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19 Marzo 2016
Stella Morra

6. Un unico sacrificio

Commento a: Mc 15, 6-47


Introduzione

La lectio di oggi è particolare, perché è stata pensata un po’ come il punto di svolta, il punto cardine del percorso.  Ricordate che la domanda da cui eravamo partiti era cercare di riflettere sull’umanità, gli umanesimi, il modo di essere umani, così come la Bibbia ci conduce a scoprirlo. Abbiamo ascoltato, come sempre, una prima parte sull’Antico Testamento in cui più fortemente si mette in luce la dimensione descrittiva. Tante volte ci siamo detti: l’AT in qualche modo descrive più profondamente i movimenti di un’umanità aperta a Dio, al rapporto con Dio e alla trascendenza, ma di un’umanità più comune, descritta nei suoi movimenti elementari.

In qualche modo poi, il passaggio al Nuovo Testamento segna sempre una svolta cristologica, cioè il passaggio ad una Parola in più che è Gesù, il Figlio di Dio. A qualcosa, dunque, che introduce una rottura (vedi seconda Lectio). La parola nella scrittura umana interrompe, è il modo in cui l’altro mi raggiunge ed è dunque la grande interruzione, l’invocazione, la domanda, l’intercessione, in tutte le sue forme fino, dicevamo, alla forma della Legge. È allora chiaro che Gesù, che è la Parola di Dio, è in qualche modo questa grande interruzione.

Quindi, gli elementi che avevamo messo in luce percorrendo i testi dell’AT erano quelli legati al tema del desiderio originario, della cura di sé, della cura dell’altro e di come questo possa innescare tragedie o drammi. La tragedia comune, cioè, è dell’essere umano come qualcosa di costoso, perché la cura di sé e la cura dell’altro, non vanno in equilibrio da sole, c’è sempre un prezzo da pagare. C’è sempre una fatica da fare, per quanto parziale, ragionevole, ma c’é sempre una fatica per tenere in equilibrio.

Perché la cura di sé ha la sua verità nella cura dell’altro, perché l’unico modo per avere cura di sé è essere amati e per essere amati bisogna che l’altro esista nella sua libertà. Questo è strutturalmente conflittuale e quindi è strutturalmente costoso, ha sempre un prezzo, non si può vivere in qualche modo a cuor leggero. D’altra parte il racconto del Peccato Originario ci diceva che può svoltare in dramma, cioè può voltare nei mille modi in cui si può rifiutare questo equilibrio. Far prevalere la cura di sé, ma anche far prevalere la cura dell’altro essendo totalmente estroversi, investiti sull’altro senza la minima consapevolezza di sé, sono modi in cui il prezzo da pagare si trasforma in un dramma, cioè in un male, in qualcosa che ricade in breve o lungo tempo in un male.

Questo meccanismo di equilibrio, dicevamo, ha nella storia dell’esperienza umana la parola come strumento regolativo. La parola dell’altro è il modo in cui l’altro mi dice, mi lascia scorgere, mi lascia intravedere il desiderio. La parola in senso molto ampio, non solo le parole verbali, ma il modo in cui l’altro si apre, dove quindi si può costruire un equilibrio per parole successive e per questo da tanto tempo nell’Atrio riflettiamo su questo. Dall’inizio proprio del percorso Le parole per dirlo sono così importanti, cioè avere delle parole che non feriscono, che non escludono, che non rompono il dialogo, ma parole vere, contemporaneamente sopportabili. Questo è esattamente il luogo dove un po’ alla volta si può costruire la possibilità di pagare un prezzo ragionevole per una vita umanamente benedetta, il che non è poco.

Poi abbiamo visto le varie forme che questa parola può prendere: invocazione, richiesta, dono e legge e in particolar modo la forma della legge che porta con sé una deformazione, un dramma possibile, che è il dramma di chi trasforma la parola in una legge, che diventa assoluta, una parola di misura. Si mette fuori e misura la giustizia o l’errore del desiderio, dice questo sì, questo no,  questo è giusto, questo è sbagliato, questo è buono, questo è cattivo. Di come sia stato proiettato anche su Dio, trasformato in un giudice, che sta fuori e che misura sulle parole della dottrina, della Legge, in qualche modo non coinvolto.

Il passo successivo era il contesto dell’Esodo che avevamo visto con Mosè, dove questa parola si colloca dentro, non più fuori. Non è la parola di un giudice, ma la parola di madri e di padri, cioè di generazione, di coinvolgimento, di accudimento, non di un rapporto semplicemente con l’altro. Il desiderio di sé e il desiderio dell’altro come alla pari, ma in qualche modo un rapporto in cui io mi assumo una maternità nei confronti dell’altro, che è il modo per essere coinvolti. Maternità che ha molte forme, che non è necessariamente una maternità nella forma psichica, ma che è esattamente il modo dell’aver cura dell’altro.

