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20 Dicembre 2014
Stella Morra

3. Il sudore, del risultato

Commento a: Sal 127 (126)


Premessa

Siamo al terzo passo della nostra riflessione sulla scrittura a partire dal tema del cibo. Parlare del cibo significa ricostruire quello che abbiamo chiamato – usando la definizione di Andrea Grillo – un “linguaggio elementare” della vita nella fede: ci sono alcuni movimenti profondi, esperienze primarie nella nostra vita che ne costituiscono l’architrave; per molto tempo negli ultimi tre-quattro secoli, tutti abbiamo abitato i piani attici della nostra vita, i linguaggi complessi, perché apparentemente il progresso, lo sviluppo tecnologico, l’aumento del benessere ci avevano consentito di mettere da parte il linguaggio elementare dell’esistenza, nella grande illusione collettiva per cui i problemi non ancora risolti – o non risolti per tutti – prima o poi avrebbero trovato risposta. Per esempio il problema della fame: le nostre società sviluppate non avevano più questo problema, tutt’al più quello opposto, dell’eccesso di cibo, dell’obesità: la fame rimaneva nei paesi chiamati – appunto – “in via di sviluppo”. Il termine stesso indicava la fiducia che, con l’aiuto dei paesi ricchi, anche gli altri sarebbero presto arrivati a debellare la morte per fame.

Negli ultimi 30-40 anni, per i cambiamenti climatici, la crisi economica, la consapevolezza legata all’uso sempre più diffuso e complesso delle nuove tecnologie, abbiamo mano a mano compreso che i linguaggi elementari non possono essere accantonati, in primo luogo perché non è vero che sono acquisiti per tutti e definitivamente; poi perché ogni tipo di soluzione comporta risvolti anch’essi problematici, che non siamo affatto preparati ad affrontare. Per esempio, i progressi in campo medico hanno portato ad un allungamento della vita, ma i problemi restano, legati alla qualità: sempre di più si vivono lunghissimi periodi in cui abbiamo bisogno di essere accompagnati, perché da soli non ce la facciamo; oppure, sempre di più è necessario dover decidere – apparentemente a livello medico – quando morire, perché ci sono situazioni in cui una persona potrebbe rimanere in vita all’infinito con una vita “a metà”, e così via. Ogni problema elementare apparentemente risolto nelle modalità in cui si è posto per millenni, in realtà ci presenta il conto da un’altra parte: il fatto che le nostre attività non più strettamente condizionati dal clima – che faccia troppo freddo o troppo caldo, che le giornate siano lunghe o corte – perché abbiamo la luce elettrica e il riscaldamento, ha il suo drammatico risvolto nei cambiamenti climatici, per cui sempre più siamo soggetti ad eventi estremi che ci riportano in balia della natura: nel 2012 sono stati più di 34 milioni i profughi ambientali, costretti ad abbandonare la propria terra per motivi climatici, come gli abitanti delle isole Carteret (Papua Nuova Guinea), sommerse a causa dell’innalzamento del livello del mare. Solo alcuni esempi per dire che i linguaggi elementari stanno richiedendo una nuova attenzione, che ovviamente non può più basarsi su processi, metodi e stili che hanno caratterizzato i millenni precedenti, perché è un cambiamento radicale avvenuto nel giro di poche generazioni.

Per questo ha un senso occuparsi dei linguaggi elementari dell’esistenza, non solo per la vita, ma anche per la fede, perché la nostra esperienza di fede, che si è data una forma in relazione alla cultura di cui siamo impregnati, si è sempre più caratterizzata nella razionalizzazione e nell’incapacità radicale di dire una parola di salvezza sui linguaggi elementari dell’esistenza, quando invece l’esperienza di fede appartiene in modo privilegiato ai linguaggi di fondo dell’esistenza, i movimenti antropologici profondi: ammalarsi, vivere, crescere, educarsi, nutrirsi e sempre più siamo disarticolati rispetto a questo, come se la nostra esperienza di fede si fosse polverizzata in riflessioni sulle ultime conseguenze senza più riflettere sulla sostanza. Spesso di fronte ad alcuni dibattiti, di sapore a volte ideologico, sulla fine della vita, si spacca il capello in quattro, ma non si riesce a dire una parola sulla questione vera: il problema non è decidere fino a che punto possa essere utilizzata o meno quella tale tecnologia, ma avere una comprensione possibile di che cosa significa vita, e credo che questa sia una delle domande più difficili da affrontare da sempre.

