Stella Morra
1. Del desiderio, della cura di sé e dell’altro
Introduzione alle lectio di quest’anno
La scelta delle lectio di quest’anno è di ripartire dai fondamentali. Il titolo “Che cosa è l’uomo perché te ne ricordi?” è stato scelto per dire: noi siamo qui, io sono qui, l’essere umano è questo. Descriviamo noi stessi e descriviamo, quindi, le condizioni prime per cui possiamo ricevere e dare misericordia. Dov’è che siamo feriti? La misericordia non è la stessa cosa dell’amore. L’amore è un termine più generico. Dio ci ama, il padre Lafont che ha scritto la prefazione al mio libro (Dio non si stanca, ed. EDB, 2015) mi ha contestato in privato l’uso che ho fatto della categoria della misericordia perché il correlativo di misericordia è peccato. Lafont mi ha ricordato che Dio ci ama, siamo i suoi partner alla pari. Gli ho ricordato il suo libro Che cosa possiamo sperare (EDB, 2011) e gli ho detto che sicuramente ha ragione, perché Vaticano II ha detto che Dio ci ama e siamo i suoi partner, che siamo alla pari, che non bisogna guardare prima il negativo. Questo sarà l’oggetto di questa lectio, il problema è che cinquant’anni dopo l’annuncio gioioso di Vaticano II, noi non abbiamo più il problema del peccato, ma abbiamo il problema del male, perché il mondo non funziona e le nostre vite nemmeno. Forse ci siamo un po’ liberati dai sensi di colpa, non è necessariamente colpa mia se la gente muore di fame in Africa, ma esserci liberati dai sensi di colpa non ha risolto il problema perché il mondo continua a non funzionare. Il rischio è che passiamo dal senso di colpa al senso di frustrazione, di incapacità di fare i conti con il male. La misericordia da questo punto di vista ci può aiutare poiché ha come correlativo il male, il negativo, un misero ha bisogno di misericordia, non un potente. La misericordia non è un luogo qualsiasi, sembra bello e poetico dire che il luogo della fede è il luogo della misericordia, ma ricevere misericordia è durissimo perché vuol dire che uno deve sapere qualcosa del proprio male e avergli trovato un luogo, perché altrimenti non si può ricevere misericordia. Da questo punto di vista penso che la questione è di ridirci l’esperienza di noi umani (chi siamo noi?) e la lectio è sempre più il cuore della nostra riflessione.
Ho scelto per il calendario delle lectio un’altra citazione di Sonnet (La scorciatoia divina, ed. Ancora, 2013) che dice così:
Quando Rashi (uno dei grandi commentatori ebraici) commenta che soltanto per Adamo le mani divine sono venute in soccorso alla parola creatrice (che è interessante non lo avevo mai notato, che tutta la creazione si compie con la parola, solo per l’essere umano Dio ha bisogno anche delle mani, oltre che del soffio della parola), fremo per il tocco di Dio sulla mia pelle, del palmo che sul mio torso aderisce alle distensione del respiro e all’ostinatio del cuore. Sulla pagina biblica, spalancata, si è posata, leggera, la mia mano.
L’esperienza delle lectio vorrebbe essere per noi quest’esperienza. Dio ha messo la mano su di noi e noi mettiamo la mano sulla pagina biblica, gli restituiamo il gesto creatore per sentirlo con le dita prima che con la testa, per sentire nel tatto il respiro e l’ostinatio della scrittura, perché siamo convinti che solo in questo modo possiamo creare il nostro noi stessi migliore. Per fare però questo non basta posare la mano una sola volta, bisogna molto fedelmente e pazientemente proseguire e questo noi lo stiamo facendo da molti anni.
Quindi, proviamo a mettere la mano sulla pagina della Bibbia cercando di farci descrivere: chi è l’uomo? Che cosa possiamo sperare? E come questo si può dire con una sovrabbondanza di narrazioni e di immagini perché possiamo diventare luogo vivo della misericordia. Come funzionano gli esseri umani da questo punto di vista.