Nell’ultima lectio, nel testo di Isaia ci chiedevamo, se Dio non è fuori e non è un giudice, qual è il suo posto? Qual è la parola che Dio dice in questa relazione? Non è un caso che Dio, il padre di Gesù Cristo, noi lo chiamiamo Padre, cioè lo mettiamo all’interno di una dinamica di generazione, di aver cura. La volta scorsa, dicevamo, il luogo di Dio è il luogo della simbolica, dello sfondamento, di ricevere desideri ma anche di mostrare che hanno un’altra dimensione, che c’è di più di quello che noi supponiamo ci sia. E in qualche modo questa sfida è quella che la filosofia chiama la sfida della trascendenza, ma anche in linguaggio filosofico è proprio una parola che interrompe, che sfida ad andare oltre, a tenere aperto questo processo di equilibrio. Non chiuderlo nemmeno sugli errori, non rimanere piegati su una ferita ricevuta o su un errore creato, perché questo orizzonte di Dio sfonda la possibilità in questo senso, la simbolica. La simbolica è ciò che apre a un’altra dimensione che butta al di là, che fa vedere attraverso, dentro e attraverso le cose.

Quindi, arriviamo proprio al cuore della faccenda, ed è bello che ci arriviamo nei pressi di Pasqua. In qualche modo, come tutta la Scrittura ci mostra, Dio non dice semplicemente delle cose, non annuncia delle verità o delle leggi, la sua Parola è sempre Parola creatrice. Fin dal primo libro della Bibbia, Dio disse: “sia la Luce e la Luce fu”. Una parola oggi si direbbe tecnicamente performativa, che fa quello che dice, ma non per coerenza o perché è bravo, ma perché è una parola potente, è una parola che quando dice una cosa l’afferma, quella cosa diventa realtà. E allo stesso modo fa quello che dice, perché c’è una corrispondenza perfetta tra la sua parola e l’equilibrio. Se volete ve lo dico in termini spirituali, che in genere uno capisce meglio: in Dio la Trinità, le tre persone, sono tutte Dio nello stesso modo, sono lo stesso Dio, un Dio unico e trino. Il che vuol dire che non c’è distorsione, che non c’è distanza, tra il Dio in sé, il Dio che parla, il Dio che agisce in questo processo, che non c’è uno squilibrio tra la cura di sé e la cura dell’altro. Questo vuol dire l’esperienza trinitaria.

Da questo punto di vista, allora, dopo aver rimuginato a lungo mentre preparavo, ho scelto questo. Mi sembrava che bisognava andare in medias res, cioè possiamo leggere mille brani di Vangelo su questa faccenda per vedere come Dio, come Gesù è la Parola di Dio. È quella Parola che interrompe e fa questo equilibrio. Per esempio tutti i testi dei miracoli, sono costruiti su questa struttura. Gesù fa sempre i miracoli parlando e poi toccando, usando le mani. E la sua Parola è una parola che ristabilisce un equilibrio. Chi è cieco vede, chi è paralitico cammina. Cioè ristabilisce una possibilità di aver cura di sé e di aver cura degli altri. È chiaro che il punto qualificante, il nocciolo di questa faccenda sono i racconti di Passione. È la morte di Gesù e che corrispettivamente l’aver pensato Dio come un giudice, fuori da questa dinamica, ci sono stati quasi sempre presentati come Gesù che annulla se stesso, che ha talmente amore per noi che azzera sé. Come se l’ideale non fosse l’equilibrio tra la cura di sé e la cura degli altri, ma l’azzeramento della cura di sé, che è una deformazione molto pesante che nella storia del Cristianesimo c’è stata.

In realtà il racconto della morte di Cristo, che ovviamente è qualificante in tutta la sua storia, in questa logica è un racconto di grande equilibrio, perché non a caso gli Evangelisti ci raccontano che Gesù muore e risorge. La fine è che Gesù ascende al cielo, ma l’evento è la morte e resurrezione e cioè il prezzo del sacrificio non è l’azzeramento di sé ma è lo sfondamento radicale di sé.

È passare dalla vita che lui aveva, alla vita del suo corpo glorioso, alla resurrezione, è la restituzione di sé in un’altra forma. È un sé totalmente ricevuto, totalmente trasformato, ma assolutamente lo stesso sé, per cui ha le piaghe come prima della resurrezione, per cui lui riconosce i suoi anche se i suoi non lo riconoscono, o faticano a riconoscerlo, etc. Allora, è veramente che Gesù accetta fino in fondo la sfida posta dal Padre di sfondare, di andare oltre e andando oltre viene resuscitato cioè diventa il Vivente, quello che non muore più. Supera anche la struttura della morte che è l’ultimo passo di fronte al quale ciascuno di noi, non può aver cura di sé fino in fondo, perché non si può, non si guarisce.

Per questo motivo ho deciso di percorrere con voi brevemente una parte del racconto di Passione, la parte finale, e l’ho preso dal Vangelo di Marco per una serie di considerazioni, non è il Vangelo che si legge quest’anno. Marco è il Vangelo più sintetico, più asciutto, dove è più facile riconoscere la struttura fondamentale del racconto perché ha pochi fiocchetti, è molto essenziale, pone gli avvenimenti in modo molto secco, con una frase, due frasi e quindi ci consente di riconoscere bene lo scheletro del racconto perché c’è poca roba intorno. Ovviamente l’invito è a trovare un tempo, in questi giorni prima di Pasqua, per leggere gli altri racconti o ascoltarli nella Lettura che verrà fatta domani nel Passio, in qualche modo con le stesse orecchie, cioè provando a ritrovare lo stesso ritmo anche negli altri racconti dei sinottici.

