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14 Febbraio 2015
Stella Morra

5. Dividere l’eredità, della giustizia

Commento a: Lc 12, 13-21


Premessa

Stiamo riflettendo sul cibo come linguaggio elementare della vita, e dunque anche della fede. Siamo partiti ragionando non tanto sul cibo in sé, ma su queste dimensioni elementari che sono apparentemente semplici, elemento di costruzione della vita, non eccessivamente intellettualizzabili: non c’è bisogno di grandi ragionamenti per capire se il cibo è buono oppure no, se c’è o se non c’è. L’ipotesi di base è che in un tempo di transizione di una vita cristiana che cerca di assumere forme nuove, la cosa da fare è tornare ai suoi linguaggi elementari, ai mattoni di base, agli elementi fondanti per poter immaginare una forma nuova. In questo senso siamo partiti da tre brani descrittivi: la storia di Giuseppe, la manna e il salmo, come descrizione della dinamica umana dell’esperienza del cibo già un po’ approfondita: la storia di Giuseppe per descrivere l’ambiguità del cibo; il racconto della manna per indicare la responsorialità del cibo, una struttura di relazione con l’esterno, perché scommettiamo su qualcosa di esterno a noi, che non governiamo, che introduciamo in noi sperando che non ci faccia male ma ci nutra; il salmo con il tema della irriducibilità oggettiva dell’esperienza del cibo, al punto che non si può scomporre di più, e che precede qualsiasi giudizio morale (“invano vi alzate di buon mattino e tardi andate a riposare: il Signore ne darà ai suoi amici nel sonno”). L’esperienza di per sé ambigua del cibo, in cui dipendiamo dall’esterno, funziona o non funziona, e non per merito o per impegno.

La volta scorsa abbiamo compiuto un passaggio al Nuovo Testamento, passando da una logica descrittiva di un’esperienza umana ad una di tipo cristologico, che dice una buona notizia su quell’esperienza umana; una buona notizia da parte di Dio in Gesù Cristo, una buona notizia che non cancella il livello umano ma lo fa lievitare, lo trasforma in un pane croccante che di suo non sarebbe diventato. Abbiamo visto il testo sul puro e sull’impuro, sulle tradizioni, sul fatto che il primo elemento utile a far lievitare cristologicamente la riflessione sul cibo è passare dall’io al noi: il cibo non è un’esperienza che riguarda il singolo, autonomamente. Gli animali predano per sé e per i propri cuccioli, senza farsi problema per gli altri. Per gli umani il cibo ha sempre anche un valore di convivialità, quando è dato come quando è negato: non voler condividere il proprio cibo con qualcuno significa sempre qualcosa, andare a cena con qualcuno ha un peso, così come invitare a cena qualcuno, che sia un piacere con gli amici o un dovere con un capo o un parente poco simpatico. Il primo passaggio, dunque, dall’io al noi: il cibo non sopporta – se non a prezzo di una riduzione a livello animale – un rapporto con tanti singoli “io”, ha sempre un valore politico, pubblico, stabilisce un “noi”, rompe l’autosufficienza, il narcisismo dell’individuo; per questo gli umani fanno così fatica a mangiare da soli.

Il testo di oggi continua in questa direzione: il tema “io-noi” resterà centrale fino al termine di questo percorso, infatti Gesù dice “questo è il mio corpo, dato per voi, mangiatene tutti”. La sua morte è resa attuale nell’eucarestia attraverso un gesto di cibo spezzato, per un “noi”. Il segno del pane spezzato è uno dei simboli liturgici su cui abbiamo compiuto un disastro: l’ostia grande è per il sacerdote, che la spezza ma poi se la mangia tutta lui; dall’altra parte abbiamo creato quella specie di aberrazione liturgica che sono le particole, le ostie piccole, che sono proprio il contrario del segno, perché sono sì più piccole, ma ciascuno riceve un tutto, completo e rifinito… ci sono motivazioni storiche molto serie su cui non ci soffermiamo, ma è per questo che il Concilio Vaticano II raccomanda che si consumino nell’Eucarestia le ostie consacrate in quella liturgia e non quelle conservate nel tabernacolo e invita a spezzarle, ad evitare di distribuirle intere, cosa che non si fa perché i sacerdoti hanno tutti nella testa l’ossessione delle briciole; è chiaro che il rito richiede molto rispetto, ma senza cadere nelle ossessioni. È un dato comunque che in molte parrocchie ormai non si comprano più le particole, ma solo stie grandi e prima della messa si spezzano. Il passaggio dall’ “io” al “noi” in relazione al cibo è il vero passaggio cristologico: assumo che di fronte alle questioni elementari gli umani, per essere qualcosa di più che animali, hanno bisogno di poter dire “noi”. E la buona notizia è che colui che fa del proprio corpo e della propria vita cibo donato viene resuscitato: non è sprecato questo pane diviso. Tutto questo si concretizza nell’Eucarestia, tema centrale nell’esperienza cristiana, “fons et culmen”.

