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12 Ottobre 2013
Stella Morra

1. Un altro sguardo

Commento a: 2 Sam 12, 1-25


Premessa

Come ogni volta che iniziamo un ciclo di lectio, rubo un po’ di tempo al testo per introdurre il tema, spiegarne la scelta. Il titolo è “Dalle periferie, un altro sguardo” l’idea che ci sta sotto viene dalle plurime provocazioni di papa Francesco sull’andare alle periferie, che non sono solo un luogo fisico, ma un luogo dell’anima, un modo di guardare il mondo, il rispetto innanzitutto di se stessi. Questo invito del papa ci ha fatto un gran piacere perché è una delle questioni fondamentali dell’Atrio: abitare l’esperienza credente senza pretendere di occupare il centro, di essere il metro e la misura; mettersi in un luogo con la propria sensibilità ed il proprio modo di guardare ai problemi cogliendone la parzialità, senza la pretesa di esaurire la totalità della questione; mettersi da una parte e, guardando da quella prospettiva, riconoscere la possibilità di altri sguardi che si incrociano. Come quando si mettono le lenti multifocali e si fa l’esperienza di faticare per un po’ a mettere a fuoco; i nostri occhi sono indipendenti ed è la loro coordinazione che ci permette di percepire la profondità del campo visivo. Ce ne accorgiamo quando siamo costretti a guardare con un occhio solo, le cose si appiattiscono. Da questo punto di vista l’idea di essere un occhio possibile sull’esperienza credente, di vivere l’appartenenza alla Chiesa e di cercare l’aggiustamento progressivo con altri sguardi possibili nella convinzione che solo questo ci dà la profondità, è una convinzione antica della nostra associazione.

Sentire un papa affermare – lui che è al centro – che bisogna guardare dalle periferie, induce a chiedersi se  il mondo si sia rovesciato. Abbiamo vissuto un’epoca in cui i giovani, le donne – la periferia – facevano le rivoluzioni contro il “centro”: adesso è il centro dell’esperienza credente che ci dice di guardare dalle periferie. C’è dietro qualcosa di grande, qualcosa che sta provocando molta inquietudine, perplessità nei funzionari del “centro”, che sentono di aver perso la certezza di essere l’unico sguardo legittimo. Non si può semplificare tutto in termini di “buoni” e “cattivi” – che sarebbero poi i funzionari della Chiesa che vogliono difendere i loro privilegi e quindi non vogliono guardare dalle periferie. Certo ci sono cattivi funzionari, come ci sono cattive persone dappertutto, ma sta avvenendo un cambiamento epocale e più profondo di quanto noi siamo consapevoli, e al di là della contentezza di vedere riconosciute alcune istanze, vale la pena di provare a pensare che cosa vuol dire “un altro sguardo” e di capire la fatica che non solo i funzionari ma anche noi facciamo ogni volta che ci viene richiesto un altro sguardo e di come questa questione – percepire la propria parzialità ed agire e vivere di conseguenza – sia una questione molto radicale, perché siamo tutti fatti ad immagine di Dio… e ci viene molto facile sentirci onnipotenti! Fare l’esercizio della nostra parzialità, del metterci insieme ad altre parzialità, di sovrapporre gli sguardi, di accettare che quello che comprendiamo è solo una parte della questione ed agire di conseguenza, per noi è un problema.

Questo è il nucleo di questioni su cui vorrei riflettere, provocata dal tempo storico, dal cambiamento, ma anche dall’esperienza che tutti viviamo. Per questo motivo nella presentazione del percorso trovate due testi apparentemente diversi, il primo riflette ciò che ho detto finora, il secondo è tratto dall’Etica di Bonhoeffer, che sembra non c’entrare con il primo perché spiega come funziona l’etica cristiana, quali sono i criteri che bisogna usare per agire “bene”. Bonhoeffer si pone queste domande in un tempo di cambiamenti violenti (è stato giustiziato nell’aprile del 1945 per essersi opposto al nazismo), all’inizio del tempo di transizione di cui noi stiamo vivendo gli sviluppi successivi. Sono quadri mentali, grandi comprensioni del mondo che stanno cambiando, per noi in maniera fortunatamente meno violenta, ma la questione rimane la stessa. Possiamo guardare le periferie con un altro sguardo e insieme raccogliere la domanda di Bonhoeffer – che cosa dobbiamo fare? Cosa vuol dire vivere consapevoli della parzialità del proprio sguardo? Questo è il tema generale.