All’inizio del capitolo 15 di Marco ci sono cinque versetti del dialogo tra Gesù e Pilato che, dal mio punto di vista introducono un altro tema, quindi li lascerei e inizierei dal versetto 6 che dice così:

Il testo: Marco 15,6-47

6 A ogni festa, egli era solito rimettere in libertà per loro un carcerato, a loro richiesta. 7 Un tale, chiamato Barabba, si trovava in carcere insieme ai ribelli che nella rivolta avevano commesso un omicidio. 8 La folla, che si era radunata, cominciò a chiedere ciò che egli era solito concedere. 9 Pilato rispose loro: «Volete che io rimetta in libertà per voi il re dei Giudei?». 10 Sapeva infatti che i capi dei sacerdoti glielo avevano consegnato per invidia. 11 Ma i capi dei sacerdoti incitarono la folla perché, piuttosto, egli rimettesse in libertà per loro Barabba.

Per questa Lectio preferisco leggere una scena alla volta, per rendere visibile la struttura del racconto. Questa è la prima scena, che tutti abbiamo nelle orecchie e che nel Vangelo di Marco è molto secca. Se ci pensate un attimo, ci sono tutti i termini della questione che siamo andati visitando finora.

La questione della libertà: chi devo mettere in libertà? È la vera questione dell’essere umani: come si fa ad essere liberi dal bisogno della cura di sé e dalla necessità di pagare un prezzo alla cura degli altri? Si possono fare molti ragionamenti filosofici sulla libertà. La storia dell’umanità ci si è accanita. È un tema classico: ci sono le libertà personali, i diritti, la libertà politica, le libertà civili, con infiniti aggettivi e distinzioni. Per me è chiaro che il nucleo fondamentale è che siamo strutturalmente relazionali. Questa è la matrice della tragedia di essere umani. Non siamo strutturalmente liberi, non in senso filosofico. Non possiamo ignorare tutto il resto, che sia il pianeta, gli altri, chi mi vuole bene, chi non mi vuole bene, etc. Non possiamo dire: io mi basto, anche solo per puro egoismo, per poter star bene, di qualcosa ho bisogno (il mondo, le cose, il cibo, il calore, gli affetti etc.). La grande questione è quale prezzo sono disposto a pagare per ciò che mi serve. Quale libertà posso percorrere, fino a dove posso essere libero. Questa è la grande questione.

Pilato in questo racconto fa la parte, noi diremmo oggi, del flusso narrativo, della coscienza esplicita. Pilato è figura molto moderna, amata dai moderni perché non è così cattivo, non è il mostro, è uno che cerca di cavarsela e che riflette a voce alta sulle cose su cui ciascuno di noi riflette. Pilato, dunque, dice: era solito rimettere in libertà per loro un carcerato. Ognuno di noi investe la sua esperienza nel cercare una libertà maggiore, nel rimettere in libertà qualcosa di sé e di volta in volta, da adulto, deve decidere quanto può investire, su cosa, su quale dimensione della sua vita può guadagnare un po’ di libertà.

Questo tale guarda caso si chiama Barabba. Noi abbiamo il problema, che leggendo la Bibbia in traduzione, perdiamo il sistema degli antichi i giochi di parole, a volte tradotti, a volte no. Il suo nome è Bar Abbà, dove Bar in ebraico vuol dire figlio e Abbà vuol dire padre, cioè si chiama “figlio del padre”, che sarebbe la definizione di Gesù. È chiaro che Barabba e Gesù sono le due facce della stessa medaglia, sono il figlio di un padre nelle due versioni possibili.

E Barabba in fondo che cosa ha fatto poi di male? Durante una rivolta ha commesso un omicidio, esattamente come Mosè, che abbiamo letto, che uccide l’egiziano, ma Mosè è il grande padre del popolo. Qui invece, Barabba fa la figura del cattivone, ma di per sé non stiamo parlando di un delinquente, ma di un figlio del padre che ha deciso che il prezzo da pagare lo doveva pagare un altro e non lui. Questo è un antico sistema che tutti noi pratichiamo ogni tanto di fronte ad alcune cose dell’esistenza: il prezzo lo facciamo pagare a qualcun altro, perché non ce lo facciamo a pagarlo noi.

D’altra parte è Gesù che non fa pagare ad altri. Non solo non fa pagare il proprio, ma non fa pagare agli altri nemmeno quello che dovrebbero pagare loro. Paga lui per tutti. Più chiaro di così. Sono proprio le due facce della medaglia. Come si gestisce il rapporto tra tragedia e dramma? Facendo pagare agli altri, oppure pagando noi anche per gli altri? Questa è la questione.

Di Barabba non sappiamo poi che fine abbia fatto. È stato liberato, quindi nell’immediato ha avuto anche un buon successo, perché se l’è cavata. Di Gesù sappiamo invece che è morto in croce e poi risuscitato, quindi che ha sfondato la simbolica dell’esistenza. Dipende da cosa uno vuole raggiungere, che tipo di libertà vuole nella propria esistenza.