La lectio di oggi
Cominciamo dal capitolo 3 di Genesi, il racconto che tutti conosciamo, che abbiamo nelle orecchie, ovvero il “racconto del peccato originale”. C’è una domanda previa, che un po’ annunciavo nella premessa, e io stessa per molto tempo ho detto che non è un caso che questo racconto sia in Gen 3, non in Gen 1.
Prima c’è la Grazia. Prima Dio crea, il primato nel tempo e anche nella realtà è il bene, è la benedizione, la vita fiorita e amata, quindi sembrerebbe scorretto cominciare questa prima lectio, da questo brano, ma la questione è che ormai è giunto un tempo, cinquant’anni dopo Vaticano II, di prendere sul serio il primato della Grazia. Prendere sul serio l’idea che il primo, dal punto di vista di Dio e dell’esperienza, dovrebbe essere un primato logico e non solo cronologico del Bene. È giunto il momento di prendere sul serio il male, cioè dire il primato del bene non è solo la rimozione del fatto che il mondo non funziona, in fondo tutti siamo arrivati a un punto in cui, alcuni con una visione più positiva di Dio, finiamo con l’avere una doppia colpevolizzazione. Ovvero diciamo Dio ci vuole bene, Dio vuole il bene, dopodiché la vita è molto faticosa, ingarbugliata. Facciamo riceviamo gesti, comportamenti, che sono male, che ci fanno male. Scopriamo dentro di noi una grande capacità di male, una grande capacità per esempio di volere il male degli altri, e alla fine diciamo “ma allora dipende da te, che non sei capace di prenderla bene, di sopportare il male con abbastanza speranza”.
Mi colpisce molto che di fronte alla morte di coloro che amiamo, o certe morti che ci sembrano ingiuste e il nostro dolore è non possa essere riconosciuto, perché uno che sta abbastanza male vuol dire che non ha speranza nella resurrezione. Questo non è vero. Uno crede alla resurrezione ma sta anche male. Sembra che le due cose non possono stare insieme. Mi sembra che sia il tempo di prendere sul serio il male e di prenderlo sul serio prima di una lettura morale, prima di dire di chi è colpa, ma di capire come il male si pone, che è alla radice del nostro essere che non funziona, che la vita non è come a scuola dove se uno fa tutti compiti giusti prende dieci, e quindi se fai tutto giusto la vita deve funzionare: questa cosa semplicemente non è vera. Nel libro di Lafont di cui dicevo prima, lui afferma che ci sono due cose che vanno distinte: la tragedia e il dramma. Lui dice la tragedia è fisiologica, non patologica, il dramma è patologico. Il dramma può essere curato, corretto, la tragedia no, perché è la nostra struttura. All’origine del nostro esistere c’è un desiderio che è il desiderio della cura di sé: stare bene, proteggere se stessi dal male, rassicurare sé. Questo desiderio è il fondamentale che ci abita tutti fin dalla nostra origine. Gli esseri umani sono esseri desideranti, sono mossi da un desideri: il desiderio della cura di sé. La cura di sé, prima o poi, entra in conflitto con la cura dell’altro, su questo c’è un dato strutturale e in questo dice Lafont la vita umana è una tragedia perché ha un desiderio impossibile. Io credo che questa sia l’esperienza che noi facciamo di più nella vita adulta, quotidianamente, ed è una delle origini delle grandi alienazioni degli adulti che mettono in atto mille sistemi per sfuggire a questa constatazione.
La constatazione è che non c’è niente nella nostra vita che non comporti ad un certo punto una frustrazione, o come dice un mio piccolo amico, voler bene fa un sacco male. Io credo che da questo punto di vista Lafont abbia profondamente ragione questa è la tragedia, questo è fisiologico nella vita umana, non è un’esperienza che si può curare, è un dato strutturale. Molti anni fa con l’Atrio avevamo fatto un seminario sul tema del dolore, sul crescere e diventare adulti, e la conclusione era stata che non sappiamo se il dolore fa crescere, ma di certo crescere fa dolore. Ad esempio crescere, seguire il proprio desiderio, significa separarsi, scegliere tra alternative, e questa è una delle cose su cui la nostra cultura contemporanea in qualche modo è diventata molto falsa, ci prova sempre a convincerci che non è vero, che c’è un modo, una scorciatoia non divina per cui le cose non costino, per cui si possa non separarsi da niente, volere tutto e volere tutto insieme. Non solo c’è un modo per fare tutto, ma c’è un diritto di fare tutto e farlo come vogliamo.