Le periferie sono tradizionalmente nelle città luogo di povertà: non si chiamano periferia i quartieri residenziali ricchi. Periferia, anche in senso simbolico, è abitare ai confini, essere marginali nei meccanismi che contano, ed è il grande tema, appunto, della povertà. Che è esperienza di parzialità, sapere che non posso tutto, spesso nemmeno aver cura di me stesso fino in fondo, sapere che devo dipendere da altri per molte cose. Questo è il quadro generale, che si arricchirà man mano che procederemo tra i brani. Vedete che l’ultimo brano su cui rifletteremo, quello di maggio, ha lo stesso titolo di quello odierno, “un altro sguardo”, anche se ovviamente i testi non sono gli stessi. Sono profondamente convinta che la questione delle periferie sia una questione di sguardo, il punto di partenza è quello che la scrittura chiama conversione del cuore, che non è un fatto sentimentale e poetico, ma un habitus, la capacità di vedere altre cose intorno a noi e in noi stessi e dunque non poter fare a meno di fare altre cose.

Stasera partiamo da un nucleo fondamentale, che ci aiuterà ad entrare nella questione: perché ci costa fatica cercare un altro sguardo? Il testo è abbastanza conosciuto, ma raramente letto nella sua integralità. E’ abbastanza conosciuta la prima parte, l’episodio del profeta Natan di fronte a Davide, perché molto citata, ma la seconda parte del brano è spesso sconosciuta, forse perché inquietante, pur essendo in realtà la chiave di lettura di tutto il brano.

Il testo

1Il Signore mandò il profeta Natan a Davide, e Natan andò da lui e gli disse: «Due uomini erano nella stessa città, uno ricco e l’altro povero. 2Il ricco aveva bestiame minuto e grosso in gran numero, 3mentre il povero non aveva nulla, se non una sola pecorella piccina, che egli aveva comprato. Essa era vissuta e cresciuta insieme con lui e con i figli, mangiando del suo pane, bevendo alla sua coppa e dormendo sul suo seno. Era per lui come una figlia. 4Un viandante arrivò dall’uomo ricco e questi, evitando di prendere dal suo bestiame minuto e grosso quanto era da servire al viaggiatore che era venuto da lui, prese la pecorella di quell’uomo povero e la servì all’uomo che era venuto da lui».

5Davide si adirò contro quell’uomo e disse a Natan: «Per la vita del Signore, chi ha fatto questo è degno di morte. 6Pagherà quattro volte il valore della pecora, per aver fatto una tal cosa e non averla evitata».

7Allora Natan disse a Davide: «Tu sei quell’uomo! Così dice il Signore, Dio d’Israele: “Io ti ho unto re d’Israele e ti ho liberato dalle mani di Saul, 8ti ho dato la casa del tuo padrone e ho messo nelle tue braccia le donne del tuo padrone, ti ho dato la casa d’Israele e di Giuda e, se questo fosse troppo poco, io vi aggiungerei anche altro. 9Perché dunque hai disprezzato la parola del Signore, facendo ciò che è male ai suoi occhi? Tu hai colpito di spada Uria l’Ittita, hai preso in moglie la moglie sua e lo hai ucciso con la spada degli Ammoniti. 10Ebbene, la spada non si allontanerà mai dalla tua casa, poiché tu mi hai disprezzato e hai preso in moglie la moglie di Uria l’Ittita”. 11Così dice il Signore: “Ecco, io sto per suscitare contro di te il male dalla tua stessa casa; prenderò le tue mogli sotto i tuoi occhi per darle a un altro, che giacerà con loro alla luce di questo sole. 12Poiché tu l’hai fatto in segreto, ma io farò questo davanti a tutto Israele e alla luce del sole”».
13Allora Davide disse a Natan: «Ho peccato contro il Signore!». Natan rispose a Davide: «Il Signore ha rimosso il tuo peccato: tu non morirai. 14Tuttavia, poiché con quest’azione tu hai insultato il Signore, il figlio che ti è nato dovrà morire». 15Natan tornò a casa.