La folla è l’altro grande interlocutore. Possono essere citate pagine di grandi psicanalisti contemporanei che lo hanno commentato, ma non bisogna essere uno psicanalista, basta essere uno studioso di cose antiche. Dal teatro greco in poi il coro, la folla, è sempre l’animus profondo; è la vocina interiore, è quello che ti consiglia una strada dentro di te. Non saremmo mai incerti se non avessimo sempre una voce dentro, che ci fa pensare che forse c’è una strada a minor costo e a miglior risultato. Succede come quando si deve prendere una decisione importante nella vita, a più gente chiedi, più soluzioni vengono fuori e comunque quella che volevi tu è sicuramente sbagliata. Devi saperlo fin dall’inizio perché quando poi decidi trovi sempre qualcuno che ti dice: “ma perché hai fatto così? Era molto più semplice fare in quest’altro modo”. C’era sempre un altro modo e questa è la folla. Ognuno di noi ha una folla dentro, oltre che avere una folla fuori, e spessissimo la folla fuori è solo la proiezione in technicolor della folla che hai dentro, che reclama il proprio diritto che vuole una libertà.

9 Pilato rispose loro: «Volete che io rimetta in libertà per voi il re dei Giudei?».

È interessante perché c’è la grande tensione tra Pilato e la folla, che è proprio la nostra tensione interiore. Sono le due voci, la parte più profonda di noi, dubbiosa e un po’ incerta, e la parte più di pancia, che vorrebbe una scorciatoia. E Pilato lo riconosce molto bene, lo chiama Re dei Giudei senza alcuna ironia. Questa definizione poi diventerà nella scena seguente un oggetto di ironia. Ma Pilato lo chiama Re dei Giudei perché lo posiziona in un sistema di relazioni, cioè fa l’unica cosa giusta nei confronti degli umani. Ognuno di noi non è sé in quanto nome proprio assoluto, perché questa è l’esperienza di Dio. Ognuno di noi è se nel sistema delle relazioni: è qualcosa per qualcuno (fratello, sorella, madre, figli, nipote, amico, maestro, alunno, debitore, donatore, etc.). Ognuno di noi è molte cose da questo punto di vista, non è mai una cosa sola, sta in un sistema di relazioni.

Pilato mette Gesù al posto giusto, il Re dei Giudei, lo posiziona in un sistema di relazioni. Dice, c’è poco da fare, questo qua è uno che rispetto a voi ha un potere e lo ha dimostrato, se no non sareste così arrabbiati. La folla gli chiede che rimetta in libertà Barabba. E allora Pilato prova ad insistere, cioè la parte ragionevole, più vocata ad una umanità più seria, prova un po’.

12 Pilato disse loro di nuovo: «Che cosa volete dunque che io faccia di quello che voi chiamate il re dei Giudei?». 13 Ed essi di nuovo gridarono: «Crocifiggilo!». 14 Pilato diceva loro: «Che male ha fatto?». Ma essi gridarono più forte: «Crocifiggilo!». 15 Pilato, volendo dare soddisfazione alla folla, rimise in libertà per loro Barabba e, dopo aver fatto flagellare Gesù, lo consegnò perché fosse crocifisso.

Non solo non avere cura di lui ma cancellalo proprio, anzi di più: non solo uccidilo, ma umilialo. È proprio l’azzeramento non solo della sua vita, ma della sua dignità. Crocifisso fuori le mura come un bestemmiatore.

Pilato prova ad insistere: «Che male ha fatto?». Qual è la ragione per crocifiggerlo? Ma essi gridarono più forte: «Crocifiggilo!». C’è poco da fare c’è sempre una folla dentro di noi che non sente ragione, che vuole la scorciatoia ad ogni costo. E allora c’è questa conclusione molto triste:

15 Pilato, volendo dare soddisfazione alla folla, rimise in libertà per loro Barabba

La tragedia si gioca a molti livelli. Il problema è a chi vogliamo dare soddisfazione. Cura di sé? Cura degli altri? Cura di quali altri? Della folla?

In tutti i Vangeli Gesù non ha mai cura della folla, tranne nel caso della predicazione sul monte in cui vide la folla, vide che erano affamati e stanchi, ed ebbe compassione, cioè considera la folla con compassione e fa il miracolo dei pani e dei pesci. In genere no, ha sempre una interlocuzione o con i Dodici o con dei singoli con un nome e un cognome, non dà mai soddisfazione alla folla. Qui secondo me ci sarebbero molti ragionamenti da fare, perché io credo, lo credo per me e forse proiettivamente lo propongo a tutti, che qui ci sia una delle ragioni più profonde del 90% del male che abita il mondo. C’è sempre una folla a cui vogliamo dare soddisfazione e questo ci porta fuori strada, ci confonde, perché la folla non ha mai verità.

