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11 Aprile 2015
Stella Morra

7. Cibo condiviso, del tradimento

Commento a: Mc 14, 1-28


Premessa

Stiamo riflettendo sul cibo come linguaggio elementare della vita e della fede. Nella prima parte, con i testi su Giuseppe, sulla manna e con il salmo 127 abbiamo incontrato le tre caratteristiche fondamentali – che ritorneranno nel testo di oggi – dell’esperienza umana rispetto al cibo: l’ambiguità, la questione della responsorialità e dell’affidamento e l’irriducibilità – il fatto che il cibo ha un suo nucleo duro di alterità non contrattabile.

Poi abbiamo percorso alcuni testi evangelici. Oggi affrontiamo in forma più ampia un testo ascoltato da poco, in parte, nella liturgia della settimana santa. Siamo veramente al nucleo incandescente della questione, sia dal punto di vista dell’esperienza esistenziale che da quello teologico-spirituale dell’esperienza della fede. Da una parte è riassuntivo di molti degli elementi che abbiamo detto costituiscono l’esperienza umana del cibo, dall’altra è anche il superamento, la rottura di questi elementi, posti di fronte alla domanda di diventare di più di quello che sono. Questo è il grande appello della fede, evidentemente. Non è qualcosa che si contrappone all’esperienza di essere donne e uomini, ma è in qualche modo prendere questa umanità comune a tutti e farla esplodere nella possibilità di essere se stessa oltre se stessa, aperta a qualche cosa che la rende tanto uguale quanto diversa, più coraggiosa, più vigilante, abitata dal futuro. Da questo punto di vista questo testo è – nella mia percezione – un affresco che ci pone di fronte a questo passaggio, ci fa vedere la sintesi tra l’esperienza che riguarda tutti, il lasciarci nutrire, e l’Eucarestia, l’atto che diventa per i cristiani il centro di tutta la fede. Un’esperienza basilare e un atto raffinato, articolato, complesso; una parola che dice “questo è il mio corpo, prendete e mangiate!” pronunciata in una celebrazione liturgica, colma di linguaggio simbolico, di rimando ad altro tempo e altro luogo, memoria e attualizzazione di un sacrificio e sua attualizzazione, risulta un po’ complessa da spiegare, e spiegare non basta, perché “funziona” o “non funziona” per molto altro che va al di là della comprensione del suo significato: ciascuno di noi ha fatto l’esperienza di partecipare ad alcune eucarestie con un senso profondo di vita, di realtà, di concretezza, mentre tante altre volte, con lo stesso bagaglio di conoscenze e significati compresi, siamo andati a messa perché “si deve andare a messa la domenica”. Il cristianesimo ha sempre capito l’Eucarestia al centro della propria esperienza, ma ancora di più dopo Vaticano II la Chiesa ha posto esplicitamente l’Eucarestia come “fonte e culmine”, punto di arrivo e punto di partenza, uno dei luoghi che accadono nella vita in cui uno sa benissimo che non è tutto lì, che non succede tutto in quel giorno, ma che quel giorno è importante, un compimento, una nuova sfida, una nuova promessa e una nuova premessa. Sarebbe importante più che mai, perciò, ascoltare questo testo come se non lo si avesse mai ascoltato prima, senza farsi condizionare dal fatto che sappiamo come va a finire la storia, provando a ritrovarne il sapore.

Il testo

1Mancavano due giorni alla Pasqua e agli Azzimi, e i capi dei sacerdoti e gli scribi cercavano il modo di catturarlo con un inganno per farlo morire. 2Dicevano infatti: «Non durante la festa, perché non vi sia una rivolta del popolo».

3Gesù si trovava a Betània, nella casa di Simone il lebbroso. Mentre era a tavola, giunse una donna che aveva un vaso di alabastro, pieno di profumo di puro nardo, di grande valore. Ella ruppe il vaso di alabastro e versò il profumo sul suo capo. 4Ci furono alcuni, fra loro, che si indignarono: «Perché questo spreco di profumo? 5Si poteva venderlo per più di trecento denari e darli ai poveri!». Ed erano infuriati contro di lei.