Il Signore dunque colpì il bambino che la moglie di Uria aveva partorito a Davide e il bambino si ammalò gravemente. 16Davide allora fece suppliche a Dio per il bambino, si mise a digiunare e, quando rientrava per passare la notte, dormiva per terra. 17Gli anziani della sua casa insistevano presso di lui perché si alzasse da terra, ma egli non volle e non prese cibo con loro. 18Ora, il settimo giorno il bambino morì e i servi di Davide temevano di annunciargli che il bambino era morto, perché dicevano: «Ecco, quando il bambino era ancora vivo, noi gli abbiamo parlato e non ha ascoltato le nostre parole; come faremo ora a dirgli che il bambino è morto? Farà di peggio!». 19Ma Davide si accorse che i suoi servi bisbigliavano fra loro, comprese che il bambino era morto e disse ai suoi servi: «È morto il bambino?». Quelli risposero: «È morto». 20Allora Davide si alzò da terra, si lavò, si unse e cambiò le vesti; poi andò nella casa del Signore e si prostrò. Rientrato in casa, chiese che gli portassero del cibo e mangiò. 21I suoi servi gli dissero: «Che cosa fai? Per il bambino ancora vivo hai digiunato e pianto e, ora che è morto, ti alzi e mangi!». 22Egli rispose: «Quando il bambino era ancora vivo, digiunavo e piangevo, perché dicevo: “Chissà? Il Signore avrà forse pietà di me e il bambino resterà vivo”. 23Ma ora egli è morto: perché digiunare? Potrei forse farlo ritornare? Andrò io da lui, ma lui non tornerà da me!».

24Poi Davide consolò Betsabea sua moglie, andando da lei e giacendo con lei: così partorì un figlio, che egli chiamò Salomone. Il Signore lo amò 25e mandò il profeta Natan perché lo chiamasse Iedidià per ordine del Signore.

Questa è una storia tipica dell’Antico Testamento, con elementi che a noi fanno un po’ impressione: una corrispondenza tra azioni e risultati troppo immediata, una apparente violenza da parte di Dio, gli innocenti che pagano prezzi che non li riguardano… Un linguaggio primario, che individua alcuni meccanismi di fondo dell’esperienza umana senza troppe elaborazioni culturali tipiche del nostro tempo: l’Antico Testamento non è “politically correct”!

Conoscete la storia di Davide: la sua ‘elezione’ senza particolari meriti, la vicenda con Golia, la sua lotta con Saul, re profondamente ingiusto, Dio che fa di lui il capostipite di una regalità buona e benedicente, una stirpe da cui nascerà Gesù.

Ma ad un certo punto Davide compie uno scivolone: si innamora di Betsabea, moglie di Uria l’ittita, fa sì che questi sia mandato in prima linea, cosicché siano gli Ammoniti ad ucciderlo; così può sposare Betsabea ed avere da lei un figlio. Natan racconta la parabola del ricco che si appropria della pecorella del povero per dare da mangiare ad un viandante suo ospite. Quando Davide si scandalizza di fronte alla storia il “tu sei quell’uomo!” di Natan lo mette difronte alle sue responsabilità.

La seconda parte del brano ci racconta il castigo divino, la reazione di Davide – che ai servi ed anche a noi, appare sconclusionata, perché prima si rattrista e poi, alla morte del figlio, si calma. E’ evidente che qui Davide ha cambiato sguardo, vede delle altre cose e fa un’altra cosa, incomprensibile ai servi, ma ha imparato la lezione di Natan.

Tutto ha origine da una breve frase: Il Signore mandò il profeta Natan a Davide”: un altro punto di vista viene da fuori, nessuno se lo può dare da solo. Questa è una delle verità più dure dell’esistenza, una delle poche cose che possono davvero fare la differenza tra l’essere/non essere credente. Non si è credenti perché si dice di credere in Dio e non credenti perché si afferma il contrario: ci sono alcuni – pochi – atteggiamenti che dicono se una persona è aperta all’irruzione di altro oppure no. Se una persona lo è, è strutturalmente credente e viceversa. Perché credente è participio presente, è l’azione del credere in atto. Ciò che fa la differenza sono due o tre aperture fondamentali, e la prima è questa, una specie di bivio iniziale: se arriva da me un profeta Natan, sto a sentirlo oppure no? Perché un altro sguardo non me lo posso dare da solo, solo Dio è uno e trino, cioè  ha in sé anche altri sguardi. Crediamo in un solo Dio, ma contemporaneamente al fatto che ha dentro di sé la possibilità, per esempio di vedere dal nostro punto di vista attraverso il volto del Figlio e non solo per modo di dire, ma nella realtà, nell’esperienza della sua morte.

