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1 Marzo 2014
Stella Morra

6. Di fronte a Dio

Commento a: Lc 18, 9-17


Premessa

I primi quattro incontri del nostro percorso “uno sguardo dalle periferie” erano più descrittivi per dire cosa si intende per un altro sguardo, e come funziona cambiare il centro, come funziona, perché non è solo un fatto mentale. Nei successivi quattro incontri, invece, analizziamo cosa succede nell’evangelo. L’ultima volta abbiamo visto il testo di Luca su la guarigione della figlia di Giairo e quello dell`emorroissa, i due episodi intrecciati con i due atteggiamenti dell’uomo potente e della donna senza parole, con il risultato che entrambi ne hanno un beneficio.

Il testo di oggi è il capitolo 18 di Luca, un testo molto conosciuto, ma probabilmente abbiamo la solita difficoltà di ripulire la testa dalle letture che ci vengono in automatico,  perché l’abbiamo sentito molte volte. La questione non è se siano letture giuste o sbagliate, ma che ci possono essere molti livelli di profondità di lettura. Alcune letture tradizionalmente avvengono a livello moralistico, sono molto superficiali, ma al tempo stesso, sono molto potenti e molto radicate, ci scattano in automatico e ci impediscono di vedere gli altri livelli di approfondimento.

Il testo, molto conosciuto, è quello del fariseo e del pubblicano. Approfondiamo la struttura del capitolo, dove la liturgia isola dei pezzetti e opera tagli a ragion veduta, ma spesso i tagli ci impediscono di vedere l’orizzonte generale. Questo testo di Luca è un capitolo composito, Luca spesso ha capitoli strutturati così, cioè mette insieme degli episodi, dei racconti, che si trovano anche negli altri sinottici, e che riguardano la vita di Gesù e che si tramandavano oralmente prima di essere scritti. L`operazione di composizione di questi episodi, cioè come mette insieme questi racconti, la successione che gli dà corrisponde alla scelta interpretativa di Luca. Gli episodi sono conosciuti e probabilmente Luca scrive dopo gli altri vangeli, quindi il modo in cui lui combina i racconti è l’interpretazione o l’uso che ritiene importante rispetto alla comunità a cui scrive. Anche le scuole nel mondo greco antico erano strane, pensate al liceo di Aristotele, camminavano, passeggiavano, è tutto un altro modo di intendere la scuola, i greci vivevano di teatro, ogni occasione era buona per rappresentare, sono gli inventori di tutti i generi letterari. Luca quindi ha più in testa il teatro che la scuola, quindi non fa distinzione tra miracoli, ovvero i gesti, e i discorsi, che ne sarebbero la spiegazione. Matteo fa delle sezioni, mentre Marco alterna un miracolo a un discorso, Luca, invece, mette insieme parabole, un episodio, una questione posta dai discepoli, un miracolo in conclusione. La struttura di Luca è una struttura teatrale. Si racconta una storia, poi si racconta un’altra storia, poi qualcuno dal pubblico fa una domanda, allora a Gesù succede qualcosa, qualcuno chiede spiegazioni, invece della spiegazione arriva un miracolo, Gesù fa qualcosa. Fare teatro non per il puro gusto estetico ma perché poi succeda qualcosa, qualcuno si faccia una domanda e nella realtà qualcosa succeda, quindi, non per capire, ma per diventare.

Quali sono le due storie di oggi? Le due storie hanno apparentemente il tema della preghiera, ma qui siamo nel primo secolo, molto prima di quello che è successo a noi, che abbiamo diviso il sacro ed il profano, ovvero le cose della vita e le cose religiose. La preghiera sarebbe una di queste. Noi al massimo abbiamo il problema di dire come possiamo santificare le cose della vita?

Diciamo che forse dovremmo pensare Dio mentre puliamo le carote oppure pulire le carote per la maggior gloria di Dio con l’ottimo risultato che uno si taglia, cioè si distrae e fa pasticci. In realtà quando uno pulisce le carote deve pensare alle carote. Il risultato è che diciamo che non abbiamo tempo per pregare. Ci sono una serie di questioni intorno alla preghiera, irrisolvibili peraltro.

Altra questione è che noi diciamo che non siamo capaci di pregare come se fosse un sapere specialistico di cui bisogna conoscere i segreti e le tecniche. Come in tutte le cose della vita ci sono delle tecniche, esistono, ma nelle cose fondamentali si impara il meccanismo è poi la si adattasse, tutti abbiamo imparato a camminare, ma ogni volta che camminiamo non pensiamo alla tecnica del camminare anzi ci pensiamo quando qualcosa non funziona, quando abbiamo un problema, infatti noi pensiamo tantissimo alla preghiera perché abbiamo un problema e non funziona.

