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19 Dicembre 2015
Stella Morra

3. Invocazione, richiesta, dono, legge

Commento a: Es 20, 1-23


Introduzione

Nel preparare la lectio, mi sono accorta che questa non era la lettura giusta per il periodo di Natale. Però prendiamo quello che viene, forse poi troveremo il modo per accordarla con il periodo natalizio. Il brano di Esodo 20,1-23 è molto “conosciuto” per il suo contenuto, molto meno per il testo, che è quello del decalogo. In realtà il testo del decalogo che abbiamo nelle orecchie è quello del Deuteronomio (5,1-22), ma a parte ciò questo testo, proprio perché sta nei nostri ricordi d’infanzia, è uno di quei testi che si saltano a piè pari.

Noi lo collochiamo all’interno della riflessione che stiamo facendo sulla nostra comune umanità o, soprattutto di questi tempi, la nostra difficile comune umanità.

Il primo brano su cui abbiamo riflettuto, quello del peccato originale (Genesi 3), invitava a riflettere su ciò che ci costituisce come umani, che è il desiderio, in qualche modo impossibile, di una cura assoluta di sé; nel linguaggio comune diremmo che siamo strutturati per star bene. Il piccolo particolare è che per star bene abbiamo bisogno degli altri ma anche gli altri sono strutturati per stare bene, non sono oggetti che possiamo semplicemente usare. Il desiderio di star bene, quindi, si deve sempre misurare con il desiderio degli altri di star bene, non per motivi etici, ma perché strutturalmente abbiamo bisogno di relazione, di relazionalità. Siamo allora sempre tutti combattuti tra l’usare gli altri per il nostro benessere, venire incontro alla felicità degli altri sperando che se sono contenti faranno star bene anche me. La cura di sé e la cura dell’altro non sono una questione teorica, morale, ma il testo di Gen. 3 ci mette di fronte al fatto che siamo costituiti da un desiderio impossibile, desideriamo due cose che non possono automaticamente stare insieme pacificamente. Questi due desideri sono sempre una richiesta su cui bisogna trovare un equilibrio, un esercizio, un governo. È in questo senso ci riferivamo alle parole “la tragedia e il dramma” del libro di Ghislain Lafont (“Che cosa possiamo sperare”, EDB,2011), cioè che gli esseri umani sono costituiti come una tragedia, dove l’esperienza di dover governare, di dover assumersi una responsabilità, di gestire un equilibrio è un’esperienza originaria, perché entrambi i beni sono necessari, ma non possono crescere automaticamente entrambi e a volte questa tragedia si muta in dramma; e questo avviene quando, e lì si può parlare di male e di peccato, di fronte a questa tragedia facciamo scelte di tipo riduttivo. Cominciamo, ad esempio, a trattare gli altri come delle cose, privilegiamo in assoluto la cura di noi stessi e l’altro diventa semplicemente uno strumento e da questo punto di vista c’è una responsabilità. Questa è una distinzione originaria molto importante perché nella misura in cui noi chiamiamo quel racconto il peccato originale noi facciamo subito una lettura morale, di bene e male, di libertà mal giocata, tutte quelle cose che abbiamo imparato da piccoli, che sono vere. Di per sé però la questione fondamentale è che questa tragedia non è una tragedia morale perché essere umani è faticoso, ha un suo limite, solo Dio può tenere contemporaneamente la cura di sé e degli altri sempre perfettamente in equilibrio. Noi abbiamo questo desiderio profondo che per sua struttura, poiché noi non possiamo avere cura di noi stessi senza gli altri, ci mette già nei guai prima ancora di cominciare a fare qualsiasi cosa. Certamente poi questo diventa un appello di ordine morale: mille volte io devo scegliere che cosa privilegiare, come governare, su quali criteri tenere questo equilibrio, ma di per sé il dato è premorale, non dipende tutto dalla mia scelta, è costitutivo dell’essere umani.