Credo che uno dei radicamenti fondamentali dell’essere credente, talmente fondamentale che sta nell’Antico Testamento (nella relazione primaria con Dio, non nella svolta cristologica) sia esattamente il racconto del peccato originale. Il racconto non è la spiegazione di una causa, che normalmente è quello che pensiamo: Adamo ed Eva hanno fatto una cosa e a causa loro noi abbiamo il peccato originale, che non si sa bene cosa sia, una specie di macchia strana che ci piega al male. Questo come tutti i racconti mitici è una descrizione, non una causa, descrive in forma mitica uno stato di realtà, non dice perché è così, ma dice cos’è, come funziona. Questa differenza è importante. Il senso della dottrina è che il desiderio di Dio che esprime nella creazione, il desiderio di Dio di aver cura di sé, che è il desiderio di una vita benedetta, impatta immediatamente con l’altro da Dio che è la realtà, che frustra il desiderio di Dio perché la realtà non funziona. Questo è descrittivo, nasce dall’esperienza, non da una causa. In questo senso leggere il racconto del peccato originale ha un’altra faccia, ci costringe a non rimuovere il tema del male, ce lo fa vedere. Ci dà un criterio per interpretare la realtà, non ci dice qual è la causa per cui la realtà è così, ma ci dice come dobbiamo guardare il mondo, senza illusioni da un certo punto di vista. Infatti, la cosa interessante è che il racconto del peccato originale, non parla mai di peccato, nel testo non c’è, siamo noi che glielo abbiamo messo sopra perché ne abbiamo fatto una lettura moralistica. Originale non vuol dire delle origini, vuol dire il contrario di coppia, la struttura fondamentale che nella realtà sperimentiamo sempre, è l’originale, cioè la matrice, ma di per sé non è un peccato, non c’è un tema morale ma una descrizione di come funziona il male nelle nostre vite.
Il testo
1Il serpente era il più astuto di tutti gli animali selvatici che Dio aveva fatto e disse alla donna: «È vero che Dio ha detto: «Non dovete mangiare di alcun albero del giardino»?». 2Rispose la donna al serpente: «Dei frutti degli alberi del giardino noi possiamo mangiare, 3ma del frutto dell’albero che sta in mezzo al giardino Dio ha detto: «Non dovete mangiarne e non lo dovete toccare, altrimenti morirete». 4Ma il serpente disse alla donna: «Non morirete affatto! 5Anzi, Dio sa che il giorno in cui voi ne mangiaste si aprirebbero i vostri occhi e sareste come Dio, conoscendo il bene e il male». 6Allora la donna vide che l’albero era buono da mangiare, gradevole agli occhi e desiderabile per acquistare saggezza; prese del suo frutto e ne mangiò, poi ne diede anche al marito, che era con lei, e anch’egli ne mangiò. 7Allora si aprirono gli occhi di tutti e due e conobbero di essere nudi; intrecciarono foglie di fico e se ne fecero cinture.
8Poi udirono il rumore dei passi del Signore Dio che passeggiava nel giardino alla brezza del giorno, e l’uomo, con sua moglie, si nascose dalla presenza del Signore Dio, in mezzo agli alberi del giardino. 9Ma il Signore Dio chiamò l’uomo e gli disse: «Dove sei?». 10Rispose: «Ho udito la tua voce nel giardino: ho avuto paura, perché sono nudo, e mi sono nascosto». 11Riprese: «Chi ti ha fatto sapere che sei nudo? Hai forse mangiato dell’albero di cui ti avevo comandato di non mangiare?». 12Rispose l’uomo: «La donna che tu mi hai posto accanto mi ha dato dell’albero e io ne ho mangiato». 13Il Signore Dio disse alla donna: «Che hai fatto?». Rispose la donna: «Il serpente mi ha ingannata e io ho mangiato».