Questo è uno dei motivi per cui ci occupiamo di una questione apparentemente strampalata, il cibo, che fa parte invece dei linguaggi elementari dell’esistenza, una di quelle dimensioni che paradossalmente da un lato non cambiano mai ma contemporaneamente si modificano rispetto ai processi culturali e tecnologici in atto che hanno cambiato i quadri interpretativi di fondo.

Da alcuni anni dedichiamo i primi incontri utilizzando i testi dell’Antico Testamento per mostrare gli aspetti più spiccatamente antropologici della questione, comuni a tutti gli umani, per affidare poi a testi del Nuovo gli aspetti più cristologici, che offrono la possibilità di una riflessione più spiccatamente cristiana. Abbiamo cominciato con la storia di Giuseppe e con la considerazione che ciò che è elementare è anche ambiguo: le strutture elementari dell’esistenza non sono né buone né cattive, e non neppure è così facile dire come usarle in modo buono o in modo cattivo, perché non sopportano una riduzione moralistica; non solo sono sempre ambivalenti – come tutte le cose, possono essere usate con buone o pessime intenzioni – ma sono proprio ambigue in sé, hanno sempre costi troppo cari a fronte dei risultati, come ci ha mostrato la storia di Giuseppe il nutritore. Perché l’ambiguità sia percorribile e in qualche modo redenta servono dei soggetti, ci vuole qualcuno che ci metta la faccia, che si prenda la responsabilità, anche di sbagliare, e che trasformi quella struttura elementare in una benedizione.

Il secondo testo era quello della manna, da cui abbiamo colto che ciò che è elementare ha una struttura responsoriale, non lo produciamo da noi. Il self-made-man è un mito, non esiste, nessuno si è fatto da solo. Il fatto che siamo per definizione in relazione, che dobbiamo fidarci del cibo che viene da altrove, introdurre in noi qualcosa di esterno fidandoci che ci nutrirà e non ci avvelenerà, non è una struttura responsoriale di tipo mieloso: non c’è nulla di più pericoloso al mondo dell’altro e della relazione, struttura elementare dall’altissimo tasso di ambiguità. Ci si può ferire anche senza cattive intenzioni, ancora una volta è necessario un soggetto, una persona che assuma la relazione come atto di fiducia, di apertura alla parte buona dell’ambiguità affidando all’altro la possibilità di essere buono oppure no. Da questo punto di vista, il passaggio di oggi è semplice e contemporaneamente terribile. Semplice perché è un salmo breve, conosciuto, dolce. Ma ci mette di fronte al grande tema della produttività, del rapporto tra fatica ed esito: le cose elementari della vita non rispondono all’equazione fatica = risultato, in mezzo ci sta un mix tra incerto, fortuna… ma prima o poi arrivano ad un risultato, alla fine il cibo c’è o non c’è.

Alla fine c’è un dato di realtà, non un’idea o un’opinione, il luogo dove la realtà mi si impone, ha un legame con la mia fatica, ma non solo. Il nucleo oggettivo è irriducibile.

Il testo

1Se il Signore non costruisce la casa,

invano si affaticano i costruttori.

Se il Signore non vigila sulla città,

invano veglia la sentinella.

2Invano vi alzate di buon mattino

e tardi andate a riposare

voi che mangiate un pane di fatica:

al suo prediletto Egli lo darà nel sonno.

3Ecco, eredità del Signore sono i figli,

e sua ricompensa il frutto del grembo.

4Come frecce in mano a un guerriero

sono i figli avuti in giovinezza.

5Beato l’uomo che piena ne ha la faretra:

non dovrà vergognarsi

quando verrà alla porta

a trattare con i propri nemici.