Il secondo testo che abbiamo commentato, la vocazione di Geremia, esprimeva l’idea che in questo abbiamo un grande alleato che è tipicamente umano, cioè la parola. La parola che interrompe. La parola dice e dicendo apre alla possibilità che, per esempio, io possa rinunciare a qualcosa senza soffrirne troppo, perché spiego all’altro che lo faccio per lui; questa parola scambiata, rivolta, spiegata, ascoltata, diventa una parola che ci struttura come umani perché ci consente di governare questo desiderio. Geremia vive nel VI secolo prima di Cristo, ma nella seconda metà dell’Ottocento Sigmund Freud scommette sulla potenza curativa della parola e dice che molti guai dell’anima e della psiche si curano parlando, perché dare dei nomi alle cose ci aiuta a sopportare meglio. La linea di tensione è la stessa oppure in qualche modo dopo Freud noi leggiamo Geremia così.

Il testo di oggi è un approfondimento, un affondo sul tema della parola. Credo che questo tema sia decisivo. Nella storia dell’Atrio dei Gentili quando siamo partiti venti anni fa la nostra questione era avere “le parole per dirlo”, ritrovare parole per dire le nostre vite, per dire l’esperienza della fede, per dire come ci sentivamo noi dentro la nostra esperienza di Chiesa. Per dirlo in un modo che non fosse semplicemente un racconto autobiografico, di fronte al quale non si apre un dialogo, perché il racconto biografico m’impone di non emettere giudizi. Il racconto autobiografico può essere il primo passaggio, poi ci vogliono delle parole adulte su cui sia possibile scambiare un giudizio, una valutazione per costruire, per distaccarsi dalla parola biografica e poter immaginare una nuova strada, trovare un nuovo equilibrio, fare delle nuove cose.

Per chi è discepolo di Gesù il tema della parola, che è la parola del Padre, non è una questione così indifferente. Dio crea con la parola, salva con la sua parola che prende carne e continua a parlarci e così tiene in vita il mondo. La possibilità che la relazione non collassi nel continuo combattere tra la cura di me e la cura dell’altro, ma che diventi un nutrimento per entrambi, passa attraverso l’esercizio di una parola. Nel caso di Geremia avevamo visto proprio la potenza della parola che interrompe, la parola di Dio che chiama. Nella tradizione cristiana la parola di Dio che chiama è la vocazione, poi nei secoli quest’idea della vocazione (a parte essere stata applicata solo ai preti e alle suore, adesso un po’ anche a chi si sposa, ma tagliando comunque fuori chi non fa parte di questi tre gruppi) ha preso un tono che non è quello biblico, ma in qualche modo prestazionale, tipico della nostra cultura. Come se ci fosse da qualche parte un grande libro dove Dio ha scritto accanto al nome di ognuno cosa deve fare: tu ti sbatti tutta l’esistenza, poi un certo punto arrivi nell’aldilà e scopri che hai sbagliato vocazione. Come se fosse una cosa che uno deve scoprire e applicare correttamente. La vocazione in realtà è un’altra cosa (vedi Geremia): è la parola rivolta che suscita la vita, che chiama in vita, che in-vita e invitando nuove. La storia poi modifica questa parola, la raccoglie, la capisce, non la capisce per niente, le capisce un po’, questa cosa cresce, prende carne… Una parola che interrompe perché appunto chiama, crea un appello.

Su questo scenario si inserisce Esodo 20, un testo che dice che la parola che interrompe non è solo vocazione. Siamo abbastanza abituati a dire in ambito religioso che Dio chiama, ma poi tutti pensano: quando? Come? Cosa? Dio non manda e-mail, non usa WhatsApp, non telefona, è un po’ complicato… Lo dico in tono ironico perché a volte ci infiliamo in situazioni che ci mangiano un sacco di energie nel tentativo di discernere delle cose che non sappiamo bene cosa siano. È vero che Dio chiama nella sostanza, ma è altrettanto vero che il suo modo di chiamare ha una sua forma diversificata; non è che si mostra improvvisamente, si aprono i cieli e si legge cosa c’è scritto. Non funziona così! Ci sono modi molto diversi e da questo punto di vista la struttura fondamentale della parola, che va dunque ricercata nella storia, nelle cose, nelle persone, negli avvenimenti, in ciò che ci succede, nelle nostre vite… è esattamente in quelle quattro parole che ho messo a titolo di questa lectio: invocazione, richiesta, dono, legge. Non ha niente di romantico o melenso, perché ogni amore non è solo un’esperienza romantica, ma è invocazione, richiesta, dono, legge. Ogni amore si articola in una parola complessa che pone delle questioni e che proprio per questo (s)muove.