In questo testo quando si parla della preghiera non si parla di una cosa che abita un altro ambito, non è una questione che riguarda la tecnica ma che riguarda il modo profondo in cui noi ci mettiamo dentro questa cosa. Faccio un esempio come al solito forse un po’ banale da adolescenti tutti abbiamo il problema di quali sono gli atteggiamenti e le parole giuste per corteggiare un’altra persona, in genere si chiede agli amici o ai fratelli alle sorelle maggiori come si fa? Ed è chiaro che ci sono alcune cose che sono delle costanti perché gli esseri umani funzionano tutti uguali, ma non c’è come si fa perché finché uno non riesce ad essere nella relazione con un altro un po’ se stesso, non succede nulla.

Essere dentro una storia non vuol dire che lo sai fare ed in genere si impiega un’intera vita matrimoniale per imparare a rapportarsi a quell’altro. Avere una relazione con un’altra persona è molto più difficile di quello che ci si immagina 14 anni. Inoltre è una di quelle cose che mentre l’impari già accade. Non è che prima si impara e poi si fa, ma solo nel momento in cui c’è la puoi imparare, ed hai anche un buon motivo per impararla. Ciò che è in gioco qui non è la descrizione di una preghiera in astratto, ma la questione è il rapporto con Dio e con i fratelli, dunque innanzitutto con se stessi, così come si impara mentre si fa. In una logica un po’ più prestazionale come quella odierna è il titolo o la promessa sarebbe: non mollare.

La questione dell’insistenza della preghiera non è un caso perché la questione è appunto che ci va tempo. Mettersi da un altro punto di vista vuol dire innanzitutto non mollare: provare, provare, provare, anche a fronte di scarsi risultati. Essere esauditi non per la propria giustizia, ma per la propria insistenza.

Il testo – Lc 18 9-17

9Disse ancora questa parabola per alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri:10«Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l’altro pubblicano.11Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: «O Dio, ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri, e neppure come questo pubblicano.12Digiuno due volte alla settimana e pago le decime di tutto quello che possiedo». 13Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: «O Dio, abbi pietà di me peccatore». 14Io vi dico: questi, a differenza dell’altro, tornò a casa sua giustificato, perché chiunque si esalta sarà umiliato, chi invece si umilia sarà esaltato».

15Gli presentavano anche i bambini piccoli perché li toccasse, ma i discepoli, vedendo ciò, li rimproveravano. 16Allora Gesù li chiamò a sé e disse: «Lasciate che i bambini vengano a me e non glielo impedite; a chi è come loro, infatti, appartiene il regno di Dio. 17In verità io vi dico: chi non accoglie il regno di Dio come l’accoglie un bambino, non entrerà in esso».

Proviamo subito a fare piazza pulita da una lettura immediatamente moralistica che ci fa dire che chi si vanta è fuori, il fariseo che si ritiene giusto e per questo due volte sbagliato, ma noi non siamo mica farisei! In fondo nessuno di noi ha una così alta e marmorea opinione di se stesso, tutti abbiamo almeno una sera ogni tanto momento in cui siamo consapevoli delle nostre fratture. Invece qui problema è:

9Disse ancora questa parabola per alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti

ovvero questi sono gli interlocutori e quindi bisogna chiedersi qual è l’esperienza umana dell’intima presunzione di essere giusti. Tolti i casi di pazzia nessun essere umano pensa in assoluto di essere sempre giusto. Tutti abbiamo l’intima convinzione più o meno di non essere cattive persone, non certo perfette, ma che cercano di fare del proprio meglio.

La vera questione messa in gioco da questa parabola è innanzitutto la competenza di sé: come facciamo a vedere, sperimentare, a capire con una certa lucidità e distacco quale la nostra intima presunzione verso noi stessi? E come facciamo ad avere una corretta e realista presunzione su noi stessi di non essere giusti e neanche di deprimerci nel pensare di essere totalmente sbagliati? Dove si misura la realtà? E dove posso misurare quando sto esagerando? Quando sto presumendo troppo di me? Qual è il criterio che mi consente di avere una misura di me? Questa è la questione. Ciò che succede dopo è che il cosiddetto giovane ricco dice: cosa devo fare? Cioè fa una valutazione su di sé e mette in gioco e mette in gioco se. I discepoli dicono: noi abbiamo messo in gioco noi stessi e cosa ce ne viene? Ciò che succede non è una valutazione, non si discute chi è buono o chi è cattivo, ma cosa dobbiamo fare? Cosa ce ne viene? Solo a partire da una misura di sé si può decidere cosa fare e cosa mi aspetto di ottenere dal fatto che faccio qualcosa. Questo è il primo grande altro sguardo. È lo sguardo che nasce dalla misura di sé.