14Allora il Signore Dio disse al serpente: «Poiché hai fatto questo, maledetto tu fra tutto il bestiame e fra tutti gli animali selvatici! Sul tuo ventre camminerai e polvere mangerai per tutti i giorni della tua vita. 15Io porrò inimicizia fra te e la donna, fra la tua stirpe e la sua stirpe: questa ti schiaccerà la testa e tu le insidierai il calcagno».
16Alla donna disse: «Moltiplicherò i tuoi dolori e le tue gravidanze, con dolore partorirai figli. Verso tuo marito sarà il tuo istinto, ed egli ti dominerà». 17All’uomo disse: «Poiché hai ascoltato la voce di tua moglie e hai mangiato dell’albero di cui ti avevo comandato: «Non devi mangiarne», maledetto il suolo per causa tua! Con dolore ne trarrai il cibo per tutti i giorni della tua vita. 18Spine e cardi produrrà per te e mangerai l’erba dei campi. 19Con il sudore del tuo volto mangerai il pane, finché non ritornerai alla terra, perché da essa sei stato tratto: polvere tu sei e in polvere ritornerai!». 20L’uomo chiamò sua moglie Eva, perché ella fu la madre di tutti i viventi. 21Il Signore Dio fece all’uomo e a sua moglie tuniche di pelli e li vestì.
22Poi il Signore Dio disse: «Ecco, l’uomo è diventato come uno di noi quanto alla conoscenza del bene e del male. Che ora egli non stenda la mano e non prenda anche dell’albero della vita, ne mangi e viva per sempre!». 23Il Signore Dio lo scacciò dal giardino di Eden, perché lavorasse il suolo da cui era stato tratto. 24Scacciò l’uomo e pose a oriente del giardino di Eden i cherubini e la fiamma della spada guizzante, per custodire la via all’albero della vita.
1Il serpente era il più astuto di tutti gli animali selvatici che Dio aveva fatto e disse alla donna: «È vero che Dio ha detto: «Non dovete mangiare di alcun albero del giardino»?».
Qui, le cose interessanti sono due: c’è il serpente, astuto, una specie di male preesistente (il tentatore) e tutto l’immaginario che si può scatenare sulla simbolica dei serpenti in tutte le religioni, non è un caso che il serpente nell’iconografia classica stia nel simbolo della medicina con la doppia faccia di cura e di veleno. Senza giudizio morale, non è prima o fuori di Eva, nel sesto secolo avanti Cristo non avevano ancora inventato la psicanalisi, quindi non potevano dire il subconscio di Eva, noi useremmo un altro criterio, altri linguaggi. Di per sé il serpente non è un altro, è l’ambivalente possibilità che ognuno di noi ha di essere cura e veleno di se stesso. Infatti, il serpente pone una domanda come l’inconscio e non dà una risposta. Guarda caso pone una domanda su una norma, il pessimo rapporto tra gli umani e le norme è antico. C’è un dato oggettivo, per gli antichi la norma è l’oggettivo, il reale, ciò che non dipende da noi. Non è la norma come la intendiamo noi che siamo più figli di un principio di convenzione, che le leggi si cambiano, qui stiamo parlando di un tempo in cui la legge era percepita come sacra quindi immutabile, mentre la parte ambivalente dell’essere umano di fronte a una situazione reale, ad un limite reale, a qualcosa che limita il desiderio, dice: è proprio necessario che io accetti questo limite? Questa è la parte più astuta di noi, più bella, più intelligente, più creativa, più libera, è la nostra sovrabbondanza di somiglianza con Dio che ci fa rischiare l’idolatria. San Tommaso diceva: le bestioline non peccano, perché non somigliano abbastanza a Dio, per poter peccare non hanno abbastanza creatività, non hanno la parte nobile di sé. Sto provocatoriamente cercando di distruggere la lettura moralistica perché se rimaniamo dentro ad essa non capiamo niente. La domanda sul limite non solo è legittima, ma è doverosa, noi dobbiamo sempre chiederci se quel reale che mi si impone sia necessariamente da accettare, perché questa è la dimensione co-creatrice che noi abbiamo, il nostro dovere di assunzione di responsabilità. Il reale non va sempre subito, lo possiamo trasformare. Tutto il cammino dell’umanità ha mostrato che si può trasformare il reale: noi possiamo partecipare della stessa potenza di Dio e questo grande dono che Dio ci ha fatto, ma questa è anche la grande ambivalenza. Il grande rischio è che siamo costretti a chiederci se questo limite è da accettare o da superare? È la domanda che ogni adulto si fa di fronte alle situazioni: sto zitto, accetto, oppure protesto? Dico non è giusto? Ho io diritto che sia diverso?