6Allora Gesù disse: «Lasciatela stare; perché la infastidite? Ha compiuto un’azione buona verso di me. 7I poveri infatti li avete sempre con voi e potete far loro del bene quando volete, ma non sempre avete me. 8Ella ha fatto ciò che era in suo potere, ha unto in anticipo il mio corpo per la sepoltura. 9In verità io vi dico: dovunque sarà proclamato il Vangelo, per il mondo intero, in ricordo di lei si dirà anche quello che ha fatto».

10Allora Giuda Iscariota, uno dei Dodici, si recò dai capi dei sacerdoti per consegnare loro Gesù. 11Quelli, all’udirlo, si rallegrarono e promisero di dargli del denaro. Ed egli cercava come consegnarlo al momento opportuno.

12Il primo giorno degli Azzimi, quando si immolava la Pasqua, i suoi discepoli gli dissero: «Dove vuoi che andiamo a preparare, perché tu possa mangiare la Pasqua?». 13Allora mandò due dei suoi discepoli, dicendo loro: «Andate in città e vi verrà incontro un uomo con una brocca d’acqua; seguitelo. 14Là dove entrerà, dite al padrone di casa: “Il Maestro dice: Dov’è la mia stanza, in cui io possa mangiare la Pasqua con i miei discepoli?”. 15Egli vi mostrerà al piano superiore una grande sala, arredata e già pronta; lì preparate la cena per noi». 16I discepoli andarono e, entrati in città, trovarono come aveva detto loro e prepararono la Pasqua.

17Venuta la sera, egli arrivò con i Dodici. 18Ora, mentre erano a tavola e mangiavano, Gesù disse: «In verità io vi dico: uno di voi, colui che mangia con me, mi tradirà». 19Cominciarono a rattristarsi e a dirgli, uno dopo l’altro: «Sono forse io?». 20Egli disse loro: «Uno dei Dodici, colui che mette con me la mano nel piatto. 21Il Figlio dell’uomo se ne va, come sta scritto di lui; ma guai a quell’uomo, dal quale il Figlio dell’uomo viene tradito! Meglio per quell’uomo se non fosse mai nato!».

22E, mentre mangiavano, prese il pane e recitò la benedizione, lo spezzò e lo diede loro, dicendo: «Prendete, questo è il mio corpo». 23Poi prese un calice e rese grazie, lo diede loro e ne bevvero tutti. 24E disse loro: «Questo è il mio sangue dell’alleanza, che è versato per molti. 25In verità io vi dico che non berrò mai più del frutto della vite fino al giorno in cui lo berrò nuovo, nel regno di Dio».

26Dopo aver cantato l’inno, uscirono verso il monte degli Ulivi. 27Gesù disse loro: «Tutti rimarrete scandalizzati, perché sta scritto: Percuoterò il pastore e le pecore saranno disperse.

28Ma, dopo che sarò risorto, vi precederò in Galilea».

Marco ha un linguaggio molto asciutto e semplice, tant’è che spesso viene utilizzato come vangelo per i bambini. In realtà se lo si legge lasciando da parte tutte le spiegazioni che già conosciamo, il testo può risultare quasi insensato. Non si capisce qual è il tradimento per esempio. Gesù era un uomo pubblico, girava per le strade e se avessero voluto arrestarlo avrebbero potuto farlo in qualsiasi momento. Qual è il tradimento di Giuda? C’è la questione un po’ misteriosa della preparazione della Pasqua, ci sono gli strani episodi (ad esempio la donna che si infuria) e Gesù che fa un ragionamento ai nostri occhi strampalato: “Prendete, questo è il mio corpo”. In sostanza, non è affatto un testo semplice. È sintetico e mette insieme elementi simbolici, non in quanto contrari al reale ma in quanto elementi che non dicono solo la materialità di quel che raccontano, ma mettono in scena un film. Se dovessi descrivere un film horror a parole inserirei una serie di cose – la porta cigola, la colonna sonora è cupa – che non raggiungono lo scopo, mentre la rappresentazione per immagini, se fatta bene, fa sì che il film possa suscitare le reazioni volute, come la paura o l’ansia. Questa è la potenza simbolica, che non posso descrivere perché non conosco i dettagli tecnici delle modalità di realizzazione di un film, ma comunque mi va il cuore in gola perché mi aspetto che succeda qualcosa.