Come spesso capita, ai salmi, l’immagine è poetica, ma fanno parte di un sapere elementare della vita, c’è la pace e la guerra, la ricchezza e la povertà, i malvagi e i buoni, ma insieme costituiscono una struttura tutt’altro che sciocca, un sapere molto antico. Ho detto che di solito leggiamo i brani dell’Antico Testamento in chiave antropologica, ma in questo salmo c’è subito un richiamo a Dio: “Se il Signore non costruisce la casa”… Quando si parla di oggettivo, i credenti devono ricordarsi che c’è un’unica realtà che ha la signoria assoluta, ed è il Signore. Questo salmo mette a dura prova la nostra esperienza elementare della fede. Essere credenti o non esserlo si differenzia non tanto nell’essere d’accordo su questioni di contorno, ma nell’atteggiamento del vivere riconoscendo qual è la realtà, a chi diamo l’onore di essere la realtà che permane, che non si cambia, che fa da misura a tutto il resto. Il credente pensa che questa realtà attiene solo a Dio, che tutto ciò che viviamo concretamente come realtà è una realtà seconda. Questo non vuol dire che non sia importante, che non valga niente, ma c’è un unico punto in cui l’ambiguità si scioglierà definitivamente, ed è il Signore; in tutti gli altri punti ci sarà sempre un tasso più o meno ampio di ambiguità. Questo richiede un atteggiamento di fiducia nell’esistente, ma nello stesso tempo un atteggiamento realistico: non c’è risultato che sia privo di ambiguità. Un credente si chiede sempre qual è l’altro pezzo, il bene in ciò che ci appare male e viceversa.

In questo senso il salmo dice:

Se il Signore non costruisce la casa,

invano si affaticano i costruttori.

Se il Signore non vigila sulla città,

invano veglia la sentinella”

Ogni nostra costruzione, ogni nostra veglia avrà sempre in sé un margine di ambiguità. Quando va bene e nessuno ci smaschera, sembra che tutto sia andato bene, l’altro pezzo non è venuto fuori. Ma dobbiamo sempre chiedercelo: in questa nostra azione buona, dove sta il male? E in questa nostra azione malvagia, dove sta il bene? Perché noi siamo ambigui e solo la città costruita dal Signore, la Gerusalemme Celeste, è fuori dall’ambiguità, totalmente oggettiva, il vero risultato.

E’ interessante ciò che ci viene detto qui, con la durezza che i linguaggi elementari richiedono: spesso ci chiediamo qual è la differenza tra un credente e un non credente. La differenza è qui, sulle questioni elementari, e non mette in gioco la possibilità di stimarsi, rispettarsi, riconoscere la bontà dell’altro, costruire insieme. Ma in alcune questioni di fondo rispetto all’esistenza siamo su versanti diversi, che non vengono fuori quotidianamente, non dividono, sono differenze inclusive, ma ci sono. Da questo punto di vista la struttura responsoriale di cui abbiamo parlato e che vale per tutti gli esseri umani, prende un colore molto forte, perché i credenti pensano che l’unico Altro totalmente affidabile, oggettivo senza ambiguità, è Dio, l’unico di cui ci possiamo fidare e a cui affidarci. Per questo possiamo fidarci di tutti, perché abbiamo già in conto che ci tradiranno, e che ciò è totalmente irrilevante, perché sappiamo che gli umani tradiscono.

In questo il salmo individua due movimenti non casuali: “Se il Signore non costruisce la casa” e “se il Signore non vigila sulla città”. Nel linguaggio antico la casa rappresenta il privato, l’interiorità, i legami familiari; la città – o il campo – rappresenta il pubblico, la comunità, la vita sociale. Il Signore deve compiere due azioni perché la casa e la città funzionino: costruire la casa e vigilare sulla città. Due bellissimi movimenti: il privato va costruito e il pubblico va vigilato. E su questi movimenti si dice che l’unico che può farli davvero bene è il Signore; ma spesso la Scrittura ci dice che il padrone è partito, lasciando la casa e il campo al maggiordomo. Questo diventa visibile con la venuta di Cristo e la sua successiva ascesa al cielo. Questa casa e questa città, fondati dal Signore, l’unico senza ambiguità, sono dati in amministrazione, e noi siamo posti tra l’ “invano” – perché non siamo il Signore – e la necessità di fare ciò per cui siamo stati delegati. E’ l’impossibile necessario dell’esperienza della fede, che non è ragionevole, ma un gesto di fiducia e di affidamento primario, un po’ primitivo, animale. Costruire e vigilare nell’ambiguità, contando sul fatto che il Signore sistemerà.