Dato che noi non siamo Dio, un altro sguardo ci deve arrivare da fuori, ed essere credenti nel Dio della Bibbia significa supporre che l’altro sguardo che ci raggiunge è sempre un profeta Natan mandato dal Signore. Una persona che mi sta mettendo in discussione può essere un’esperienza concreta inquietante e magari disturbante, ma avere fiducia che quella persona è un profeta Natan mandato dal Signore è una delle precondizioni per essere credente. L’altro che irrompe nella mia esistenza, che mi offre un altro sguardo è un profeta che viene da parte di Dio.

Poi viene raccontata la storia del ricco e del povero, uno dei binomi classici della Scrittura, che funziona sempre come le favole, dal punto di vista della struttura letteraria: il buono e il cattivo sono descritti in maniera molto schematica. E come succede sempre in questi casi, tra il ricco e il povero… noi ci sentiamo nella parte del povero, quello che aveva solo una pecorella. Anche Davide si sente dalla parte del povero, il problema è che Natan gli dice “Tu sei quell’uomo!”. Natan guarda la storia di Davide da un altro punto di vista. Tutti noi ci sentiamo, come Davide, quello buono: il fratello maggiore che è rimasto a bottega e privato anche del capretto per far festa con gli amici, l’Esaù derubato della primogenitura… Guardare le cose mettendo al centro il proprio punto di vista significa sempre sentirsi dalla parte del buono, non perché siamo stupidi, ma perché in fondo capita una o due volte nella vita di fare una cosa malvagia convinti che sia malvagia, in tutti gli altri casi, se agiamo in un determinato modo è perché ci pare di avere dei motivi ragionevoli per farlo, perciò ci sentiamo il poverello della situazione, quello che non voleva mica fare niente di male. La grande questione è proprio questo meccanismo, il motivo per cui non riusciamo ad avere un altro sguardo è che in fondo ci sembra logico il nostro, non siamo abbastanza cattivi per riuscire ad avere un altro sguardo, siamo più tonti che cattivi! Se fossimo più cattivi sceglieremmo di avere uno sguardo piuttosto che un altro, invece il nostro problema è che se non arriva un profeta a dirci “Tu sei quell’uomo!”, nella maggior parte dei casi non ci sembra proprio che ci sia un’altra soluzione logica, ed è in questa buona fede che si fanno danni peggiori. Questo è il motivo per cui ci viene detto che un cristiano non vive se non in dialogo con la Parola di Dio, perché la Parola è sempre l’altro che viene a dirci “Tu sei quell’uomo!”, che giudica la nostra esistenza, che la guarda da altrove.

Non penso che Davide, quando ha fatto la sua scelta rispetto ad Uria, fosse convinto di fare una cosa buona, ma si sarà sicuramente dato dei buoni motivi, se no non l’avrebbe fatto, e solo quando Natan gli fa vedere l’enormità della situazione raccontandogli un’altra storia, lui può vedere veramente che cosa ha fatto. Il nostro problema è questo: vedere veramente chi siamo e cosa facciamo. E questo è l’unico serio motivo per cui non si può essere cristiani da soli, perché ci è necessario il gioco di specchi che sono gli altri – che sono fuori di noi e non totalmente coincidenti con le nostre ragioni. Per questo motivo è assurdo immaginare una comunità credente completamente omogenea, perché un modello di chiesa che punti più all’uniformità che all’unità tradisce l’Evangelo. E questo è il motivo per cui papa Francesco dice “chi sono io per giudicare?”. Anche lui ha uno sguardo solo… Per questo i cristiani dicono che il giudizio appartiene a Dio, l’unico che ha in sé uno sguardo plurale.