2Rispose la donna al serpente: «Dei frutti degli alberi del giardino noi possiamo mangiare, 3ma del frutto dell’albero che sta in mezzo al giardino Dio ha detto: «Non dovete mangiarne e non lo dovete toccare, altrimenti morirete».
Qui c’è il pianto del bambino neonato che ha fame, che se non viene nutrito entro tre secondi dal momento in cui sente lo stimolo della fame urla come se lo si stesse scannando, perché si sente morire. A tre mesi di vita questa è l’esperienza, dipendi in tutto dagli altri, se hai fame strilli, se qualcuno non ti dà da mangiare la sensazione è di morire. Noi siamo tutti è sempre così: un neonato affamato, che ha un desiderio assoluto, non perché è cattivo, ma perché percepisce nella negazione di quel desiderio il pericolo della morte. Il racconto mitico oppone sempre come pena la morte, che viene percepita come rischio di morte. Esattamente quello che facciamo coi bimbi piccoli, siccome c’è il rischio che si facciano male facendo una certa cosa, la regola serve per rendere visibile il rischio. La parola che Dio direbbe sarebbe se toccate morirete, perché nella legge di proibizione l’umano si sente morire: se non posso fare quello che desidero morirò.
4Ma il serpente disse alla donna: «Non morirete affatto! 5Anzi, Dio sa che il giorno in cui voi ne mangiaste si aprirebbero i vostri occhi e sareste come Dio, conoscendo il bene e il male».
Qui il vero mentitore è il serpente, o no? Perché alla fine loro mangiano, ma non muoiono. Forse è Dio che mente, perché loro trasgrediscono, ma non muoiono. Che cosa voglio dire? Il gioco del desiderio è un gioco strano perché fa sempre sembrare che la posta in gioco sia intera, la morte, o si vive o si muore. In realtà non è mai quello che succede, come quando da adolescenti si dice: se non mi ama morirò, non amerò mai più nessuno, ma poi non è quello che succede. Succedono delle altre cose perché la vita ha una sua potenza anche dentro la frustrazione, anche dentro la depressione. Anzi è chiaro che il gioco è non morirete anzi conoscerete il bene e il male. Ovviamente qui c’è stata l’orgia delle interpretazioni, ma la questione in ballo è assolutamente chiara nella logica in cui ne stiamo parlando e tradotta nel linguaggio di oggi è molto visibile. Conoscere il bene e il male non è chissà quale astratta pratica filosofica, ma è diventare criteri a se stessi. La cura di sé non è un male, ma la cura di sé non relazionale come criterio unico è un problema. È quello che serpente dice, anzi voi non morirete ma potrete assumervi come criterio voi stessi, per stare fuori da ogni relazione, che è il massimo della goduria della cura di sé. Ed è interessante perché da qui in poi comincia un gioco pazzesco, si parla di conoscenza di bene e di male, ma non c’è più una parola sulla conoscenza. I termini che seguono sono sul vedere:
6Allora la donna vide che l’albero era buono da mangiare, gradevole agli occhi e desiderabile per acquistare saggezza.
Agli occhi dei moderni questa cosa è molto chiara perché cambiare prospettiva in quanto al proprio rapporto al mondo, ti fa vedere altre cose. Questo noi lo sappiamo benissimo. Per esempio, per seguire il proprio desiderio senza preoccupazioni relazionali, in assoluto, non ti fa più vedere alcune cose ne vedi solo, altre. Succede, per esempio, quando in alcune relazioni d’amicizia improvvisamente ti rendi conto che ci sono delle questioni di fondo a cui gli altri non vedono proprio, non è che non vogliono, non lo vedono perché il modo in cui desideriamo ci rende vedenti o ciechi. Non è affatto un caso che uno dei grandi temi dell’Evangelo sia la vigilanza, tenere gli occhi aperti, vedere il tempo, vedere l’ora, pensate a quanti testi nel Vangelo ne parlano. L’unica possibile cura per la frustrazione inevitabile degli esseri umani è vedere, e Gesù ci mostra e la misericordia, vedere con gli occhi dell’altro, mettersi nei panni dell’altro, ciò che Gesù Cristo ha fatto con noi è che si è messo nei nostri panni, lui vede.