Poi c’è un terzo movimento, che riguarda più da vicino la nostra riflessione sul cibo:

Invano vi alzate di buon mattino

e tardi andate a riposare

voi che mangiate un pane di fatica:

al suo prediletto Egli lo darà nel sonno”

Dormire poco e sudare fatica non garantiscono il risultato. Ma non solo, c’è anche lo sberleffo: al prediletto viene dato il pane nel sonno, quando fa esattamente ciò che a noi manca, il dormire. E questo ci dà proprio fastidio! La domanda elementare che ci viene è immediata e seria: perché il Signore, che è fuori dall’ambiguità, è così profondamente ingiusto? La prima risposta che potremmo dare è che forse la nostra idea di giustizia sta essa stessa nell’ambiguità. Negli anni ’70 si diceva che ci sono due tipi di giustizia: fare parti uguali fra tutti o fare parti diverse tra diversi, e che si può decidere, su un criterio di pretesa oggettività se affidarsi all’una oppure all’altra. La logica della giustizia che fa parti uguali ci serve, è necessaria nel tempo dell’ambiguità, perché almeno si fanno le parti uguali. Ma è come la legge del taglione nella scrittura, cui noi guardiamo un po’ scandalizzati se non ricordiamo che quello era il limite possibile della vendetta. E noi ci sentiamo molto più evoluti perché applichiamo una giustizia che, almeno, fa le parti uguali, o almeno ce lo diamo come obiettivo. Non proprio una grande evoluzione dalla legge del taglione. Da questo punto di vista il Signore è molto ingiusto, tutto il Vangelo ci dice che secondo il Signore non si fanno parti uguali tra diversi (gli operai dell’ultima ora, la parabola dei talenti…), la giustizia del Signore è fuori da ogni ambiguità. Il Signore mostra che il risultato non è in funzione della fatica, che non siamo dei self-made-man, che siamo esseri che sopravvivono per gratitudine, perché altri hanno pietà. E questo è un dato estremamente radicale: noi dobbiamo fare la nostra parte, in qualità di amministratori. Ma, come dice il Vangelo, quando abbiamo fatto tutto questo siamo servi inutili. Fare la nostra parte riguarda noi, non il risultato. Si fa bene il proprio lavoro perché alla sera si vuole essere contenti di ciò che si è fatto; si passa troppo tempo nella vita a lavorare per potersi permettere il lusso di farsi un po’ schifo tutte le sere. Se poi questo corrisponde anche a un risultato, fa piacere e qualche volta succede, qualche volta qualcuno torna e ti dice “grazie”! Molto più spesso i lavori che amiamo di più sono quelli che ci pagano di meno, o non ci pagano per niente, e infatti ci siamo inventati gli hobby, attività che ci piacciono molto e che nessuno ci paga, anzi, normalmente ci fanno spendere… Non c’è una relazione diretta tra impegno e risultato, perché l’impegno riguarda me, la mia identità, ciò che io faccio con le mie mani, la mia intelligenza, i miei sensi, dice qualcosa di me. E ciò che mi viene da altrove mi nutre gratuitamente, e non ne ho un diritto.

Per capire questo fino in fondo bisogna andare al quarto movimento del salmo, che per noi spesso è difficile da capire perché su quest’altra struttura elementare, il generare figli, la nostra mentalità è lontana anni luce da quella del tempo in cui questo salmo è stato scritto. La connessione tra i primi tre movimenti, costruire, vigilare, faticare-cibarsi, e l’ultimo è “Ecco”, temine che significa “infatti”, risultato di tutto il ragionamento precedente, connessione di consequenzialità:

Eredità del Signore sono i figli,

e sua ricompensa il frutto del grembo.

Come frecce in mano a un guerriero

sono i figli avuti in giovinezza.