E disprezzavano gli altri:10«Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l’altro pubblicano.

Questi due uomini mostrano due diverse misure di sé, non sappiamo magari il fariseo c’aveva ragione, non mentiva ma la questione è qual è il criterio della misura di sé. È interessante che questo criterio ci viene dato dalla parabola innanzitutto da una misura corporea non dalle parole.

11Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: «O Dio, ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri, e neppure come questo pubblicano.12Digiuno due volte alla settimana e pago le decime di tutto quello che possiedo». 13Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: «O Dio, abbi pietà di me peccatore».

Il primo criterio che ci viene dato è un criterio corporeo cioè non idee od opinioni e nemmeno fatti esterni ma come io mi metto al mondo ovvero il corpo il modo in cui io mi metto al mondo. Il modo in cui io mi metto al mondo attraverso il corpo è il riflesso, è automatico, io posso a parole dire la verità o la menzogna, ma il mio corpo dice delle cose che nel 90% dei casi sono l’assoluta verità. Questo è uno dei motivi per cui nella nostra società si ragiona molto con i consulenti di immagine e di comunicazione perché inconsciamente noi percepiamo a livello di corpo d’immagine una serie di cose che ci condizionano tantissimo.

Qui ci viene detto che uno sta in piedi e l’altro sta a distanza, non osa nemmeno alzare gli occhi al cielo e si batte il petto. Sono due posture completamente diverse. Quella del fariseo e la posizione di chi si ritiene per diritto figlio. Attualmente è molto di moda nella liturgia fare queste scene molto devote di buttarsi in ginocchio, ma Vaticano secondo raccomandava di riprendere con forza la postura in piedi nella liturgia e molte chiese costruite dopo Vaticano secondo non hanno gli inginocchiatoi, hanno solo sedie , il che peggiora perché il super devoti si buttano in ginocchio per terra. Vaticano secondo intuisce una questione molto grande cioè che noi nell’eucarestia siamo figli non per la nostra giustizia ma per il dono dell’eucaristia. Quindi siamo in piedi non per mancanza di rispetto ma per dire che non siamo schiavi di fronte al Signore, ci ha costituiti figli, ci ha presi per le spalle come il figliol prodigo e ci ha rimesso in piedi e questa è la postura che noi siamo chiamati ad avere durante l’eucarestia. Questo testo è invece stato spesso usato per dire che nella liturgia dobbiamo metterci negli ultimi banchi, in ginocchio, nemmeno alzare gli occhi. Cosa vuol dire stare in piedi?-In questo testo sembra la postura sbagliata, e cosa vuol dire stare in ginocchio? In questo testo sembra la postura giusta, ma Vaticano secondo ci dice contrario come facciamo?

Bisogna mettere insieme il non verbale con il verbale cioè la postura con quello che i due dicono. Il fariseo che sta in piedi dice o Dio ti ringrazio perché io… e il pubblicano dice o Dio abbi pietà di me. Uno usa il caso nominativo, il soggetto, e l’altro il complemento oggetto, cioè se stare in piedi è mio diritto non va bene, perché stare in piedi può essere come nell’eucarestia solo il dono ricevuto è questo lo vediamo subito dopo nell’episodio dei bambini. Il primo criterio è io sono dono a me stesso. L’esatto contrario del self man made che è l’idea che a noi ci pervade del farsi da solo, del non dire grazie a nessuno. Nel cristianesimo questo è stato tradotto come le scelte: mi impegno, faccio le scelte giuste. Questa è la logica del fariseo. Chi è che presume troppo di sé? Chi pensa di essere un soggetto in un un complemento oggetto.

Faccio un esempio. Quando diciamo che un rapporto complementare io-tu che un piccolo difetto in questa logica perché presuppone che io sono io e che l’altro è un tu, solo che l’altro dal suo punto di vista è un io, e rapporti sono problematici perché sono tutti io-io, nel senso che ognuno si pensa al centro del mondo e che l’altro un tu. Il problema è che di fronte a Dio rapporto è tra me che sono un complemento oggetto e un io che è Dio. Il soggetto vero l’unico reale è Dio, come diceva San Tommaso, noi siamo sempre un complemento oggetto. Questa è la misura di noi. Che è la misura felice dei bambini, i bambini non hanno nome assoluto, gli adulti devono sempre essere mamma o zia o nonna, cioè sono qualcuno è in relazione a me, perché i bambini esistono in relazione agli adulti, dipendono felicemente dagli adulti, si girano urlando “voglio merenda!” nella certezza che qualcuno merenda gliela darà, in genere funziona perché c’è una mamma in circolazione, una nonna, una zia, che da merenda. I bambini non si pensano mai come degli assoluti in senso filosofico, anzi addirittura in eccesso tutto il mondo esiste solo in  relazione a loro.