Il testo

1Dio pronunciò tutte queste parole:

2“Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dalla terra d’Egitto, dalla condizione servile:

3Non avrai altri dèi di fronte a me.

4Non ti farai idolo né immagine alcuna di quanto è lassù nel cielo, né di quanto è quaggiù sulla terra, né di quanto è nelle acque sotto la terra. 5Non ti prostrerai davanti a loro e non li servirai. Perché io, il Signore, tuo Dio, sono un Dio geloso, che punisce la colpa dei padri nei figli fino alla terza e alla quarta generazione, per coloro che mi odiano, 6ma che dimostra la sua bontà fino a mille generazioni, per quelli che mi amano e osservano i miei comandamenti.

7Non pronuncerai invano il nome del Signore, tuo Dio, perché il Signore non lascia impunito chi pronuncia il suo nome invano.

8Ricòrdati del giorno del sabato per santificarlo. 9Sei giorni lavorerai e farai ogni tuo lavoro; 10ma il settimo giorno è il sabato in onore del Signore, tuo Dio: non farai alcun lavoro, né tu né tuo figlio né tua figlia, né il tuo schiavo né la tua schiava, né il tuo bestiame, né il forestiero che dimora presso di te. 11Perché in sei giorni il Signore ha fatto il cielo e la terra e il mare e quanto è in essi, ma si è riposato il settimo giorno. Perciò il Signore ha benedetto il giorno del sabato e lo ha consacrato.

12Onora tuo padre e tua madre, perché si prolunghino i tuoi giorni nel paese che il Signore, tuo Dio, ti dà.

13Non ucciderai.

14Non commetterai adulterio.

15Non ruberai.

16Non pronuncerai falsa testimonianza contro il tuo prossimo.

17Non desidererai la casa del tuo prossimo. Non desidererai la moglie del tuo prossimo, né il suo schiavo né la sua schiava, né il suo bue né il suo asino, né alcuna cosa che appartenga al tuo prossimo”.

18Tutto il popolo percepiva i tuoni e i lampi, il suono del corno e il monte fumante. Il popolo vide, fu preso da tremore e si tenne lontano. 19Allora dissero a Mosè: “Parla tu a noi e noi ascolteremo; ma non ci parli Dio, altrimenti moriremo!”. 20Mosè disse al popolo: “Non abbiate timore: Dio è venuto per mettervi alla prova e perché il suo timore sia sempre su di voi e non pecchiate”. 21Il popolo si tenne dunque lontano, mentre Mosè avanzò verso la nube oscura dove era Dio.

22Il Signore disse a Mosè: “Così dirai agli Israeliti: «Voi stessi avete visto che vi ho parlato dal cielo! 23Non farete dèi d’argento e dèi d’oro accanto a me: non ne farete per voi!»”.

Questo è un testo molto conosciuto nel suo contenuto, molto meno come testo materiale perché il contenuto ci è tramandato nelle varie forme catechistiche del decalogo. Questo non è solo un problema esegetico o storico, è un problema perché la lettura di questo testo è totalmente schiacciata sulla sua conseguenza finale cioè sulla legge.