In questo senso il nostro testo funziona, generazioni di cristiani hanno “sentito” cosa stava succedendo, senza chiedersi se la frase fosse giusta, cosa volesse dire nel dettaglio. E infatti hanno prodotto le tante storie che ben conosciamo e che colmavano le lacune testuali, consentendo di passare dall’effetto al racconto. Ad esempio: Giuda era il cassiere, di certo avido di denaro e il tradimento consisteva nel fornire l’occasione di catturare Gesù in posto appartato, ecc… Sono elementi che tutti abbiamo in testa, proprio perché abbiamo preso e unito elementi provenienti da racconti diversi per “riempire i buchi”. Leggere questo testo da un lato significa lasciargli compiere la sua funzione, ovvero “fare effetto”, come succede ad esempio nella settimana santa, quando ci immergiamo nella storia di Gesù e il testo scivola via esattamente come tutti gli altri. D’altro canto però la Scrittura si usa in molti modi, non solo nella liturgia e noi ad esempio la leggiamo relazionandola alla nostra esperienza umana, per farla funzionare con un altro effetto.

La vera domanda di questo testo ho provato a metterla nel titolo: “cibo condiviso, del tradimento”. Dico questa cosa pesantemente perché la retorica poetica su qual è il significato di condividere il cibo è molto ampia: la tavola, il banchetto fraterno, la gioia di stare insieme, ecc… Infatti i pranzi di Natale e Pasqua normalmente sono mezze tragedie, perché il più delle volte si finisce a litigare, perché non è il cibo che automaticamente crea legame, anzi il cibo condiviso divide. Il cibo è il luogo del tradimento. I pranzi che funzionano meglio sono quelli tra amici veri, in cui si mangia insieme senza preoccupazioni. Se no si ricorre alla buona educazione, ovvero si decide un posto che vada bene per tutti, si cerca di stare in una durata di tempo ragionevole, si cerca insomma di stare in una situazione che sia consona al livello di amicizia reale. Bisogna essere amici veri e anche un pizzico di alchimia speciale per stare insieme intorno a un tavolo fino a notte tarda. Il cibo ha un valore elementare, è ambiguo ed è la memoria della nostra fragilità. Il cibo, come ripetuto più volte, è un atto fondamentale, viscerale, non certo legato alla ragione: quando mangio prendo qualcosa che non sono io e lo metto dentro di me, fidandomi che quella cosa non mi avveleni, ma mi nutra. Cibarsi significa mostrare il nostro luogo più debole, dimostrare che non possiamo nutrirci di noi. Forse è per questo che per antica tradizione chi era ospite di una struttura religiosa non mangiava, perché frati e suore non mangiavano, o meglio non dovevano far vedere che lo facevano, per non mostrare la propria fragilità, poiché i religiosi rappresentavano la perfezione.

Da questo punto di vista il cibo condiviso moltiplica l’ambiguità, la rende più potente perché non mostra solo l’ambiguità della cosa in sé che può essere nutrimento o veleno, ma anche quella dell’individuo che sta di fronte agli altri mettendo a nudo il proprio bisogno. Per questo a tavola spesso si litiga e vengono fuori discorsi che per anni sono stati evitati, evidentemente con buone ragioni. In sostanza, è un luogo di verità tutt’altro che facile o banale. Non è un caso che nella nostra società siamo passati dall’invito a pranzo o a cena all’invito per un aperitivo, di certo meno impegnativo. Di per sé l’aperitivo con tartine eleganti e stuzzichini sarebbe un lusso, non un cibo vero; in realtà non è così, ma resta l’idea di base che in quel contesto non si mangia, non c’è il bisogno, non c’è debolezza.