Solo le persone con un nome e un cognome hanno la verità. L’unica verità della folla è una verità di commozione, cioè di bisogno di aiuto, di povertà. La povertà può essere riconosciuta senza volto, ma tutte le altre soddisfazioni da dare alla folla sono sempre un errore. Personalmente credo che questo sia veramente un punto molto delicato, poi c’è la seconda scena:

16 Allora i soldati lo condussero dentro il cortile, cioè nel pretorio, e convocarono tutta la truppa. 17 Lo vestirono di porpora, intrecciarono una corona di spine e gliela misero attorno al capo. 18 Poi presero a salutarlo: «Salve, re dei Giudei!». 19 E gli percuotevano il capo con una canna, gli sputavano addosso e, piegando le ginocchia, si prostravano davanti a lui. 20 Dopo essersi fatti beffe di lui, lo spogliarono della porpora e gli fecero indossare le sue vesti, poi lo condussero fuori per crocifiggerlo..

È la prosecuzione della scena precedente. Il posto relazionale che Pilato gli ha riconosciuto, gli viene rivoltato contro, diventa una beffa: lo scherniscono come re. Questo è uno dei motivi per cui abbiamo così paura di dire e di fare la verità. Perché certe volte uno, con molta fatica, mostra il posto relazionale che occupa. Quanto deve e a chi, quanto è lieto di essere amato, quanto è grato, quanto bisogno ha e questo gli viene rivoltato contro come una beffa. E c’è poco di più doloroso nella vita, evidentemente. Perché fare la verità di sé e dire io sono qui, per poi sentirsi presi in giro è il peggio che può succedere ed è esattamente la negazione del luogo, l’inizio della morte.

Gesù inizia qui a morire. Il suo luogo relazionale è negato e lo sarà ancora. È chiaro che qui la china comincia ed è interessante perché nel racconto della Passione non c’è mai una china a scendere disastrosamente. Non c’è qualcuno un po’ incerto all’inizio e poi solo cattivi. I Vangeli ci mostrano che c’è sempre una tensione, un continuo alternarsi tra figure che prendono la china dell’uccisione dell’altro. Ci sono figure che, invece, anche in quella situazione limite, riconoscono, aprono, sfondano la possibilità di una cura dell’altro mai risolutiva, che non lo salva, ma che in qualche modo lo accoglie, lo raccoglie e qui si vede nel versetto successivo.

21 Costrinsero a portare la sua croce un tale che passava, un certo Simone di Cirene, che veniva dalla campagna, padre di Alessandro e di Rufo.

Simone di Cirene non è folla. In una riga e mezza, si dice il nome, da dove viene e il nome dei suoi due figli. Citato in questo unico versetto in tutto il Vangelo e in questo unico versetto si danno di lui più notizie di quante non si diano di metà dei Discepoli. Non sappiamo se Pietro, Cefa, avesse figli e se li avesse come si chiamavano. Di Simone, che viene da Cirene, sappiamo che era padre di Alessandro e di Rufo. Perché lui ha un luogo, un luogo relazionale, ha delle relazioni e dunque può prendersi sulle spalle la croce di Gesù. Può aver cura di questo che non conosce, facendo una fatica, pagando un prezzo. Non risolve un tubo, non cambia niente, non sappiamo cosa gli è successo dopo, non è una cosa risolutiva, ma può entrare in questo gioco interrompendo la china a discendere, mostrando che anche in quel momento si può essere liberi.

Questo versetto ci fa passare alla scena madre, al cuore, alla crocifissione vera e propria.

22 Condussero Gesù al luogo del Gòlgota, che significa «Luogo del cranio», 23 e gli davano vino mescolato con mirra, ma egli non ne prese. 24 Poi lo crocifissero e si divisero le sue vesti, tirando a sorte su di esse ciò che ognuno avrebbe preso. 25 Erano le nove del mattino quando lo crocifissero. 26 La scritta con il motivo della sua condanna diceva: «Il re dei Giudei». 27 Con lui crocifissero anche due ladroni, uno a destra e uno alla sua sinistra. [ 28]

29 Quelli che passavano di là lo insultavano, scuotendo il capo e dicendo: «Ehi, tu che distruggi il tempio e lo ricostruisci in tre giorni, 30 salva te stesso scendendo dalla croce!». 31 Così anche i capi dei sacerdoti, con gli scribi, fra loro si facevano beffe di lui e dicevano: «Ha salvato altri e non può salvare se stesso! 32 Il Cristo, il re d’Israele, scenda ora dalla croce, perché vediamo e crediamo!». E anche quelli che erano stati crocifissi con lui lo insultavano.

In altri racconti dei Vangeli sinottici i ladroni sono uno buono e uno cattivo. Marco, invece, li considera tutti cattivi. Di buoni c’è Simone di Cirene, quindi un pagano, e poi ci sarà il centurione, anche lui un pagano, in mezzo tutti bestie. Marco era arrabbiato con i giudei, per lui i giudei sono tutti sulla china a scendere.

La scena qui è incredibile, l’abbiamo sentita centomila volte, ma la descrizione di Marco mi piace tantissimo, perché è molto asciutta. Il racconto è breve e sintetico, però è fortemente metaforico con tanti elementi che rimandano ad un intero universo, che fa vedere proprio tutto. “Viene condotto al Gòlgota” che è un luogo fuori dalle mura della città, un luogo escluso, un luogo dei supplizi. È un luogo di emarginazione, dovremmo dire oggi usando il linguaggio di Francesco, una periferia. Si muore fuori, si muore condannati, esclusi.