I quattro passaggi della parola rivolta (“Dio pronunciò tutte queste parole”) sono tutti schiacciati sulla legge; inoltre, a causa della storia soprattutto degli ultimi due secoli, questa legge è interpretata in modo ancora più riduttivo, cioè come norme che sono ancora un po’ meno della legge, sono la “traduzione” concreta, quasi manualistica della legge. La legge invece ha un senso più ampio: esiste una filosofia della legge, ma non una filosofia delle norme, esiste uno spirito della legge, la legge ha comunque una sua anima. Noi, invece, lo usiamo normalmente le prime volte che ci si confessa da bambini come un elenco su cui fare le crocette; ora, siccome sono tutte cose abbastanza poderose, le crocette mancano quasi tutte, ad esempio non uccidere. La lettura, allora, risulta riduttiva e statica. Invece se ragioniamo sul testo con gli occhiali che abbiamo oggi, cioè a partire da una questione che ci interessa e che sta fuori dal testo, vediamo che vengono fuori altre cose così in questo parlare di Dio con il popolo si vede una parola che interrompe smontata, rispetto alla vocazione di Geremia che è una parola che interrompe spostando la vita con una connotazione forte che invece di per sé non c’è nell’ordinario dell’esistenza e qui si vede bene come questa cosa si scioglie nella possibilità che è la vita di tutti giorni. Dunque dobbiamo innanzitutto di sgombrare la testa dalla sovrapposizione troppo forte tra questo testo del decalogo e la sua forma normativa.

1 Dio pronunciò tutte queste parole:

La dinamica di tutto il capitolo è Dio che parla e gli uomini che vedono; non ascoltano, ma vedono e alla fine Dio dice a Mosè (alla fine Dio si rassegna sempre alle nostre difficoltà): “Voi stessi avete visto che vi ho parlato dal cielo!”. Dio inizia parlando, vorrebbe essere ascoltato e poi si rassegna: giacché non ascoltate almeno vedete. Questa cosa è notevole ed è esattamente ciò che cercavo di dire: la parola che interrompe la vediamo, ci va molta fatica per riconoscerla come una parola, la parola che interrompe è una parola che accade, è la vita che si muove, non dei concetti, delle teorie, delle spiegazioni. Un non cristiano si differenzia da un cristiano perché di fronte una cosa che succede nell’esistenza il primo si domanda perché, mentre il secondo si dovrebbe chiedere cosa, perché è umano cercare di capire, è cristiano cercare di riconoscere. È già una bella cosa: Dio parla, il popolo vede tuoni e lampi, il monte fumante…, eventi che non sono chiarissimi e c’è bisogno di Mosè. Alla fine Dio dice: avete visto che vi ho parlato? Datevi una mossa! E che cosa dice? La prima frase in qualche modo è riassuntiva della prima lectio su Genesi.

2“Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dalla terra d’Egitto, dalla condizione servile:

Dice esattamente: Io sono io, ho avuto cura di me e ho anche avuto cura di te, prova a negare che sia vero, ti ho fatto uscire dall’Egitto. Io sono uno che gestisce la relazione avendo cura di me e anche di te, ma non lo vivo come un conflitto, non mi sento diminuito dall’aver cura di te. È interessante, anche nel testo precedente, in italiano, ci sono i due punti, cioè la prima frase è realmente il titolo, poi viene la spiegazione, ma di per sé basterebbe questa prima frase dove la parola pronunciata dice la verità di una relazione sostanziale, di un bisogno originario.

3Non avrai altri dèi di fronte a me.

È paradossale, questo dio potente, se gli togliete il tono letterario e la nostra precomprensione in termini di norme, la prima cosa che fa è rivolgere un’invocazione: ama solo me! È la grande prima parola di ogni amore, io sono qui amami, non metterci in mezzo un altro; è la struttura di un’invocazione, l’invito a un rapporto elettivo: io sono qui per te, per favore, ti prego tu sii qui per me. Il libro di Lafont che ho più volte citato ha delle pagine bellissime su cosa vuol dire l’invocazione e mi piacerebbe avere la sua capacità per dirlo. Gli israeliti avevano chiarissimo nell’Antico Testamento che il grande peccato era l’idolatria, perché avevano chiarissimo che era peccato mentire a questa invocazione originaria, potentissima. È proprio una delle cose in cui Dio ci ha fatto a sua immagine e somiglianza, è la struttura fondamentale; ogni nostra parola è per dire: stai bene, io sono felice con te, ti prego fai per me quello che io faccio per te, ti prego facciamo funzionare questo desiderio.