Se vedi con gli occhi dell’altro, non puoi più giudicare. Vedere è l’unica possibilità di governare il desiderio della cura di sé e l’inevitabile frustrazione che questo porta con sé. Dopo che vedi, decidi che cosa poi agisci.
…prese del suo frutto e ne mangiò, poi ne diede anche al marito, che era con lei, e anch’egli ne mangiò. 7Allora si aprirono gli occhi di tutti e due e conobbero di essere nudi; intrecciarono foglie di fico e se ne fecero cinture.
Qui una lettura psicanalitica sarebbe un invito a nozze, ma che cosa vedono? La donna vede l’albero della vita che è buono da mangiare, segue il desiderio della cura di sé in assoluto, mangia, ne condivide col proprio marito. Improvvisamente, vedono se stessi nudi, cioè non socialmente spendibili, presentabili. Anche qui non leggiamolo con filtri morali, in tutte le culture il vestito è il modo con cui ci presentiamo al mondo, è il nostro modo di renderci visibili agli altri in modo accettabile dicendo chi siamo in modo congruente alla situazione. Non si va in costume da bagno a scuola, con l’abito da sera in spiaggia, poi però, diciamo di noi, diciamo chi siamo ma governando quello che gli altri vedono. Non ti faccio vedere tutto, ti faccio vedere quello che io voglio che tu veda. E in loro che cosa succede? Si aprono i loro occhi e vedono che sono nudi, cioè il desiderio di sé senza relazione ci rende impresentabili in società, dobbiamo far qualcosa per poterci far vedere dagli altri, perché se tutti guardano tutti, se tutti vedono senza relazione, lo spettacolo è orribile.
8Poi udirono il rumore dei passi del Signore Dio che passeggiava nel giardino alla brezza del giorno, e l’uomo, con sua moglie, si nascose dalla presenza del Signore Dio, in mezzo agli alberi del giardino. 9Ma il Signore Dio chiamò l’uomo e gli disse: «Dove sei?». Qui si vede bene perché il racconto lo esplicita, perché il desiderio della cura di sé senza relazionalità ci fa nascondere dall’altro. In questo caso l’altro è quello che chiama, che chiede dove sei, è l’altro che ha un bisogno. Questo racconto secondo me è bellissimo perché Dio ha un’unica voce iniziale che è il desiderante, colui che chiama, che ha bisogno, poi diventerà anche colui che giudica, ma qui è Dio che chiama, che si rende bisognoso, anche lui ha un desiderio: incontrare l’uomo.
10Rispose: «Ho udito la tua voce nel giardino: ho avuto paura, perché sono nudo, e mi sono nascosto». 11Riprese: «Chi ti ha fatto sapere che sei nudo? Hai forse mangiato dell’albero di cui ti avevo comandato di non mangiare?». 12Rispose l’uomo: «La donna che tu mi hai posto accanto mi ha dato dell’albero e io ne ho mangiato». 13Il Signore Dio disse alla donna: «Che hai fatto?». Rispose la donna: «Il serpente mi ha ingannata e io ho mangiato».