La frase di Natan è la svolta del racconto, ma è anche la frase che ci dovrebbe mettere sul chi va là: a chi concediamo il diritto di dirci “Tu sei quell’uomo!”? Solo a 14 anni si parla, si racconta di sé, poi man mano che cresciamo ci affidiamo sempre meno, ci difendiamo un po’ di più, quindi sempre meno gente ha la possibilità di dirci “Tu sei quell’uomo!”. Magari ci vogliono abbastanza bene da pensarlo, ma non è mai il momento giusto per dircelo – chissà come la prenderebbe… Questa è la dinamica attraverso cui noi espropriamo gli altri della possibilità di dirci “Tu sei quell’uomo!”, dunque la nostra storia non ha mai una svolta.

Lì comincia la seconda parte del racconto; se riusciamo a superare il senso di fatica che ci dà il linguaggio veterotestamentario, fatto di violenza, di punizioni, morte… ci rendiamo conto che qui sta la chiave del racconto biblico e che dice qualcosa di molto profondo su di noi e sulla nostra esperienza.

La prima questione: Dio si arrabbia con Davide: “…ti ho unto re d’Israele e ti ho liberato dalle mani di Saul, ti ho dato la casa del tuo padrone e ho messo nelle tue braccia le donne del tuo padrone, ti ho dato la casa d’Israele e di Giuda e, se questo fosse troppo poco, io vi aggiungerei anche altro…” E tu sei andato a prendere a chi non aveva! Il primo punto per noi è questo: dobbiamo essere consapevoli di quanto abbiamo, di quanto siamo, riconoscere la ricchezza della nostra esistenza. Da questo punto di vista due secoli di falsa umiltà hanno fatto un gran danno nel mondo cattolico, e questo è un modo per difendersi, per non uscire mai dal proprio sguardo. Ci viene chiesto di riconoscere quanto la nostra vita è ed ha, e questo è il punto di partenza e l’atto di fede è credere che, se serve altro, ci sarà!

La seconda questione è lo strano meccanismo: Dio dice “sto per suscitare contro di te il male … tu l’hai fatto in segreto, ma io farò questo davanti a tutto Israele e alla luce del sole”».
Allora Davide disse a Natan: «Ho peccato contro il Signore!». Natan rispose a Davide: «Il Signore ha rimosso il tuo peccato: tu non morirai.
Dio, dunque, perdona Davide. Qui non bisogna fermarsi alla lettera, la questione non è che Dio fa morire un bambino innocente per punire un colpevole: bisogna leggere il testo secondo la simbolica che i figli portano con sé: sono il futuro, la garanzia per la vecchiaia, la continuazione del nome, della casata, il progetto, la speranza… La prima punizione che Dio immagina è “Hai fatto il furbo in segreto ed io ti faccio perdere la faccia in pubblico. Hai tramato in segreto perché la tua azione non finisse sotto lo sguardo degli altri, io palesemente darò ad altri le tue donne”. Davide dice «Ho peccato contro il Signore!». Questo è il secondo punto, la presa d’atto della limitatezza del suo sguardo. Qui il punto principale non è il problema etico, ma il fatto che Davide capisce, raccoglie, riceve ciò che Natan gli ha detto. Su questo atteggiamento di Davide la punizione cambia: non c’è più la consegna allo sguardo degli altri, ma c’è la sottrazione del futuro che Davide aveva costruito con le sue mani, col suo sguardo. Quella storia non andrà avanti, e questo è paradossale, perché non è una punizione, è un premio: Dio cancella le conseguenze, il futuro creato dal fatto di essere sta to “quell’uomo lì”. Questo è il secondo passo: se non dico “ho peccato”, se non prendo coscienza della parzialità del mio sguardo, l’unica cosa che succede è che continuo a ripetere sempre la stessa storia: lo sguardo altrui, a cui non ho voluto consegnarmi, mi viene imposto dalla vita. In altre parole possiamo dire che se non riceviamo come una parola profetica da parte di Dio ciò che gli altri ci dicono siamo costretti per tutto il tempo della nostra vita ad occuparci di ciò che pensano gli altri. Ricevere la voce dell’altro come un altro sguardo possibile ci rende liberi. L’unico modo per essere liberi dal giudizio della gente ed è accogliere l’altro come un regalo: se l’altro è un regalo l’occupazione fondamentale della mia esistenza è diventare me stesso; se l’altro è un nemico, ogni sua frase, ogni suo battito di ciglia, ogni suo sguardo diventa questo essere consegnati al pubblico sguardo. Se, come Davide, si prende sul serio la propria parzialità e si ammette il proprio peccato, cambia la prospettiva, Dio azzera la storia che da quel gesto è nata.

