù, poi hanno invitato anche Gesù e i suoi discepoli, allora Maria dice a Gesù: “non ha più vino” e lui dice: “che c’entro io? Non è ancora arrivato il tempo”, lei parla coi servi e dice: “fate ciò che vi dirà”, cioè c’è tutto questo sbilanciamento sui finali, e il segno del finale sono gli altri. E non è un dato astratto, è lo spostamento, è il peso che comporta la presenza degli altri, il fatto che gli altri ci provocano a fare ciò per cui non è ancora giunta l’ora, il peso del non sono pronto, del non è il momento.

La conclusione di questi cinque versetti che afferiscono all’ambito escatologico, e che spero che adesso questa espressione sia più chiara rispetto all’inizio, è che la madre dice ai servitori: “qualsiasi cosa vi dica, fatela”, che è come se non si pregasse neanche più, non si rivolge nemmeno più a Gesù, si rivolge agli altri e dice: quello che in qualche modo si mostra dalla parte di Dio dev’essere fatto, punto, fine.  Questa è la preghiera nella speranza, dentro la vita.

6Vi erano là sei anfore di pietra per la purificazione rituale dei Giudei, contenenti ciascuna da ottanta a centoventi litri. 7E Gesù disse loro: «Riempite d’acqua le anfore»; e le riempirono fino all’orlo. 8Disse loro di nuovo: «Ora prendetene e portatene a colui che dirige il banchetto». Ed essi gliene portarono. 9Come ebbe assaggiato l’acqua diventata vino, colui che dirigeva il banchetto – il quale non sapeva da dove venisse, ma lo sapevano i servitori che avevano preso l’acqua – chiamò lo sposo 10e gli disse: «Tutti mettono in tavola il vino buono all’inizio e, quando si è già bevuto molto, quello meno buono. Tu invece hai tenuto da parte il vino buono finora».

Anche in questa part, il tono è nettamente escatologico: si parte da un oggetto, le anfore, che servono per la purificazione, che rappresentano la vecchia alleanza, la Legge, il passato, le radici, che servono per fare il passaggio. Non si può fare a meno di queste anfore, ma la purificazione sparisce, non c’è più puro e impuro, perché se si entra nella vita si esce dalla purificazione.

E questa secondo me è una cosa bellissima rispetto alla nostra riflessione sulla preghiera. Il sapere o non sapere pregare, il chiedersi se si prega o non si prega, il quantificare o meno la propria preghiera fa parte di un legittimo e umanissimo sentimento, ma quando tutta la vita diventa una preghiera si esce da questo sentimento. Alcune cose prendono la loro forma da sole, che poi siano consuete, facciano parte di una lunga tradizione, siano gesti o parole che tanti altri cristiani hanno ripetuto, oppure siano inconsuete, non siano state mai dette prima di me, forse neanche qualcun altro dopo di me le dirà mai, questo è indifferente.

Gesù dice di riempire d’acqua le anfore e poi dice: “portatele a colui che dirige il banchetto”. Gesù rispetta le leggi di autorità della vita com’è, non fa violenza alla realtà, quelle anfore servono per l’acqua e chi dirige il banchetto è la persona che ha il diritto e il dovere di controllare le cose prima che vadano in tavola. Quindi rispetta perfettamente le regole del gioco, solo che succede un’altra cosa, ed è esattamente questa la questione: vivere ogni gesto come finale, significa che, pur giustamente rispettando la realtà, succede un’altra cosa, perché ciò che è finale irrompe già qui, e succede un’altra cosa. E il commento di colui che dirige il banchetto è bello, perché vede le cose dal punto di vista normale, non si stupisce più di tanto se non del fatto di dire che di solito prima si servono le cose migliori, poi quando la gente è un po’ sbronza, può andare bene anche la seconda scelta, e dice allo sposo: “tu invece hai fatto il contrario, che strana cosa: adesso arriva il più buono”.