Questa cosa viene specificata con un lungo brano:

4Non ti farai idolo né immagine alcuna di quanto è lassù nel cielo, né di quanto è quaggiù sulla terra, né di quanto è nelle acque sotto la terra. 5Non ti prostrerai davanti a loro e non li servirai.

Il desiderio è universale, l’invocazione è per sempre, per tutto, per tutti. Un’invocazione assoluta poiché l’unico modo di aver cura di sé è che chi gli sta davanti deve essere felice. Ma sappiamo bene che questo spesso si traduce in una tragedia tra gli umani: volere troppo bene a qualcuno significa mettergli sulle spalle il dovere di essere felice che è un disastro pazzesco, distrugge qualsiasi psiche. C’è anche il tema dell’universalità assoluta, niente deve essere concorrente, ma non solo, c’è un’ulteriore spiegazione che è bellissima.

Perché io, il Signore, tuo Dio, sono un Dio geloso,

Si capisce benissimo a questo punto con questa qualificazione la potenza di un’invocazione; questo non è un ordine, è una richiesta, Dio si fa richiedente e dice perché: se no io sto male, perché io sono geloso. Non c’è niente dell’ordine normativo in cui siamo abituati a leggere questa cosa, c’è proprio una parola di invocazione

che punisce la colpa dei padri nei figli fino alla terza e alla quarta generazione, per coloro che mi odiano, 6ma che dimostra la sua bontà fino a mille generazioni, per quelli che mi amano e osservano i miei comandamenti.

Il bene il male non sono paritetici. Se mi arrabbio tengo il muso per qualche giorno, ma se ti voglio bene, ti voglio bene per mille anni. Questo sgombra un po’ la lettura troppo giuridica di questo testo.

Questo il primo lungo passaggio iniziale, che apre lo spazio della richiesta: io sono un Dio geloso, tu sii fedele a me, sii fedele a questa parola scambiata perché altrimenti io sto male. Questo è l’unico motivo serio in una relazione, non ce n’è un altro, ed è un motivo su di sé, non sull’altro.

7Non pronuncerai invano il nome del Signore, tuo Dio, perché il Signore non lascia impunito chi pronuncia il suo nome invano.

Qui c’è la seconda declinazione di una parola, dopo una parola così potente, dopo il mettersi a nudo parlando di sé di fronte all’altro, com’è normale che sia la parola diventa una richiesta sull’altro. La richiesta che Dio fa, secondo questa struttura originaria della parola creatrice è di non pronunciare il suo nome invano. In questa cornice mi sembra che si cominci a vedere qualcosa, in ogni situazione amorosa questa è una situazione molto particolare quando l’altro pronuncia il nostro nome, è qualche cosa di veramente speciale, il nome è il possesso, dare un nome è un possesso per la vita, quello che ti danno te lo tieni, è Gesù risorto che dice “Maria” (Gv 20,16) e le restituisce il suo nome. È un grande tema questo del nome. La richiesta di Dio è una sola: non pronunciare il mio nome invano; tradotto come “non bestemmiare” ha una sua logica, ma la questione è un’altra, cioè non accampare su di me un diritto se non sei compromesso con me, cioè se non te ne frega niente di me stai zitto, se pronunci il mio nome ci giochi dentro, ci stai.

E dunque la terza declinazione:

8Ricòrdati del giorno del sabato per santificarlo.