Beato l’uomo che piena ne ha la faretra:

non dovrà vergognarsi quando verrà alla porta

a trattare con i propri nemici”

Nell’antichità generare, fare figli era l’unica possibile assicurazione sulla vecchiaia, una forma di dare carne alla fiducia sul futuro, sul fatto che i figli sarebbero cresciuti e si sarebbero presi cura dei genitori invecchiati. Noi oggi paghiamo le assicurazioni sanitarie e quelle sulla vita, ed è tutto più meccanico, il risultato è più certo, anche se tutti abbiamo realizzato, nel 2008 o giù di lì, che anche questa certezza è fallibile, qualcosa di strano potrebbe sempre succedere. Perciò siamo di nuovo un po’ più in grado di capire che cosa significa la fiducia nel futuro, mettere al mondo dei figli sperando che crescano – la mortalità infantile ai tempi di questo salmo era altissima – perché abbiano cura di noi nella vecchiaia, sempre che ci arriviamo – anche la speranza di vita era molto bassa. Il tutto nella convinzione che i figli rimangano lì vicino, continuino ad amare i propri genitori e siano nella condizione di aiutarli. Insomma, avere figli era un investimento alla cieca; inoltre, fare un figlio poteva essere il frutto di una decisione, ma anche no, e non c’erano molti mezzi per cambiare la realtà, quindi era una struttura responsoriale rispetto alla vita, sia che i figli venissero, sia che non venissero. In terzo luogo, fare figli era una scommessa sull’alterità: il figlio poteva crescere malvagio, malato e bisognoso di cure… un esercizio di affidamento. Per noi l’immagine dei figli è troppo restrittiva rispetto ad allora, perché ci porta verso una strada fatta di fatiche, gioie, delusioni, diritti, che ci deviano rispetto al senso di questo movimento: qui non si parla soltanto di figli concreti, ma della capacità di investire con un tasso di rischio che per chiunque di noi oggi sarebbe troppo alto, inaccettabile. Investire su qualcosa di altro da noi che sia chiama, appunto, generare, non investire. E si genera in tanti modi: si genera cultura, denaro… ma generare è diverso da investire, perché non mette al primo posto il risultato, ed è un lavoro sul tempo, sull’alterità, sul futuro. E in questo senso i figli sono ricompensa, frecce, motivo di non doversi vergognare. Generare è una ricompensa a se stesso, è una freccia lanciata, il motivo per cui alla fine non ci si vergogna. Da questo punto di vista la risposta alla domanda perché il Signore è così ingiusto diventa evidente, perché l’esperienza della fede, il fidarsi di Dio è sbilanciarsi sull’eccedenza, non sul risultato, e questa è per noi una regola molto difficile. Ci si sbilancia su ciò che non governo, sul pezzo di me che non controllo, ha una sua autonomia. L’esperienza della fede è muoversi su quel pezzo di me che riconosco come mio solo quando mi viene regalato da qualcun altro, un pezzo di me che vedo nella faccia degli altri, non ciò che io decido, costruisco, su cui investo. La cultura di oggi, tutta concentrata sui diritti individuali, non ci aiuta molto, perché in realtà la vera questione è quella dei doveri e non in senso moralistico. Il noto proverbio “prima il dovere, poi il piacere” è una distorsione, perché l’opposto di dovere è diritto, non piacere, ed è questa logica distorta che rende il dovere non piacevole. In realtà il dovere è quello che io vedo riflesso, è il bisogno dell’altro che mi raggiunge, che chiama in vita un’eccedenza di me. E’ la fame dell’altro che mi fa diventare nutritore, come Giuseppe, ed è l’impotenza di Dio in Cristo che mi rende discepolo, non la sua potenza.

Ragionando su questo salmo semplice e terribile, mi chiedevo se c’era un modo per dirlo oggi ed ho ritrovato una poesia di Turoldo che mi sembra la versione odierna di questo salmo antico. Ve la offro:

E NON CHIEDERE NULLA

Ora invece la terra

si fa sempre più orrenda:

il tempo è malato

i fanciulli non giocano più

le ragazze non hanno

più occhi

che splendono a sera.

E anche gli amori

non si cantano più,

le speranze non hanno più voce,

i morti doppiamente morti

al freddo di queste liturgie:

ognuno torna alla sua casa

sempre più solo.

Tempo è di tornare poveri

per ritrovare il sapore del pane,

per reggere alla luce del sole

per varcare sereni la notte

e cantare la sete della cerva.

E la gente, l’umile gente

abbia ancora chi l’ascolta,

e trovino udienza le preghiere.

E non chiedere nulla.

Fossano, 20 dicembre 2014

(testo non rivisto dal relatore)

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