È sicuramente l’attestazione della bontà, ma è anche il ragionamento normale, ed è molto interessante, perché quelli che sanno la notizia vera, quelli che escono dall’ambiguità e sanno che questo è il frutto della preghiera, sono i servi. Per usare il linguaggio di Papa Francesco sono i poveri, quelli che non contano niente, quelli che non sono invitati al banchetto, che non hanno nessuna autorità, quelli che sono lì per andare avanti e indietro servendo un cibo che non mangiano e un vino che non bevono, però sono gli unici che sanno la verità. E questo ci dovrebbe far riflettere un po’, perché forse per rimanere nel fatto che la realtà per un cristiano è sempre finale, bisogna pensarsi innanzitutto come servi e non innanzitutto come invitati, o più ancora come coloro che dirigono il banchetto, perché se si vuole sapere la verità bisogna passare attraverso quella porta.

Tu invece hai tenuto da parte il vino buono finora”: qui c’è tutto il ragionamento che facevo prima, cioè c’è il normale buon senso, ma anche c’è di più, perché questa è veramente la struttura eucaristica: il meglio deve ancora venire. È la conclusione logica dell’inizio escatologico, il meglio arriva alla fine, che esattamente nemmeno riusciamo ad immaginarci, secondo un normale ragionamento, che il meglio che debba ancora venire. E si capisce perché, nel ragionamento di Elia, ad esempio, si rovesciano le logiche, ma non le leggi della realtà, la realtà ha la sua ambivalenza, le sue leggi, e Gesù le rispetta, ma ciò che accade è un’altra cosa, ed è una cosa inattesa, inaspettata.

E qui finisce il primo episodio e finisce con questo versetto che è quasi di commento:

11Questo, a Cana di Galilea, fu l’inizio dei segni compiuti da Gesù; egli manifestò la sua gloria e i suoi discepoli credettero in lui.

Potrei spiegare a lungo l’uso dei segni in Giovanni. Su questo argomento ci sono tantissimi studi, perché Giovanni usa tanto questa parola, la usa all’inizio e alla fine del Vangelo, ha un significato per lui importante e se siete interessati ad una spiegazione anche su Internet ci sono degli ottimi articoli.

Giovanni ha molto la preoccupazione di rendere tangibile la persona di Gesù, infatti dirà “quello che abbiamo veduto, quello che abbiamo toccato, quello che abbiamo udito” (1Gv 1,1) , ha il tema dell’umanità di Gesù e del suo essere percepibile e quindi parla per segni, di qualcosa che si vede, ma contemporaneamente di qualcosa che mantiene un’ambiguità. Noi abbiamo progressivamente trasformato i segni in miracoli, che sarebbero qualcosa che si vede, e che teoricamente perderebbero la loro ambiguità, cioè un miracolo è un’auto evidenza, con l’ottimo risultato che poi con lo sviluppo della scienza siamo andati a scontro diretto, perché per il fatto che il miracolo è presentato come un’auto evidenza, tutti gli scienziati hanno cercato di dimostrare che questi miracoli erano tutti falsi.

Il problema è che Giovanni non mostra i miracoli come qualcosa di auto evidente, ma parla di segni, i segni per loro stessa natura sono ambivalenti, possono essere interpretati in modi diversi, possono essere riconosciuti o non riconosciuti. Hanno valori diversi a seconda del contesto e dei soggetti, hanno un peso diverso a seconda delle stagioni delle nostre vite. Qui Giovanni dice: “questo fu l’inizio dei segni … e i discepoli credettero in lui”, ed è interessante perché alla fine del secondo episodio al versetto 23 ss., si dirà che anche molti, vedendo questi segni, credettero in lui e si dice che Gesù non si fida.

Dei discepoli non si dice che Gesù non si fida, si dice che credettero in lui, perché i discepoli hanno con lui un rapporto costante, già strutturato in qualche modo, sono i suoi, e lui li accompagnerà, anche rassegnato al fatto che a volte non capiscono quasi niente, però si accompagnano, condividono la vita.