A questo punto la tragedia diventa dramma, perché se l’uomo ammetteva di aver fatto un pasticcio niente era, ma cerca di giustificare il desiderio di sé, di negare. Mi sono nascosto perché sono nudo, non mi hai creato dei vestiti è anche un po’ colpa tua dovevi completare l’opera. Allora Dio dice: Chi ti ha fatto sapere che sei nudo? Questo versetto è pazzesco potrebbe essere il versetto di partenza per l’esame di coscienza di tutte le sere degli adulti. Com’è andata che ci siamo messi in un posto che siamo diventati impresentabili? Non più relazionali. Da qui comincia lo scaricabarile: la donna che tu mi hai posto accanto, lei diventa un colpevole, quindi la tragedia è diventata un dramma. L’inevitabile esperienza di limitazione diventa la responsabilità morale nel fare dell’altro un colpevole. Su questa cosa credo che stiamo tornando a livello sociale all’età della pietra, nel senso che avendo abolito molte mediazioni siamo ridotti a linguaggi assolutamente elementari, per cui l’altro, il migrante, lo straniero, non hanno più la funzione di limite relazionale. Sono mal sopportati, per cui costruiamo vite a prova d’invasione e da una parola in su, loro diventano colpevoli di qualcosa, non importa cosa, a seconda dell’articolazione culturale di chi parla. Siamo tornati a un meccanismo pazzesco e assolutamente primitivo, primario, in cui la civiltà e le mediazioni che la civiltà ci aveva insegnato, che avevano un po’ fatto crescere, saltando il sistema di mediazioni, ci ha riportato al livello di primitività assoluta. L’altra faccia è o l’altro è uguale a me, dunque siamo una mafia, una lobbie, legati da reciproca soddisfazione del desiderio, oppure l’altro è un colpevole, non c’è alternativa. È interessante a questo punto Dio cambia registro linguistico nel racconto:
14Allora il Signore Dio disse al serpente: «Poiché hai fatto questo, maledetto tu fra tutto il bestiame e fra tutti gli animali selvatici! Sul tuo ventre camminerai e polvere mangerai per tutti i giorni della tua vita. 15Io porrò inimicizia fra te e la donna, fra la tua stirpe e la sua stirpe: questa ti schiaccerà la testa e tu le insidierai il calcagno».
16Alla donna disse: «Moltiplicherò i tuoi dolori e le tue gravidanze, con dolore partorirai figli. Verso tuo marito sarà il tuo istinto, ed egli ti dominerà». 17All’uomo disse: «Poiché hai ascoltato la voce di tua moglie e hai mangiato dell’albero di cui ti avevo comandato: «Non devi mangiarne», maledetto il suolo per causa tua! Con dolore ne trarrai il cibo per tutti i giorni della tua vita. 18Spine e cardi produrrà per te e mangerai l’erba dei campi. 19Con il sudore del tuo volto mangerai il pane, finché non ritornerai alla terra, perché da essa sei stato tratto: polvere tu sei e in polvere ritornerai!».
A questo punto Dio fa le parti uguali, ad ognuno il suo. C’è una piena relazionalità e i tre protagonisti, tutti e tre, si beccano una colpa. La cosa interessante è che le pene di cui sono colpiti sono semplicemente quello che accade nel mondo della realtà: che i serpenti strisciano, che le donne partoriscono e che gli uomini lavorano. Che punizione è? In questo senso non è una spiegazione causale, è una descrizione, lavorare rompe le scatole, partorire è sempre un rischio di morte, fare il serpente non è una bella idea, di stare in mezzo alla polvere. Queste sono le fatiche della vita com’è, che diventa lo scotto da pagare per aver rotto la relazionalità, perché: c’è un modo per partorire con gioia come farà Maria? Per lavorare con allegria come farà Giuseppe con il piccolo Gesù? Che guarda caso sono la nuova Genesi: per vedere angeli che volano invece di serpenti che strisciano? Il modo è stare in una struttura relazionale, ma non è una cosa astratta: lavorare è una rottura, ma se io so per chi lavoro, per cosa lavoro, ho una passione per questo lavoro, se ho il piacere di poter tornare a casa la sera e far da mangiare ai miei figli e farli stare un po’ meglio, stare meglio con la mia famiglia o collaborare nel mio piccolo ad un’impresa bella, per cui valga la pena di combattere, mi rompo meno a lavorare. Questo tutti lo sperimentiamo. In una struttura relazionale anche queste, che apparentemente sono delle punizioni, funzionano diversamente.
20L’uomo chiamò sua moglie Eva, perché ella fu la madre di tutti i viventi.