L’altra caratteristica è che c’è un ti ringrazio io perché non sono come gli altri  è la rottura con la solidarietà con tutti, dall’altra parte il pubblicano dice o Dio abbi pietà di me peccatore, che nel linguaggio di Luca è molto chiaro che la parola peccatore è il nome comune degli umani, e ciò che lo fa uno dei molti.

Le questioni sono due: non siamo soggetti ma complementi oggetti e non siamo speciali, siamo uno dei molti. Il problema non è se siamo ingiusti, adulteri, ladri, se rubiamo, se paghiamo le decime, ma la questione è se io mi pongo come un soggetto o come oggetto, come uno tra i molti o come uno speciale. Questa è la questione.

La conclusione è semplice, inequivocabile, di una riga, alla Papa Francesco:” chiunque si esalta sarà umiliato, chi invece si umilia sarà esaltato”.

La risonanza è chiara, Luca è lo stesso autore del Magnificat , Luca non a caso e l’Evangelista detto dei poveri, perché ha molto chiaro questo tema cioè dal punto di vista di Dio le cose vanno al contrario, è un altro sguardo. La presunzione di sé è imparare a vivere come un oggetto, come un non padrone della relazione, come uno che riceve in dono la propria vita e se stesso, e come uno che per questo è fratello e sorella di molti.

L’altro giorno ho sentito un’omelia e il prete ha detto una frase che mi ha molto colpito diceva” vi faccio un esempio è un momento di crisi per tanti di noi la vita è difficile o perlomeno più difficile di alcuni anni fa, ma se i cristiani di fronte a questa difficoltà l’unica cosa che sanno fare è lamentarsi come tutti gli altri e pigliarsela con i politici come tutti gli altri e dire che niente funziona come tutti gli altri cosa sono cristiani a fare?” Se tutti i cristiani cominciassero a pensare che la maggiore difficoltà che vivono, grande o piccola che sia, li rende più semplicemente fratelli e sorelle di tutti poveri della terra, forse avrebbero un modo diverso di parlare di queste cose.”

È un’osservazione piccolina, un altro sguardo.

La conclusione di questo testo è l’episodio dei bambini piccoli

15Gli presentavano anche i bambini piccoli perché li toccasse, ma i discepoli, vedendo ciò, li rimproveravano. 16Allora Gesù li chiamò a sé e disse: «Lasciate che i bambini vengano a me e non glielo impedite;

Questo pezzo non parla dei bambini, benché venga sempre usato a sproposito, ma parla dei discepoli, non dice niente sui bambini, è Gesù che dice ai discepoli che scacciano i bambini:

Lasciate che i bambini vengano a me a chi è come loro infatti appartiene al regno di Dio. In verità vi dico che non accoglie il regno con un bambino non entrerà.

E ancora questo tema del dono: bisogna accogliere il regno, la questione non è quanti digiuni, quante decime, se si è ladri, se non si è ladri, siamo tutti peccatori, questa è una delle poche cose certe, nessuno di noi può garantire sempre della propria giustizia in ogni giorno della sua vita, ma la questione è il regno che vi riceviamo accogliendolo come dei bambini.

Vorrei chiudere leggendo alcune righe dall’Evangelii Gaudium nn. 198-199

Per questo desidero una Chiesa povera per i poveri, essi hanno molto da insegnarci, oltre a partecipare del senso della fede con le proprie sofferenze conoscono il Cristo sofferente. È necessario che tutti ci lasciamo evangelizzare da loro. La nuova evangelizzazione è un invito a riconoscere la forza salvifica delle loro esistenze e a porli, al centro del cammino della Chiesa. Siamo chiamati a scoprire Cristo in loro, a prestare ad essi la nostra voce nelle loro cause, ma anche ad essere loro amici, ad ascoltarli, a comprenderli e ad accogliere la misteriosa sapienza che Dio vuole comunicarci attraverso di loro…. Questo implica apprezzare il povero nella sua bontà propria, con il suo modo di essere, con la sua cultura, con il suo modo di vivere la fede. L’amore autentico infatti è sempre contemplativo cioè ci permette di servire l’altro non per necessità né per vanità ma perché è bello al di là delle apparenze”.

Una chiesa per i poveri l’hanno detto tutti, dire una chiesa povera è una cosa diversa. In questo testo non c’è per niente nessuna parentela con bisogna avere misericordia per i poveri, fare la carità, aiutarli. Non c’entra niente, è tutta un’altra cosa, un altro sguardo

Fossano, 01 Marzo 2014

(testo non rivisto dal relatore)

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