12Dopo questo fatto scese a Cafàrnao, insieme a sua madre, ai suoi fratelli e ai suoi discepoli. Là rimasero pochi giorni.

Cafarnao letteralmente vuol dire villaggio della consolazione, ma anche, ed è diventato nel linguaggio antico un sinonimo, con tutta una serie di ragionamenti linguistici, villaggio della confusione, del caos. E a Cafarnao, sappiamo dai Vangeli, accadono tantissime cose, si trova nella Galilea delle genti, che è il posto degli stranieri, e dove il risorto precede i suoi, c’è la casa della suocera di Pietro. Cafarnao è il posto noto, è il posto in cui prima o poi ci passavano Gesù, i suoi cugini, sua madre, tutti giravano lì: è un posto di consolazione e al contempo di confusione.

Vanno a Cafarnao, ma, dice il testo, là rimasero pochi giorni: oggi diremmo che Cafarnao è la parrocchia, dove bisogna stare poco, dove è importante tornare, ma starci dentro troppo non fa bene, perché la vita è fuori.

13Si avvicinava intanto la Pasqua dei Giudei e Gesù salì a Gerusalemme.

Anche qui si riprendono le leggi antiche e la legge antica è salire a Gerusalemme per la Pasqua e Gesù con i suoi compie questo atto, “dovuto”, e sale a Gerusalemme. Questa città è un’altra figura. La Galilea sarebbe quello che noi oggi chiameremmo il mondo, Cafarnao sarebbe quello che chiamiamo la parrocchia. Gerusalemme sarebbe il luogo intimo, il luogo dell’intimità, il luogo spirituale, quel luogo che ha ciascuno di noi nella propria storia, quel luogo originario in cui abbiamo in qualche modo sentito e risentito più volte quel motivo che ci ha fatto dire: qui c’è qualche cosa di buono, di grande. Potrebbe non essere necessariamente un luogo geografico, può essere una persona, un’esperienza, può essere tante cose, Gerusalemme è il luogo dell’intimità e nel Vangelo è il luogo del tempio, dove si sale per la Pasqua, dove si va a consumare il punto clou della questione.

14Trovò nel tempio gente che vendeva buoi, pecore e colombe e, là seduti, i cambiamonete. 15Allora fece una frusta di cordicelle e scacciò tutti fuori dal tempio, con le pecore e i buoi; gettò a terra il denaro dei cambiamonete e ne rovesciò i banchi, 16e ai venditori di colombe disse: «Portate via di qui queste cose e non fate della casa del Padre mio un mercato!».

Allora, questo episodio oltremodo famoso, che è stato letto in tantissimi modi, uno dei quali è il rapporto col denaro, che non dev’essere mescolato con la preghiera, è proprio l’esperienza, che credo abbiamo fatto tutti, della violazione dell’intimità, che è un’esperienza bruttissima. In un tempo come questo, con molti abbiamo parlato, con molti tra di noi con i quali siamo più amici, ad esempio del senso di delusione che ci attraversa rispetto alle esperienze di chiese che abbiamo amato, che ci hanno generato e che ci sembrano trasformate in luoghi violati, in luoghi dove non c’è più un’intimità possibile. Quindi se ho bisogno di ritrovare un’intimità, devo andare da un’altra parte, devo cercarmi degli altri compagni, un’altra casa. Certo poi non si può rimanere sempre nello stesso posto, se serve si fa, ma contemporaneamente si porta fuori una certa tristezza, anche una certa ira. Tra noi diciamo: ci avevo creduto solo io? Voi che siete rimasti lì non ci credevate, non ci credevate neanche allora, quando mi avete aiutato a crederci? Poi tutti passiamo varie fasi, si prova comunque a collaborare, a dare una mano per vedere se si può migliorare, ma poi diciamo anche basta, non se ne può più. Se questi vogliono distruggere tutto, lo distruggano, io cerco da qualche altra parte. Perché il luogo dell’intimità è un luogo serio, che non si può svendere a buon mercato, ma contemporaneamente deve essere un luogo, non può essere soltanto qualcosa che io ho dentro di me e basta.