Anche qui ci ha ucciso non solo la lettura del sabato ebraico, la polemica di Gesù coi farisei, cioè il formalismo che è sempre in agguato, ma ancor di più il precetto domenicale dei cristiani, nel senso che non si capisce più il perché della lettura normativa strettissima. Cosa succede se uno va a messa di lunedì? Va all’inferno? Quando c’è stata la riforma liturgica per cui la messa vespertina funziona anche per il precetto domenicale alcune persone si chiedevano: questa messa vale o no? Questo tipo di riduzione ci uccide, ma di per sé quello che succede è che Dio dice una cosa su di sé, invoca una cosa, pone una richiesta: se dici il mio nome devi starci dentro. Insieme a ciò ci regala l’unica cosa che non possiamo darci da soli cioè il tempo: ci regala una scansione e ci dice che il nostro tempo non è tutto uguale. Questa è l’unica cosa che in una relazione è davvero importante: avere tempo. Se uno ha tempo da condividere con un altro, può anche litigare perché dopo ha il tempo per fare la pace, a volte può essere perfino gustoso stuzzicare un po’ l’altro per ritrovare un tempo nuovamente fecondo. Il problema è che può esserci una situazione in cui non ha più tempo; non avere più tempo è un disastro, perché neanche le cose belle possono avere più lo spazio possibile in una relazione se non c’è più tempo condiviso. Il grande dono che ci viene fatto è il settimo giorno per riposarci, cioè c’è tempo per fare tutto, per creare ogni cosa, per fare il bene, il male, per essere allegri, per faticare, e in più c’è un giorno in più in cui si può non fare niente, c’è una sovrabbondanza di tempo. In questa dinamica della parola c’è un tempo in più, che è un altro modo per dire che è una relazione che non finirà mai, perché ha tempo in più.

9Sei giorni lavorerai e farai ogni tuo lavoro; 10ma il settimo giorno è il sabato in onore del Signore, tuo Dio: non farai alcun lavoro, né tu né tuo figlio né tua figlia, né il tuo schiavo né la tua schiava, né il tuo bestiame, né il forestiero che dimora presso di te. 11Perché in sei giorni il Signore ha fatto il cielo e la terra e il mare e quanto è in essi, ma si è riposato il settimo giorno. Perciò il Signore ha benedetto il giorno del sabato e lo ha consacrato.

Persino Dio ha avanzato del tempo, ha fatto tutto in sei giorni e si è regalato un settimo giorno. Questa è la prima parte. Tradizionalmente si dice che i primi tre comandamenti riguardano Dio, con questa articolazione tra vocazione, richiesta e dono. L’esercizio da fare sarebbe questo: in ogni esperienza dovremmo chiederci qual è la vocazione che emerge, qual è la richiesta che viene posta, qual è il dono che viene dato. La domanda non è “perché”, ma “cosa”. Da questo nasce una legge.

Consiglio a tutti l’Introduzione all’Antico Testamento di Jean-Louis Ska, un libro geniale per chi vuole approfondire le riflessioni bibliche; nel libro Ska dice che la legge per Israele fonda una libertà. Noi invece abbiamo tutti una cultura un po’ nordamericana, per cui la legge sarebbe il limite della mia libertà, cioè io nasco libero, poi ci sono le leggi; questa cultura un po’ americana l’abbiamo articolata col barocco italiano peggiorandola ulteriormente perché l’esperienza che facciamo è che le leggi sono la moltiplicazione delle burocrazie, quindi spesso la follia pura. La legge invece nella sua logica fondamentale sarebbe il contrario: io non nasco libero, nasco vincolato dalle mie condizioni di nascita (ricco, povero, potente, impotente, nobile…) e la legge ci fa liberi, perché dice che nessuno può sottrarsi alla legge, che siamo tutti uguali di fronte alla legge. Abbiamo un po’ perso quest’idea a causa di tante esperienze deformate, ma di per sé è la legge che ci fa liberi, perché dice che c’è un’oggettività, c’è qualcosa fuori di noi che dà una misura, ci libera dalla costrizione di essere nati poveri, liberi, ricchi, colti, incolti, potenti, impotenti… La legge è fatta per salvaguardare i più deboli, perché giustizia sia fatta anche per loro. La parola d’invocazione, in questo senso, si fa legge, perché salvaguarda il più debole nella relazione.

La legge è articolata sulle tre grandi dimensioni: gli altri, le cose, noi stessi.

Gli altri:

Perciò il Signore ha benedetto il giorno del sabato e lo ha consacrato.

12Onora tuo padre e tua madre, perché si prolunghino i tuoi giorni nel paese che il Signore, tuo Dio, ti dà.