Il testo di oggi è tratto dal capitolo 12 del vangelo di Luca, capitolo che ha una strana storia, perché connette insieme brani apparentemente diversi e perché la liturgia li usa frammentati, senza l’opportunità di vedere che stanno insieme. In realtà i vari pezzi non sono messi insieme a caso, sono uniti perché l’evangelista ha in mente un nesso e un intento molto chiaro e vuole farcelo vedere. Il capitolo inizia con Gesù assalito dalle folle, e questi che dice “guardatevi dal lievito dei farisei: non c’è nulla di nascosto che non sarà svelato e nulla di segreto che non sarà conosciuto” (Lc 12, 1-2). Il “titolo” del capitolo è “nascosto/svelato”. Subito dopo ci sono alcune frasi che invitano a non temere “coloro che uccidono il corpo e dopo non possono far più nulla.  (…): temete Colui che, dopo aver ucciso, ha il potere di gettare nella Geenna” (Lc 12, 4-5). E’ di nuovo un’immagine che contrappone ciò che si vede a ciò che realmente è. E ancora il tema nascosto/svelato nelle frasi che riguardano il valore della nostra vita: “Anche i capelli del vostro capo sono tutti contati. Non temete, voi valete più di molti passeri” (Lc 12, 7). Poi inizia il brano di cui ci occupiamo oggi, poi inizia la parte conosciuta come il testo della Provvidenza: “Non cercate perciò che cosa mangerete e berrete, e non state con l’animo in ansia: di tutte queste cose si preoccupa la gente del mondo; ma il Padre vostro sa che ne avete bisogno. Cercate piuttosto il regno di Dio…” (Lc 12, 29-31). La parte finale del capitolo comprende quelle frasi un po’ misteriose in cui Gesù afferma di non essere venuto a portare la pace ma il fuoco e la divisione e si conclude con “Sapete valutare l’aspetto della terra e del cielo; come mai questo tempo non sapete valutarlo?” (Lc 12, 56). Ancora una volta un tema di nascosto/svelato. Intorno al testo di cui ci occupiamo c’è una cornice che, in modi diversi, pone questo tema. In generale: ciò che è nascosto (il lievito dei farisei, i segni dei tempi…) sarà svelato. In particolare: nascosto/svelato su di noi e la nostra vita;  nascosto/svelato su Gesù. Questa è la cornice dentro cui sta il testo di oggi.

Il testo

13Uno della folla gli disse: “Maestro, dì a mio fratello che divida con me l’eredità”. 14Ma egli rispose: “O uomo, chi mi ha costituito giudice o mediatore sopra di voi?”. 15E disse loro: “Fate attenzione e tenetevi lontano da ogni cupidigia, perché anche se uno è nell’abbondanza la sua vita non dipende da ciò che egli possiede”. 16Poi disse loro una parabola: “La campagna di un uomo ricco aveva dato un raccolto abbondante. 17Egli ragionava tra sé: “Che farò, poiché non ho dove mettere i miei raccolti? 18Farò così – disse –: demolirò i miei magazzini e ne costruirò altri più grandi e vi raccoglierò tutto il grano e i miei beni. 19Poi dirò a me stesso: Anima mia, hai a disposizione molti beni, per molti anni; ripòsati, mangia, bevi e divèrtiti!”. 20Ma Dio gli disse: “Stolto, questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita. E quello che hai preparato, di chi sarà?”. 21Così è di chi accumula tesori per sé e non si arricchisce presso Dio».