Dunque se il cibo condiviso è il vero luogo della debolezza, comprendiamo perché i cristiani hanno sempre capito, senza troppe spiegazioni, che l’eucarestia è la memoria della morte e risurrezione. Paolo dice che è il battesimo il luogo in cui siamo immersi nella morte e risurrezione, ma i cristiani hanno sempre capito che l’eucarestia, ovvero il cibo simbolicamente condiviso, il corpo dato, è il luogo in cui si fa memoria della morte in croce e della resurrezione. Per noi è assolutamente ovvio questo legame, che di per sé non ci sarebbe, poiché manca nel gesto. Ma di fatto è nella sostanza; Gesù fa l’atto spudorato di mostrare la sua fragilità radicale. Un Dio onnipotente che si rende così impotente da condividere il cibo e morire. I sinottici raccontano che Gesù dice: “Fate questo in memoria di me”, mentre Giovanni racconta la lavanda dei piedi, così il quadro diventa molto chiaro: il cibo condiviso è la fragilità condivisa, è il non essere Dio a se stessi che viene reso pubblico intorno a una tavola. Questo è il motivo per cui ogni civiltà ha sviluppato le proprie regole di galateo, creando una ritualizzazione sociale, perché questo è un luogo di tradimento possibile, il tradimento della fragilità altrui non riconosciuta come propria, è il momento in cui di fronte a un gesto di affidamento, a una dichiarazione di non-autosufficienza, si risponde con un gesto di onnipotenza generando nell’altro umiliazione e solitudine. Paradossalmente si potrebbe dire che il cibo condiviso viene tradito da chi sceglie, perché chi sceglie governa, decide cosa è giusto o sbagliato.

Il testo è costruito molto bene dal punto di vista tecnico per provocare questa esperienza; alla fine a tutti sta antipatico Giuda, anche se non è così chiaro quale sia la sua colpa. Come è costruito? Prima della scena di condivisione del cibo crea tre livelli di contesto, tre orizzonti e poi divide la scena centrale in due eventi.

Primo contesto:

1Mancavano due giorni alla Pasqua e agli Azzimi, e i capi dei sacerdoti e gli scribi cercavano il modo di catturarlo con un inganno per farlo morire. 2Dicevano infatti: «Non durante la festa, perché non vi sia una rivolta del popolo».

Qui ci sono gli elementi basilari per comprendere qual è il male, tant’è che nel nostro immaginario scribi e sacerdoti sono cattivi nonostante sia chiaro che storicamente non fosse così; erano persone religiose e devote. Il vangelo assume queste figure a simbolo del male, non in senso morale ovviamente ma nel significato “di mettersi in altro modo”, ovvero utilizzare la struttura antropologica al negativo. Da cosa lo capiamo? Innanzitutto dal fatto che cercano la morte e non la vita. Possono anche avere ragione dal punto di vista dell’ordine costituito, ma il problema non sta nelle ragioni, perché la questione fondamentale è: ciò che ha come fine la morte non è a misura degli esseri umani, gli esseri umani vogliono vivere. In secondo luogo sacerdoti e scribi vogliono perseguire l’obiettivo con l’inganno. Infine vorrebbero che tempo, spazio e luogo non fossero quelli, perché dicono: “non durante la festa”, ovvero “la realtà non mi piace”. Il male è costituito da questi tre elementi: ha come obiettivo la morte, usa come metodo l’inganno e si basa sulla rimozione della realtà.