La prima cosa che ci dice Marco è che si dividono le sue vesti. Gli esegeti ci spiegano con la profezia di Isaia a cui bisogna corrispondere, allora gli evangelisti, i tre sinottici, raccontano la storia del vestito. Perché c’è una profezia del Servo di Javhe che dice “poi tirarono a sorte sui suoi vestiti […]” che citano l’AT. Certamente sarà così, ma c’è di più, c’è un valore simbolico. Il vestito è il nostro modo elementare di rapportarci al mondo. È il modo basilare con cui ci mostriamo e ci nascondiamo, con cui stabiliamo il primo equilibrio base di ciò che gli altri possono vedere e non ed è il modo fondamentale con cui ci rapportiamo alle regole del mondo.

Contemporaneamente non vestiamo una divisa, ognuno di noi interpreta queste regole a modo proprio. Non ci sono tra noi due vestiti uguali, perché ognuno esprime sé. L’altro giorno ho sentito uno con cui parlavamo di questo testo, e mi diceva che secondo lui vedendo le immagini dei calciatori e dei divi, se scrivessero i Vangeli direbbero che l’hanno rasato. Perché l’espressione individuale attuale è molto più nei capelli che nel vestito. Ed è vero, non sappiamo più cosa inventarci perché in fondo la globalizzazione ci rende tutti troppo simili, allora ci diversifichiamo nel trafficare con i nostri capelli.

Il vestito è un modo in cui noi ci presentiamo al mondo, in cui noi stabiliamo la prima regola di vicinanza e di distanza, di visibilità e di nascondimento. E la cosa che fanno i soldati è di dividersi i vestiti, tirarne la sorte, per rendere totalmente impotente Gesù sulla misura del rapporto tra sé e il mondo. Non può più niente. Non c’è nessuna decisione, addirittura si tira a sorte. I soldati non sprecano nemmeno la fatica di litigare su chi piglia cosa.

26 La scritta con il motivo della sua condanna diceva: «Il re dei Giudei».

Per Pilato è la collocazione del suo luogo relazionale, poi diventa il luogo della beffa, e infine addirittura il motivo della condanna. Tradotto nel linguaggio contemporaneo sarebbe: “Non è che mi stai antipatico perché mi hai fatto qualcosa, è proprio perché sei tu, anche se non mi hai fatto niente”, che è proprio la negazione di qualsiasi possibilità di rapporto tra cura di sé e cura dell’altro. Se sei arrabbiato con me perché ti ho fatto qualcosa, bene possiamo trovare una misura, posso provare a correggere, posso chiederti scusa, posso provare a fare in un altro modo, posso provare a spiegarti perché ho fatto così. Ma se tu mi dici: “E’ il fatto che tu esista che mi sta sulle scatole”, allora non c’è spazio per una relazione possibile.  Non c’è più spazio e in questo Gesù muore.

Nel racconto che abbiamo sentito domenica scorsa, la lettura dell’adultera, Gesù può relazionarsi perché quelli gli dicono: “Cosa ci dici di una donna così, cosa dobbiamo fare? La legge di Mosè dice questo, tu cosa dici?”. E lui dice, e li spiazza tutti, li rimanda a loro stessi. Loro hanno capito che non possono dialogare con questa parola, perché questa parola gli interrompe sempre gli equilibri, quindi azzerano la possibilità di un dialogo. Sei tu, e perché sei tu ti condanno. Fine.

E questo è mostrato ancora di più dal pezzo relativamente lungo, quattro versetti che per Marco sono tantissimi, che viene dedicato al fatto che Gesù viene schernito perché non si occupa di se stesso. «Ha salvato altri e non può salvare se stesso!». Dimostra la tua potenza, se vediamo, poi crediamo, scendi dalla croce. E’ la grande sfida. E’ proprio la questione centrale. E arrivati a questo acme, a questo essere sfidati esplicitamente su occuparsi di sé, sul scegliere come criterio di occuparsi di sé. Tutto è compiuto come dice il Vangelo di Giovanni. Non c’è più nient’altro da dire.

33 Quando fu mezzogiorno, si fece buio su tutta la terra fino alle tre del pomeriggio.

Su questa scena cala il buio, altra immagine metaforica potentissima. Non c’è più lo spazio per una parola che interrompe. C’è il buio. Non si vede più. Non si riconosce più.

34  Alle tre, Gesù gridò a gran voce: «Eloì, Eloì, lemà sabactàni?», che significa: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?». 35 Udendo questo, alcuni dei presenti dicevano: «Ecco, chiama Elia!». 36 Uno corse a inzuppare di aceto una spugna, la fissò su una canna e gli dava da bere, dicendo: «Aspettate, vediamo se viene Elia a farlo scendere». 37 Ma Gesù, dando un forte grido, spirò.

È il compimento di tutto il racconto: nel buio Gesù cita un Salmo che però è un Salmo di maledizione. Nel buio Gesù interrompe ancora una volta con una parola ed è una parola rivolta al Padre, cioè ancora una volta è una parola relazionale per chiedere perché mi hai abbandonato. Il suo contenuto paradossalmente è disperante, ma la parola, nel buio, è detta.