C’è una prima dimensione diacronica, che possiamo tradurre così: abbi memoria e preparati un futuro, non pensare che tutto cominci oggi e finisca oggi e che tu non debba niente a nessuno sia nel passato che nel futuro. Il comandamento prescrive di onorare, non di amare, che è diverso, ma soprattutto nella Bibbia è sempre prescritto quello che non avviene spontaneamente, non ciò che avviene spontaneamente. Questo comandamento di onorare il padre e la madre ci dice molto su cui dovremmo riflettere per uscire da certe melensaggini familiari o familistiche di pessimo livello. Onorare il padre e la madre è un’operazione di parola che richiede molta fatica, che richiede figli adulti, perché rendere onore certe è volte più difficile che amare. In qualche modo anche costruire il futuro, avere vite onorabili per i nostri figli non è facile.

13Non ucciderai.

C’è una seconda dimensione sincronica, che possiamo dire così: non avere rapporti violenti con gli altri, non basare tutto sulla violenza, abbi cura della vita dell’altro. Ci sono mete molto alte e noi ci arzigogoliamo chiedendo noi stessi cose molto complicate, ma c’è un livello minimo richiesto che se preso sul serio è già molto: non uccidere la vita degli altri, abbi rispetto degli altri, onora la loro vita.

14Non commetterai adulterio.

Nei rapporti elettivi non usare l’altro. Di questo comandamento è stata fatta una lettura esclusivamente sessuofobica, ma noi oggi possiamo cogliere fino in fondo che cosa c’è dietro a questo: si può esser adulteri in tanti modi, ma l’altro quando è letto in un rapporto speciale non è uno strumento.

Poi c’è il rapporto alle cose:

15Non ruberai.

Le cose non sono oggetto di rapina, le cose servono, ne abbiamo bisogno, le pratichiamo, le scambiamo, ma non devono essere oggetto di rapina.

Di seguito c’è il rapporto con se stessi:

16Non pronuncerai falsa testimonianza contro il tuo prossimo.

17Non desidererai la casa del tuo prossimo. Non desidererai la moglie del tuo prossimo, né il suo schiavo né la sua schiava, né il suo bue né il suo asino, né alcuna cosa che appartenga al tuo prossimo”.

Il rapporto con sé si gioca su due direttive: la verità e il desiderio. Sii sincero e desidera il tuo e non quello degli altri.

Mi sembra che adesso tutto prenda un altro tono, un’altra dinamica: Dio – che evoca per sé, pone una richiesta, fa un dono e dunque stabilisce una legge – ci dà dunque una possibilità di essere liberi.

18Tutto il popolo percepiva i tuoni e i lampi, il suono del corno e il monte fumante.

Il popolo cioè vede lo sconvolgimento, la natura che ribolle come se tutte le cose fossero interrotte da questa parola… Insomma succede qualcosa. Il problema è proprio vedere qualcosa: i tuoni, i lampi, il suono del corno e il monte fumante. Vedere le cose che succedono. La vera difficoltà e vedere che succede qualcosa nelle nostre vite.

Il popolo vide, fu preso da tremore e si tenne lontano.

Ci viene ribadito che il popolo vide ma fu preso da tremore e si tenne lontano. Reazione sana, ma che sta succedendo? Facciamo un passo indietro.

19Allora dissero a Mosè: “Parla tu a noi e noi ascolteremo; ma non ci parli Dio, altrimenti moriremo!”.

Noi saremmo sempre tentati di dire: perché Dio non parla chiaro? Se parlasse chiaro almeno capiremmo. Il problema è che se parla chiaro noi moriamo. Serve una mediazione, e lo dico in termini moderni rispetto al testo biblico: questa mediazione non è rappresentata dai preti, ma dalla cultura e qui per cultura intendo le cose che accadono nella storia, nella vita com’è. La mediazione è Mosè, che è colui che semplicemente fa, traffica, ha una cultura un po’ egiziana e un po’ ebraica; Mosè è uno che vive prendendosi delle responsabilità, esprimendo una soggettività, facendo degli errori, non è uno legato dalla legge e tanto meno da un ruolo sacramentale, religioso, sacerdotale; è uno che cerca di affrontare i problemi uno dopo l’altro e fare le cose che deve fare, che piglia in carico la sua esistenza, che non si aspetta da altri le risposte (caccia i serpenti velenosi, va da Dio a chiedere per il popolo che soffre la fame, fa sgorgare l’acqua dalla roccia, con gli egiziani fa il mago egiziano e trasforma il bastone in serpente, con il popolo fa un po’ il profeta). Mosè si assume la responsabilità di essere quello che è fin dove capisce e facendo quello che deve fare. Mosè, guida il popolo fin dove capisce, va avanti, e se sta facendo qualche stupidaggine Dio interviene e lo ferma: “Vieni sul monte che ti spiego”. Lui sale sul monte, poi scende e rimette a posto le cose.