Secondo contesto, quello di Gesù, nella casa di Simone il lebbroso. L’epiteto che viene dato a questo personaggio ci apre un mondo: Simone non viene qualificato in senso morale (non è un peccatore), né in senso sociale (scriba, fariseo) e non è un discepolo quindi non è caratterizzato rispetto al suo legame con Gesù. È semplicemente il lebbroso e nel mondo ebraico c’è davvero poco di peggio della lebbra, segno della non purezza rituale dunque per molti motivi immagine stessa dell’esclusione. Questo problema è talmente forte, legato evidentemente all’esigenza sanitaria di evitare i contagi, che di molti santi si dice che il momento di conversione arriva dopo l’incontro con un lebbroso. La lebbra è visibile, suscita ribrezzo, è una fragilità inevitabile e non ha nulla a che vedere con l’aspetto morale. Gesù non incontra Simone per caso, va a trovarlo a casa volutamente. Mentre si trova lì giunge una donna che porta un vaso di profumo e secondo alcuni si tratterebbe dell’adultera di cui si parla nel vangelo di Giovanni (Gv 8,1-11). Di fatto questo non è scritto, ma poiché Gesù è a casa di un lebbroso, con una donna di cui non sappiamo nulla di preciso, la tradizione colma la lacuna e decide che si tratta di una peccatrice, ovvero vuole dirci che in quel momento Gesù è con la peggiore compagnia possibile. La donna lo unge di olio e il testo dice che si tratta di un’unzione “previa” poiché quando le donne dopo la sua morte andranno al sepolcro con gli oli lo troveranno vuoto. Aldilà di questo a noi interessa il fatto che il primo contesto spiega cos’è il male, il secondo cos’è il bene, che si traduce nello stare in casa di un lebbroso con una donna ritenuta una peccatrice che compie un “atto di lusso”. In effetti i presenti sono indignati:

«Perché questo spreco di profumo? 5Si poteva venderlo per più di trecento denari e darli ai poveri!». Ed erano infuriati contro di lei

Il bene sta dalla parte del lusso. E Gesù risponde:

7I poveri infatti li avete sempre con voi e potete far loro del bene quando volete, ma non sempre avete me.

Questo è lo sfondamento: usare il denaro per aiutare i poveri è importante, necessario e rende umani, ma Dio è una esperienza di lusso. Il dramma del cristianesimo è sempre stato: “Perché aiutare i poveri se sono detti beati? Se sono poveri in questa vita hanno più facile accesso in paradiso”. Questo testo dice una cosa molto semplice: la giustizia, la corrispettività, lo stare dalla parte dei fragili sono cose necessarie perché siamo umani e su questo Dio aggiunge il lusso dello spreco. Uno dei versetti su cui le teologhe femministe hanno molto riflettuto è:

9In verità io vi dico: dovunque sarà proclamato il Vangelo, per il mondo intero, in ricordo di lei si dirà anche quello che ha fatto».

In effetti uno dei libri più importanti di teologia femminista si intitola In memoria di lei e si chiede come mai abbiamo oscurato questa memoria che il vangelo di Marco proclama con grande potenza. Tutti conosciamo Pietro e Paolo ma non tutti sappiamo chi era la donna dell’unzione di Betania.

Terzo contesto: dove siamo noi in questo racconto?

10Allora Giuda Iscariota, uno dei Dodici, si recò dai capi dei sacerdoti per consegnare loro Gesù. 11Quelli, all’udirlo, si rallegrarono e promisero di dargli del denaro. Ed egli cercava come consegnarlo al momento opportuno.

Noi siamo posti nella necessità di reagire di fronte alla fragilità, innanzitutto a quella di Dio in Gesù, prima ancora di quella dei poveri. Da che parte ci vogliamo mettere? Cosa ne facciamo di questa fragilità?

Dunque la narrazione del cibo condiviso diventa il luogo in cui si verificano il male, o il bene, o il dove ci mettiamo noi; i tre contesti prendono movimento.

Come sono costruite le due parti del racconto? Nella prima, poco chiara, i discepoli chiedono a Gesù dove vuole celebrare la Pasqua e dopo le spiegazioni la cosa si realizza. Lo dico in modo un po’ provocatorio: la logica di questo brano è simile a quei passi di Matteo sulla Provvidenza. Ha un tono misterioso come a dire: “non preoccupatevi, potete mostrare la vostra fragilità perché ci sarà un luogo in cui appoggiarla. Potete avere bisogno di condividere il cibo perché c’è un luogo in cui questo si può fare”. Se Dio ha cura dei gigli del campo che non seminano e non mietono, tanto più avrà cura di voi. C’è un luogo in cui si può essere fragili senza per questo essere feriti. È il cuore di Dio e nella storia è l’eucarestia, dove ognuno di noi può essere il proprio bisogno.