È il rimettersi in un luogo di relazione possibile. Per quanto è una relazione dal contenuto doloroso o assai costoso. Questa è secondo il racconto di Marco la sua ultima parola. Voi sapete che c’è una tradizione antica, io l’ho scoperto recentemente, qui da noi non è particolarmente diffusa, ma nel nord Europa e nell’estremo sud dell’Europa ai due capi lo è ancora, ed è la tradizione delle sette parole di Gesù in croce. Mettendo insieme i racconti dei quattro Evangelisti si ricostruiscono le sette parole che Gesù dice. Ci sono fior di teologi che hanno commentato le sette parole ed è ancora oggi una tradizione paraliturgica, quella della cosiddetta predica delle sette parole che occupa tutto il pomeriggio del Venerdì Santo in cui si commentano queste sette parole.

La prima delle sette parole è questa: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» e l’ultima delle sette parole per la tradizione sarebbe, perché l’ordine è ricostruito dalla tradizione devozionale, « Figlio ecco tua madre. Madre ecco tuo figlio». La ricostituzione di una relazione strutturale madre e figlio, tra Giovanni e Maria ai piedi della croce, quindi, l’inclusione è potentissima.

38 Il velo del tempio si squarciò in due, da cima a fondo. 39 Il centurione, che si trovava di fronte a lui, avendolo visto spirare in quel modo, disse: «Davvero quest’uomo era Figlio di Dio!».

Qui ci sono due elementi simbolici che Marco mette assolutamente vicini: il velo del tempio che è il centro della religiosità giudaica, della tradizione, dell’alleanza, il sancta sanctorum, il luogo custode dell’alleanza. Il luogo dove prima della distruzione del tempio erano custodite le tavole della legge e poi è custodito il vuoto che le tavole hanno lasciato dopo la distruzione del primo tempio. Il velo che custodisce questo luogo assolutamente principe della relazione tra popolo e Dio si squarcia. Questo luogo diventa pubblico. Non è più nascosto, segreto. La misura della relazione che è stata negata a Gesù diventa visibile nel tempio. Per gli ebrei questo era molto chiaro: la misura del rapporto tra Dio e gli uomini era custodita dai sacerdoti nel sancta sanctorum, sotto un velo che non doveva essere aperto. Da una parte viene negata a Gesù la misura della relazione e dunque viene resa pubblica, dall’altra c’è un pagano, un centurione romano, che non sa niente di tutto ciò e che:

39 […] avendolo visto spirare in quel modo, disse: «Davvero quest’uomo era Figlio di Dio!».

In che modo? In un modo orrendo. Quale sarebbe il modo in cui è spirato? Con i farisei e i sacerdoti che dicono “Scenda dalla croce e crederemo” e al centurione che l’esperienza della fede viene dal vedere uno morire così, con questa accettazione dello sfondamento.

È carino perché in questo andamento tra discese e salite, tra figure positive e negative, il Vangelo non ha il complesso dei cowboy e degli indiani, non ci sono i buoni e i cattivi, c’è sempre la complessità dell’animo umano. Con questo finale aperto che è esattamente ciò che dà senso a tutto quello che viene prima. Se ci fermassimo lì, senza quest’ultima parte, sarebbe una struttura che giustificherebbe la posizione di dire: “Per essere cristiani bisogna, come Gesù, annullare la cura di se stessi, bisogna esasperare solo la morte” e invece si dice:

40 Vi erano anche alcune donne, che osservavano da lontano, tra le quali Maria di Màgdala, Maria madre di Giacomo il minore e di Ioses, e Salome, 41 le quali, quando era in Galilea, lo seguivano e lo servivano, e molte altre che erano salite con lui a Gerusalemme.

Abbiamo già visto in vari testi precedenti il ruolo delle donne nella Scrittura, le levatrici ebree ad esempio sono figure non ufficiali, che non hanno una soggettività e che dunque mostrano il loro luogo di relazione non in base ad un’attesa pubblica, ma in base semplicemente alla verità del luogo dove si pongono, e loro si pongono ad osservare da lontano.

C’è uno studio abbastanza interessante di Gerd Theissen (Gesù e il suo movimento, ed. Claudiana) sulle origini del Cristianesimo che si occupa molto a lungo di questo gruppo di donne che seguono Gesù e sostanzialmente quello che viene fuori dal suo studio è che i Discepoli, brava gente, molto eroici, ma avevano tutti mollato il lavoro per seguire Gesù e quindi, questo Rabbi itinerante non aveva un quattrino, né lui, né i suoi discepoli. E queste donne erano in realtà il sostentamento, erano per lo più, pare, donne di una certa ricchezza, variamente collocate, che in qualche modo si occupavano, come fanno sempre le donne, del mangiare, del dormire, come sistemare. E che sono veramente l’aspetto terrestre, materno, il legame con la terra.

42 Venuta ormai la sera, poiché era la Parasceve, cioè la vigilia del sabato, 43 Giuseppe d’Arimatea, membro autorevole del sinedrio, che aspettava anch’egli il regno di Dio, con coraggio andò da Pilato e chiese il corpo di Gesù. 44 Pilato si meravigliò che fosse già morto e, chiamato il centurione, gli domandò se era morto da tempo. 45 Informato dal centurione, concesse la salma a Giuseppe. 46 Egli allora, comprato un lenzuolo, lo depose dalla croce, lo avvolse con il lenzuolo e lo mise in un sepolcro scavato nella roccia. Poi fece rotolare una pietra all’entrata del sepolcro. 47 Maria di Màgdala e Maria madre di Ioses stavano a osservare dove veniva posto.