Qui c’è una storia antica, che mi ha molto colpito, tutti abbiamo letto questo versetto mille volte e credo che tutti una volta o l’altra ci siamo chiesti che cosa vuole dire? Nel testo ebraico la parola non è un nome proprio, perché i nomi non esistono ancora, c’è solo Adamo che ha un nome e Adamo vuol dire il terroso essendo stato fatto dalla polvere, si capisce. Adamo darà il nome gli animali e qui dà il nome anche a Eva, ma Eva non è un nome proprio, vuol dire vita. Quindi l’uomo chiamò sua moglie vita perché fu la madre di tutti i viventi. La versione greca dell’antico testamento e la traduzione latina di San Girolamo e fino al sesto secolo traducono vita. Intorno al sesto secolo, che è il momento in cui nella comunità cristiana avviene l’espulsione delle donne da tutti i ruoli di diaconato e dai ruoli pubblici, c’è un grande periodo di misoginia. Improvvisamente la traduzione cambia, non si scrive più vita, ma si scrive la traslitterazione delle lettere ebraiche e diventa Eva con la lettera maiuscola che non vuol più dire niente. Qui è molto chiaro l’uomo chiamò la moglie vita perché così è la vita perché riconosce la vita come è. Nasce un gran pasticcio quando comincia la lettura misogina, contrapponendo Eva a Maria, però di per sé questa cosa non è nel testo. Il versetto che segue chiudere il cerchio:
21Il Signore Dio fece all’uomo e a sua moglie tuniche di pelli e li vestì.
Dio minaccia delle punizioni che sono la vita come è, che non puniscono niente, e alla fine, dopo essersi sentito dire da Adamo che è nudo perché lui non ha finito l’opera, allora gli fa i vestiti. Cura la loro nudità, cioè fin da qui nella lettura, ma non è vero dal punto di vista tecnico, c’è l’annuncio della salvezza cristologica. Noi siamo tutti in una struttura di desiderio di sé che di per sé, non essendo relazionale, trasforma la tragedia in dramma. Di fronte al nostro dramma, Dio un po’ alza la voce, ma poi almeno su un pezzo ce la dà vinta, come si fa con i bambini, che dopo una sgridata della grossa, si dà una piccola consolazione per farla passare, se no è troppo. Dunque Dio cuce loro le tuniche di pelle e li manda in giro per il mondo: è esattamente ciò che succede dopo: li scacciò dal giardino di Eden. Li mette nella condizione di essere presentabili e li manda in giro per il mondo. È esattamente quello che succede a noi, la ferita narcisistica ci manda in giro per il mondo. Uno esce dal paradiso incantato di un’infanzia permanente, dove pensa che il desiderio di sé è l’unico criterio del mondo, nel momento in cui esperimenti che ci sono gli altri, e che in qualche modo bisogna fare i conti con questo, ti devi inventare o farti donare una tunica di pelle con cui andare in giro per il mondo.
22Poi il Signore Dio disse: «Ecco, l’uomo è diventato come uno di noi quanto alla conoscenza del bene e del male. Che ora egli non stenda la mano e non prenda anche dell’albero della vita, ne mangi e viva per sempre!». 23Il Signore Dio lo scacciò dal giardino di Eden, perché lavorasse il suolo da cui era stato tratto.
Quando leggo il versetto 23, mi chiedo sempre se è una maledizione o una fortuna. La sensazione letta con gli occhi di oggi è che il trentenne che non se ne va di casa, ad un certo punto trova le valige fuori dalla porta, perché lavori il suolo che gli è stato dato, perché sia padrone della terra, amministratore del campo di Dio.
24Scacciò l’uomo e pose a oriente del giardino di Eden i cherubini e la fiamma della spada guizzante, per custodire la via all’albero della vita. La terza citazione che trovate sul programma delle lectio è sempre di Sonnet è in relazione alla conclusione di questo testo e la fiamma della spada guizzante: “in quei giorni in cui uno e tutto guance, tesa l’una e l’altra, di fervore e di offesa, di stupore d’infanzia, l’una e l’altra confuse per rosee fusioni. Nell’incendio si diffonde la notizia – Dio fa meraviglia nel groviglio dell’io”.
Questa spada fiammeggiante che custodisce il giardino mi sembra veramente: “nell’incendio si diffonde la notizia – Dio fa meraviglia nel groviglio dell’io”.
Fossano 17 ottobre 2015
(testo non rivisto dall’autore)
Lectio 2015/2016
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