Ragioniamo un po’ sul testo, poi riprendiamo la cornice e ricostruiamo il quadro d’insieme.

Uno della folla gli disse: “Maestro, dì a mio fratello che divida con me l’eredità”.

Sappiamo tutti che la divisione dell’eredità tra fratelli è una questione complicata. Perché questo è un altro sapere elementare, richiede una condizione che spesso dimentichiamo di menzionare ed è che qualcuno sia morto. Per ricevere un’eredità bisogna che l’equilibrio delle nostre vite si sveli intorno ad una separazione. Per questo vengono fuori le cose più vere, spesso le più dolorose, i non detti che negli equilibri assodati si gestiscono con più calma. L’eredità è un bene che ci viene da altrove a causa di una morte, di una separazione, di un mondo che è cambiato – perché quando qualcuno muore è tutto un mondo che cambia. Diciamo spesso che l’immagine dei fratelli nella scrittura non ha nulla a che fare con la nostra idea – frutto di una rilettura moralistica della Scrittura – che tra fratelli ci sia un rapporto amorevole: nella Scrittura i fratelli hanno come caratteristica fondamentale è l’invidia fino ad ammazzarsi, da Caino e Abele in poi. Perché dicono una delle verità fondamentali, che il primogenito nasce ed ha uno spazio, nasce un secondogenito ed ha anche lui bisogno di spazio, inevitabilmente un furto al primogenito.  E la grande questione è se i genitori sono in grado di garantire spazio per tutti. Perché ci vuole un atto di fiducia fondamentale per credere che lo spazio che viene dato ad un altro non è sottratto a me, ma è lo spazio suo. Per questo la Scrittura ci mostra spesso fratelli che si uccidono, che si sentono minacciati. Sono spesso gli stranieri, gli estranei, più spesso donne, in particolare i poveri che si prendono cura, perché non hanno uno spazio da difendere, fanno meno fatica perché non sono garantiti. La domanda che viene fatta a Gesù non è casuale perché è una domanda che ha due direzioni fondamentali: la prima, che c’è un prezzo da pagare per possedere, ed è la morte di qualcuno; l’altra, che questo prezzo una volta pagato non è ancora sufficiente perché bisogna trovare un “noi” tra fratelli, decidere come si organizza.

Ma egli rispose: “O uomo, chi mi ha costituito giudice o mediatore sopra di voi?”

Rispondere ad una domanda con un’altra è una tattica usuale per Gesù, che in questo modo sposta il quadro, fa un’altra operazione e spesso introduce poi una questione importante, che poco c’entra con la domanda posta. In questo caso è come se dicesse: “se la questione è la condivisione dell’eredità, vedetevela tra voi, è una questione di uomini, imparate la fiducia necessaria”. Poi sembra cambiare discorso:

“Fate attenzione e tenetevi lontano da ogni cupidigia, perché anche se uno è nell’abbondanza la sua vita non dipende da ciò che egli possiede”

Nella nostra testa di donne e uomini di questo secolo la frase di Gesù suona molto strana, perché per noi ciò che si possiede è ciò che si è guadagnato. Siamo tutti malati dell’idea che possediamo ciò per cui abbiamo lavorato una vita, mentre l’eredità rappresenta il colpo di fortuna, per cui nulla si è meritato. Per noi sono due dimensioni diverse, mentre invece Gesù stabilisce una continuità assoluta, ed è molto chiaro nella logica evangelica, perché la questione è l’atto di affidamento fondamentale come atto comune, pubblico, politico. Possedere significa non fidarsi del fatto che avrò ciò di cui ho bisogno – come insegna la vicenda della manna – e quindi metto via, accumulo riserve. Dividere l’eredità è la stessa operazione, un’assenza radicale di fiducia, di affidamento, è non credere che ci sia spazio per tutti. In questo testo la parola che torna spesso è vita. Si comincia con una morte avvenuta, ma poi la parola chiave è vita.