Allora c’è la stranissima reazione di Davide, che si dispera finché il bambino è ammalato e poi, quando i servi hanno paura a dirgli che è morto, prende atto della fine di quella storia e si rimette a vivere, al punto che il racconto si conclude con il fatto che Davide consola Betsabea e da questa consolazione nasce un altro futuro, un altro figlio, che è Salomone, che passerà alla storia come il re sapiente, totalmente dedito a Dio. Fino al punto che “il Signore lo amò 25e mandò il profeta Natan perché lo chiamasse Iedidià per ordine del Signore”. Vuol dire “regalo di Dio”: un altro sguardo, un altro futuro, un altro nome.

Il comportamento di Davide spiazza i servi perché ha assunto un altro sguardo, non è più il centro del mondo. Il problema non è il suo dolore per un figlio malato – che sarebbe un suo possesso, e dunque la sua morte sarebbe un dolore insanabile – ma è il suo dolore per aver creato questa situazione e la speranza di commuovere Dio perché cambi questa storia, ma nel momento in cui questa storia è conclusa, riprendere dalle mani di Dio la propria vita. Qui non si sta descrivendo la storia esistenziale di Davide e di suo figlio, non si dice niente sul rapporto tra padri e figli o della reale morte di un figlio – ricordiamoci che il racconto, dal punto di vista letterario, funziona come una favola. Qui si descrive una dinamica fondamentale, si sta dicendo che Davide ha cambiato sguardo e che dunque sa bene che vale la pena di faticare per ciò che è nel nostro reale potere, cioè chiedere intercessione presso Dio. E non vale la pena di faticare per ciò che non è in nostro potere. Il problema non è farsi i sensi di colpa, ma costruire un’altra storia, una storia che tenga conto di altri sguardi. Questo è il passaggio decisivo, il testo ce lo racconta attraverso un’immagine per quel tempo molto comprensibile e chiara, mentre per noi, oggi rimane misteriosa e inquietante. La storia che Davide aveva costruito aveva delle conseguenze, anche se Dio lo aveva perdonato: il bambino esisteva, era la conseguenza reale di ciò che lui aveva fatto; Dio chiude quella storia e comincia un altro futuro, ma perché questo possa accadere è necessario che Davide, per primo, cambi sguardo e pensi che non tutto dipende da lui, che deve fare ciò che gli compete – digiunare, pentirsi finché il bambino è malato – e immaginare un altro futuro nel momento in cui il bambino muore. Perché non compete più a lui: “Potrei forse farlo ritornare? Andrò io da lui, ma lui non tornerà da me!». Davide prende atto di essere solo ciò che è, sarà anche re, ma solo quello è, un essere umano che morirà. Davide lo sa e sa che non è in suo potere far tornare un’altra storia. E’ in suo potere consolare Betsabea, cioè rimettere in moto – paradossalmente con la stessa persona – un altro futuro possibile e questo altro futuro sarà Salomone, il re sapiente, che dice le parole di Dio.

Mi pare che questo testo ci abbia aiutati un po’, anche col suo linguaggio semplice e inquietante, a sgombrare un po’ il campo, a capire perché è così difficile per noi vedere le cose da un altro punto di vista. Mi sembra che la risposta sia abbastanza evidente: in fondo non siamo così cattivi da fare una cosa senza avere neanche una ragione per farla. E nel momento in cui ne abbiamo una, anche piccola e parziale, ci sentiamo giustificati, e ci vuole qualcosa che dall’esterno ci dica “fermati! Guarda! Forse avevi le tue ragioni, ma visto dall’esterno fa tutto un altro effetto”. E’ un dono che ci arriva da fuori, e la vera scommessa è imparare, come Davide, a fare questo, a guardare da un altro sguardo.

Fossano, 12 ottobre 2013

testo non rivisto dal relatore

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