La seconda parte del racconto è quella più conosciuta.

18Ora, mentre erano a tavola e mangiavano, Gesù disse: «In verità io vi dico: uno di voi, colui che mangia con me, mi tradirà».

È interessante perché Marco ci mostra bene quel che dirà Paolo sul fatto che l’eucarestia può essere benedizione o condanna. Ci mostra bene che non è l’atto in sé a renderci migliori o peggiori e non dice che i Dodici accettano il corpo di Gesù mentre Giuda non lo fa perché è cattivo o perché lui non ha capito e gli altri sì. Marco si preoccupa di dirci: tutti rimarrete scandalizzati. Non si tratta di capire nel senso di essere o non essere d’accordo, ma di corrispondere debolezza a debolezza, fragilità a fragilità oppure di rispondere a fragilità con decisione autonoma. Si tratta di considerare la fragilità come un problema e scegliere una strada per risolverlo. Invece Pietro e gli altri, come dimostra tutto il racconto della passione fino a Pentecoste, non capiscono e sono impauriti ma corrispondono fragilità a fragilità.

Per tornare al nostro linguaggio elementare, quello che si tradisce è l’affidamento, l’irriducibilità del cibo condiviso. Non si tradisce Gesù in sé ma la struttura fondamentale del nostro dire: ogni volta che ci nutriamo non ci bastiamo da soli, abbiamo bisogno di altro diverso da noi. Dire che questo è in una relazione, in una responsabilità e dire che questo richiede le mie scelte ma al tempo stesso le supera, ha una sua durezza che mi si impone, ha un suo sapore che non posso decidere io. La docilità verso questa struttura della vita è il modo di non tradire e per questo la Chiesa dice ai cristiani che almeno una volta la settimana dovrebbero celebrare l’eucarestia, che lo capiscano o no, almeno una volta la settimana dovrebbero fare l’esperienza di rinnovare la propria fragilità come una fragilità rispettata, affidata, responsoriale e che riconosce il reale.

La questione non è credere o no in Gesù come atto intellettuale (discepoli versus Giuda) anche se noi oggi giudichiamo i credenti e non credenti sulla base di questo. Qui la questione è un’altra: tutti sono scandalizzati, tutti sono infuriati sullo spreco della donna, Giuda come gli altri, ma alcuni rimangono docili all’interno di un movimento semplice di affidamento della propria fragilità, mentre Giuda dice: “adesso ci penso io”.

Questo è veramente il cuore ardente. In effetti molte discipline spirituali e monastiche pongono grande attenzione nel regolare il rapporto con il cibo, perché è un esercizio quotidiano. Quando la nostra società era più povera c’era un senso sacro del cibo e la tradizione cattolica riservava al pane un atteggiamento di rispetto, quasi eucaristico e per certi versi forse un po’ magico, ma l’idea era che in ogni gesto di cibo si fa una esperienza eucaristica e che l’eucarestia che celebriamo in chiesa è “semplicemente” lo sfondamento, l’apertura di quel gesto che facciamo più volte al giorno alla sua relazione originaria, che è la relazione con la fragilità di Dio. Certo questo non ce lo possiamo dare da soli. Al catechismo da piccoli ci insegnano che ci vuole lo Spirito Santo affinché quel pane diventi il corpo di Cristo e il sacerdote durante la consacrazione impone le mani (epiclesi), un gesto antico che dimostra la discesa dello Spirito; l’idea che lo sfondamento sopporti la fragilità di Dio senza scappare è davvero un luogo fondamentale che non possiamo darci da soli.

Questo è uno dei motivi per cui nel bene e nel male si è spesso identificato il cristianesimo con l’andare a messa o no; aldilà di tutte le idiosincrasie che abbiamo rispetto a questa questione ciascuno di noi sente che quello è un luogo decisivo e tutti abbiamo sempre più voglia di scappare perché è pesante sopportare la fragilità di un altro, a maggior ragione se è quella di Dio.

Fossano, 11 aprile 2015

(testo non rivisto dal relatore)

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