Per esempio, questa esperienza della lectio è stata negli anni la tessitura di un luogo di intimità, con molti limiti, ma anche con una certa continuità nella speranza di non deluderci reciprocamente troppo; quindi, camminando un po’ tutti sulle uova, perché è molto facile deludere a questo livello.

 17I suoi discepoli si ricordarono che sta scritto: Lo zelo per la tua casa mi divorerà.

Questa è esattamente l’altra faccia sul discorso della preghiera che facevo poc’anzi, e cioè molta della nostra delusione è preghiera e zelo per una casa, e forse semplicemente si tratterebbe di non tenersela nel cuore, fino a diventare cinici, ma, appunto, farla diventare una preghiera.

18Allora i Giudei presero la parola e gli dissero: «Quale segno ci mostri per fare queste cose?». 19Rispose loro Gesù: «Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere». 20Gli dissero allora i Giudei: «Questo tempio è stato costruito in quarantasei anni e tu in tre giorni lo farai risorgere?». 21Ma egli parlava del tempio del suo corpo. 22Quando poi fu risuscitato dai morti, i suoi discepoli si ricordarono che aveva detto questo, e credettero alla Scrittura e alla parola detta da Gesù.

Questo è il motivo per cui Gesù si fida, o non si fida, dei discepoli, perché i discepoli ricordano, ricordano “dello zelo per la tua casa che mi divora”. Si ricordano di questa parola quando Gesù risuscita: ricordarsi è fondamentale, ricordarsi per essere slanciati sul finale, ricordarsi e poi qui c’è questa specie di profezia sulla risurrezione.

L’espressione “Ma egli parlava del tempio del suo corpo” è interessante perché Giovanni, che pure è così concreto come Evangelista, da alcuni punti di vista, usa soltanto due volte la parola “corpo” riferita a Gesù, una volta in questo testo e una volta quando dice che deposero il suo corpo dalla croce, e che vi era un giardino e nel giardino un sepolcro nuovo, nel quale nessuno era stato ancora posto (Gv 19,40-41b). Il corpo di Gesù è legato, per Giovanni, alla morte di Gesù. il corpo è ciò che passa, ciò che andrà perduto, perché non ci sarà un cadavere.

23Mentre era a Gerusalemme per la Pasqua, durante la festa, molti, vedendo i segni che egli compiva, credettero nel suo nome. 24Ma lui, Gesù, non si fidava di loro, perché conosceva tutti 25e non aveva bisogno che alcuno desse testimonianza sull’uomo. Egli, infatti, conosceva quello che c’è nell’uomo.

Gesù non si fida perché conosce, e perché questo collegamento: fede e segni, senza la memoria non funziona, e questo ci dovrebbe fare molto riflettere, perché la nostra tendenza è se ho dei segni credo, se non ho dei segni non credo. È un collegamento diretto tra fede e segni, dovrebbe funzionare per crederci, ma il collegamento giusto è: io credo, per questo ricordo e dunque riconosco i segni.

Esattamente come fanno i discepoli, che, poiché credono in Gesù, spesso per disperazione e non per bravura, ricordano, e ricordando riconoscono a posteriori i segni.  Gesù conosce le vite, conosce quello che c’è nell’uomo, e dunque le vite possono diventare una preghiera, sono una preghiera. sono esattamente la forma privilegiata della preghiera, a cui noi in alcuni momenti o tempi diamo una forma particolare di parole, di domanda, di desiderio, di ringraziamento, delle varie forme in cui ci capita di vivere e di essere, ma è tutto dentro la vita, nei suoi aspetti festivi e nei suoi aspetti di ira, e anche di delusione, dentro la vita. la vita è una preghiera e poiché Gesù conosce le vite, il nostro lavoro è la memoria, sennò non si può fidare.

 

Fossano, 11 marzo 2023

Testo non rivisto dall’autore

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