16Disse poi una parabola: “La campagna di un uomo ricco aveva dato un raccolto abbondante”

È un dono, era andata bene. Ma il tono della parabola ci infastidisce un po’, perché pensiamo che quell’uomo aveva probabilmente lavorato molto, coltivato bene e dunque aveva raccolto molto. Invece i beni che nutrono, in particolare il cibo, mantengono la loro irriducibile estraneità a noi. Sono oggetto di fronte a noi, non sono governabili, la nostra vita non coincide con ciò che la nutre, che è sempre un dono che viene da fuori. Questo concetto era molto più forte prima della monetizzazione dell’economia, cioè prima che trasformassimo le cose in denaro, perché era più evidente che oltre al lavoro il cibo dipendeva dal fatto che non grandinasse, non gelasse, insomma tutta una serie di condizioni su cui non avevamo potere. Noi abbiamo una concezione diversa: il denaro è ciò che io ho guadagnato e lo spendo come voglio e ti pago perché tu mi faccia quel lavoro e pretendo che sia fatto bene. Pagando non compro solo la tua opera, ma compro anche te. Siamo all’opposto di quel che si dice qui, dove la campagna di un uomo ricco ha dato un raccolto abbondante. Non sappiamo se ha lavorato lui o i suoi schiavi, se si è impegnato molto, oppure no, non sappiamo nulla se non che il raccolto è stato abbondante. E la sua reazione è:

“Che farò, poiché non ho dove mettere i miei raccolti?”

Questa frase, in una lettura simbolica come questa, ha una modernità inquietante. Tutti noi ci diamo da fare un sacco nella nostra vita senza sapere dove mettere i nostri raccolti. Ci distruggiamo l’esistenza riempiendola di impegni, interessi, impicci e imbrogli, tranne il fatto che poi nessun risultato ci soddisfa. E questo non per il risultato in sé, ma perché non abbiamo un luogo interiore , un granaio, per metterci tutto ciò che abbiamo raccolto. E di per sé l’idea sarebbe: non ho spazio per mettere tutto ciò che ho raccolto; quindi riempio i miei granai, cosicché ne ho già per un po’, e poi distribuisco, condivido tutto ciò che avanza. Ma l’uomo della parabola non è sfiorato da questo dubbio, e trova una soluzione ancora una volta produttiva, senza affidamento, tutta su di sé:

“Farò così – disse –: demolirò i miei magazzini e ne costruirò altri più grandi e vi raccoglierò tutto il grano e i miei beni”

Forse varrebbe la pena, all’inizio di questa quaresima, porsi questa domanda: che tipo di granai interiori abbiamo? Quanto li abbiamo abbattuti e ricostruiti nell’ansia di possedere? Abbiamo dei luoghi interiori per la sovrabbondanza della nostra vita?

E poi c’è questa frase buffa:

19Poi dirò a me stesso: “Anima mia, hai a disposizione molti beni, per molti anni; ripòsati, mangia, bevi e divèrtiti!”

“Dirò a me stesso” è proprio la negazione dell’ambiguità, della responsorialità, irriducibilità del cibo. E’ tutto sbagliato, perché si dice ad un altro, non a se stessi, e soprattutto il problema non è darsi un’autorizzazione, ma rimanere sul reale. La scelta di questi quattro verbi non è casuale, e tutto è nelle mani del soggetto, non c’è spazio per un noi.

Ma Dio gli disse: “Stolto, questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita. E quello che hai preparato, di chi sarà?”. Così è di chi accumula tesori per sé e non si arricchisce presso Dio

Mi sto convincendo un po’ alla volta che se c’è un peccato statisticamente più diffuso nell’epoca contemporanea è proprio questo, il figlio della paura che anticipa le cose e ci fa combattere una battaglia virtuale in genere totalmente non corrispettiva alla realtà: quando le cose di cui abbiamo paura succedono, possono essere faticose, brutte, dolorose, ferirci… ma quando c’è la realtà non abbiamo più paura, perché la paura gioca sull’anticipazione. “Quello che hai preparato, di chi sarà?”. Questo non è ovviamente un invito alla dissipazione, perché “del doman non v’è certezza”. Ma è sicuramente un invito a riflettere sulla dinamica della paura come anticipazione, perché in qualche modo la paura rende consistente e operativo ciò che ancora non è. Siamo noi che diamo carne ai nostri fantasmi, avendone paura li mettiamo in giro per il mondo.