Questa è la grande mediazione: pigliarsi la propria responsabilità e fare quello che c’è da fare. Sant’Ignazio di Loyola con un linguaggio molto più moderno e per noi molto più comprensibile nel Cinquecento dirà: nei tempi di desolazione non bisogna pigliare nessuna decisione, bisogna tenere il proprio posto, fare quello che uno ha da fare perché la vita ti mostrerà cosa devi fare. Io spesso dico scherzando che se Dio non si spiega è un problema suo dal momento che essendo Dio ha molte possibilità di spiegarsi. Intanto io faccio quello che capisco, poi se Dio non è d’accordo si esprimerà. Vi assicuro che se non è d’accordo si esprime in modi anche abbastanza potenti.

Per secoli abbiamo pensato che la grande mediazione fosse quella clericale, cioè che il parroco ci avrebbe detto che cosa fare. Oggi in qualche modo scopriamo che la grande mediazione è la vita come è, soprattutto una vita abitata con una grande soggettività, una vita di cui riconosciamo la dignità, il peso eterno, perché non ne abbiamo un’altra. La mia vita può essere pochissima cosa per il mondo, pochissima cosa davanti a Dio, ma dato che io ho solo questa per me è assolutamente il luogo più importante e dignitoso che esista al mondo ed è qui che io mi gioco quello che sono.

20Mosè disse al popolo: “Non abbiate timore: Dio è venuto per mettervi alla prova e perché il suo timore sia sempre su di voi e non pecchiate”.

Bisognerebbe rintracciare tutte le volte che nella Bibbia compare l’espressione non abbiate timore. Il nostro grande nemico è la paura che anticipando ciò che non c’è ancora ci fa perdere la mediazione. Perché se ci distraiamo della nostra vita com’è e ci concentriamo su ciò che non c’è ancora e ne abbiamo paura ci perdiamo la parola che viene detta nella vita.

21Il popolo si tenne dunque lontano, mentre Mosè avanzò verso la nube oscura dove era Dio.

La nube oscura, la nube luminosa, la notte luminosa, il suono del silenzio, la Bibbia gioca su questi ossimori. Questa nube oscura in cui Dio è, è una nube per vedere, voi stessi avete visto, è una strana nebbia. Niente di auto evidente nell’umano, niente che lo vede così, è così, funziona così. Nell’umano il potere dell’interpretazione, la necessità di essere dei soggetti è fondamentale, c’è sempre bisogno che ci sia uno che guarda e ci che in questa nube c’è questo. La vita non si fa senza di noi, senza il nostro dire “io”. Il testo si conclude come si era aperto, con l’invocazione da parte di Dio.

23Non farete dèi d’argento e dèi d’oro accanto a me: non ne farete per voi!

Dio ha parlato e conclude chiedendo per sé, ancora una volta dicendo il suo bisogno.

Mi sembrava che questo testo ci potesse aiutare un po’ a vedere come si articola, come si spezzetta la parola. In questa settimana fino a Natale avremo occasione di riflettere su questo tema della parola perché torna nei testi nelle liturgie; forse questa lettura, non adattissima al Natale, ci aiuta a rompere una logica un po’ troppo natalizia nel senso deleterio del termine. La parola che in Cristo ci viene rivolta da Dio nella nascita è una parola complessa, che fa nascere una legge, una legge di libertà, una legge cioè che richiede che noi di fronte a lui facciamo come Mosè, abitiamo la nostra vita e vediamo per poter ascoltare.

Fossano 19 dicembre 2015

(testo non rivisto dall’autore)

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