Questo è veramente il finale aperto, ma che è percepito dai protagonisti come un finale chiuso: si mette una pietra sopra. La vicenda è finita. È la stessa frase dei Discepoli di Emmaus “Noi credevamo che fosse lui”. È la chiusura di una storia, ma in realtà è la sua grande apertura. Come tutti sappiamo, le donne si recano al Sepolcro il giorno dopo il sabato, con la grande preoccupazione di chi rotolerà via la pietra, ma sarà l’unico problema che non hanno. In compenso ne avranno tanti altri, perché la pietra è già rotolata via, perché non ci si può mettere una pietra sopra.

Da questo punto di vista, questi, che non sono i Discepoli e non sono i Farisei, ma sono le donne, e questo Giuseppe d’Arimatea che aspettava anch’egli il Regno di Dio, non sono né buoni né cattivi, ma sono capaci di abitare l’interstizio. I Discepoli vanno a chiudersi nel Cenacolo e ci andrà poi lo Spirito Santo per tirarli fuori, perché non sono proprio disponibili. Le donne, invece, rimangono ad abitare lo spazio intermedio, non si rassegnano che sia finita così la storia.

Le donne domandano un’altra libertà, non come un diritto, ma andando a vedere dove l’hanno posto, cioè tenendo d’occhio cosa succede. Tenendo gli occhi aperti sul reale. Facendo ciò che bisogna fare: far calare il corpo dalla croce, avvolgerlo in un lenzuolo, metterlo in una tomba scavata. Le donne andranno per ungere il corpo, per compiere i riti inutili ma pietosi della sepoltura ed è questa attesa nell’interstizio che continua ad aprire il dialogo e consente che ci sia una Resurrezione.

Vorrei dunque chiudere questa lunga riflessione con una breve citazione che ho usato già tante volte e mi piace moltissimo, che secondo me dice bene cosa vuole dire abitare questo interstizio, cioè essere Maria di Magdala, Maria di Ioses, Salome o Giuseppe d’Arimatea. È una citazione tratta da Oceano Mare di A. Baricco:

…Ancora adesso nelle terre di Carewall, tutti raccontano quel viaggio. Ognuno a modo suo. Tutti senza averlo mai visto. Ma non importa. Non smetteranno mai di raccontarlo. Perché nessuno possa dimenticare di quanto sarebbe bello se, per ogni mare che ci aspetta, ci fosse un fiume, per noi. E qualcuno – un padre, un amore, qualcuno- capace di prenderci per mano e di trovare quel fiume – immaginarlo, inventarlo – e sulla sua corrente posarci, con la leggerezza di una sola parola, addio.

Questo, davvero sarebbe meraviglioso. Sarebbe dolce, la vita, qualunque vita. E le cose non farebbero male, ma si avvicinerebbero portate dalla corrente, si potrebbe prima sfiorarle e poi toccarle e solo alla fine farsi toccare. Farsi ferire, anche. Morirne. Non importa. Ma tutto sarebbe, finalmente, umano.

Trovo che in questo punto critico, la tentazione di dire: “Questa è l’operazione che ha fatto Gesù morto in croce, irripetibile. Nessuno di noi può fare la stessa cosa. Non siamo Figli di Dio nel senso in cui lo era Gesù, lo siamo per adozione, ma non siamo il Figlio di Dio.” Quindi, da una parte Gesù come un esempio, ma sempre troppo alto, come diceva il figlio quattordicenne di amici: “Dato che non posso prendere il Nobel, tanto vale che non studio e mi diverto.”, cioè se non possiamo essere Gesù tanto vale lasciar perdere. E invece no, perché c’è un ruolo che ci compete di fronte a questa pienezza di umanità e di divinità che interrompe, e che ci mostra un paradigma rispetto alla cura di sé e alla cura dell’altro. Il ruolo è proprio quello delle donne e di Giuseppe d’Arimatea, o detto in linguaggio moderno, di sapere che sarebbe bello se per ognuno e per il mare che aspetta ognuno, ci fosse un fiume che lo può portare a quel mare. Essere gli uni per gli altri, qualcuno: un padre, un amore, una madre, qualcuno. Capaci di mettere l’altro sulla corrente di quel fiume perché possa arrivare al suo mare e dunque che sia possibile farsi toccare dalle cose, anche farsi ferire, anche morirne, cioè anche pagarne un prezzo se serve, ma tutto sarebbe un po’ più umano.

Da questo punto di vista io credo che se noi ricominciassimo a concepire, come spesso hanno fatto i Santi, la testimonianza cristiana in questo modo: come essere gente che inventa fiumi, che accompagna le persone, perché ognuno raggiunga il mare che deve raggiungere e se imparassimo ad essere grati di aver incontrato qualcuno che ci ha messo su questi fiumi, credo che saremmo più cristiani di quanto non immaginiamo. Buona Pasqua!

Fossano 19 marzo 2016

(testo non rivisto dall’autore)

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