Così è di chi accumula tesori per sé e non si arricchisce presso Dio

La conclusione è molto secca: se non si riesce a passare dall’io al noi, il meccanismo fondamentale dell’affidamento si perverte in un meccanismo di paura. Il cibo e i beni portano in sé la struttura di affidamento della vita a qualcosa di esterno, che non sono io. Chi accumula tesori per sé cancella la dimensione di affidamento della vita. Spesso ci scervelliamo sul cosa significa essere cristiani nelle varie situazioni: non c’è una risposta giusta per le singole situazioni, ma certo l’essere cristiani richiede di abitare alcune dinamiche in un modo diverso, apparentemente stolto. Non le dinamiche religiose, ma quelle della vita, per esempio il rapporto ai beni, al cibo. E solo chi accumula tesori non per sé ma si arricchisce presso Dio, cioè secondo la logica di Dio, il modo e lo stile secondo cui lui ha operato. Il contrario dell’io per un cristiano non è il noi, ma è Dio, il suo stile, lui che è il Dio-Noi per eccellenza, lui che è Trino.

Riprendiamo la cornice e tiriamo le fila: la questione del possesso dei beni non è in prima battuta una questione di ordine morale: è una questione di affidamento e di lotta alla paura. Ed è una questione molto seria. Come ci si educa reciprocamente a combattere la paura? Quali strumenti ci possiamo dare per non entrare nella logica dell’anticipazione ma rimanere nella logica dell’affidamento? Questo testo tratta un tema che viene definito tradizionalmente come il tema della Provvidenza. Noi abbiamo dato nel tempo questo nome alla mancanza di fiducia nei fratelli, all’incapacità a dividere la nostra eredità, che è la terra. E allora diciamo: “Maestro, dì a mio fratello che divida con me l’eredità”… Se non ci pensa la Provvidenza… Dio è provvidente, ma non lo è con strane magie, o con i racconti agiografici dei santi che spendono l’ultima moneta e improvvisamente arriva il benefattore con un carro di cibo per gli orfani! Sono racconti agiografici che servono ad insegnare a tutti noi che ci si può fidare, ma anche in quei racconti alla fine c’è un benefattore in carne ed ossa che arriva, non Dio che fa piovere dal cielo! I nostri nonni avevano molto chiaro il concetto: si fidavano della Provvidenza, e per questo facevano la carità ai poveri! Fidarsi della provvidenza non voleva dire aspettarsi da Dio ciò che gli uomini non fanno. La questione della Provvidenza in fin dei conti è la questione dell’affidamento ai fratelli, il non avere paura quanto alla divisione dell’eredità, il non costruire la propria vita sulla convinzione che tanto mio fratello non dividerà con me l’eredità, quindi è meglio se me la conquisto, se faccio un bel granaio e ci metto dentro quello che mi spetta. Il nostro problema è molto forte, perché per prendere sul serio una lettura cristologica fino all’Eucarestia dobbiamo ritrovare un noi che ci è quasi impossibile ritrovare. La comprensione che il noi non nasce perché io sono buono e divido con gli altri qualcosa che sarebbe mio: il noi è la divisione dell’eredità, c’è spazio per tutti. L’origine, che è Dio, chiede che i fratelli dividano l’eredità. Da questo punto di vista è molto interessante notare come Papa Francesco, che ha ricominciato a dire queste cose in modo molto chiaro, è stato immediatamente etichettato come comunista, come uno che – da sudamericano – ha la fissa della giustizia per i poveri. Se leggiamo nell’Evangelii Gaudium i numeri che riguardano i poveri, si vede benissimo questo concetto: nella divisione dell’eredità i poveri sono stati trattati ingiustamente, e non è vero che ciò che mi sono guadagnato è mio; e dunque se tra fratelli abbiamo diviso in modo diseguale non va bene.

Questo testo ci viene proposto sulla soglia della Quaresima – non era voluto, ma è andata così (…la Provvidenza?). Tradizionalmente la vita cristiana richiede per la Quaresima tre cose: preghiera, digiuno, elemosina. Potrebbe essere interessante farsi accompagnare da questo testo nel cammino quaresimale: quale granaio interiore voglio costruire da qui a Pasqua? E per metterci dentro cosa? Quale esercizio di affidamento è necessario fare?

Fossano, 14 febbraio 2015

(testo non rivisto dal relatore)

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