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30 Novembre 2013
Stella Morra

2. Mettersi al centro fa nascere periferie

Commento a: Gen 11, 1-9


Premessa

Il tema che ci siamo dati quest’anno, con un titolo un po’ poetico, è “Dalle periferie, un altro sguardo”. L’idea di assumere la provocazione che ci veniva, anche, da una serie di discorsi di papa Francesco, ma che per l`Atrio è sempre stata una preoccupazione costante e cioè cosa significa guardare il mondo dalle periferie, e come questo sia contemporaneamente una condizione sofferta, perché ci capita di non essere al centro, sia una condizione a volte scelta, a volte subita. La provocazione che dava papa Francesco è sicuramente una lettura positiva, perché afferma che è necessario per i cristiani reimparare a guardare il mondo dalle periferie, ovvero con lo sguardo di chi conta meno, dalla parte di chi non decide, di chi non ha il potere o la possibilità di organizzare il mondo. Nella logica comune soffriamo essere alla periferia sempre un po’ come un’esperienza negativa, il non contare niente, il non essere al centro. Tutto questo mondo, tutto questo insieme di temi, è interessante e, soprattutto, la Parola di Dio avesse da questo punto di vista delle parole molto dure, una posizione chiara. Nella prima lectio abbiamo riflettuto sul testo di Samuele 12 in cui il profeta Nathan racconta a Davide l`episodio, molto conosciuto, dei due uomini, uno ricco e uno povero, uno ha tante pecore l’altro una sola, e raccontandogli quell’apologo lo fa molto arrabbiare. Davide dice che quell’uomo è degno di morte, ma Nathan gli risponde: “tu sei quell’uomo”.

Abbiamo letto quel testo per vedere cosa vuol dire cambiare sguardo, cercare un altro sguardo almeno come punto di partenza, e come la funzione del profeta sia quella di aiutare le persone a vedere le cose da un altro punto di vista, in genere scomodo. Abbiamo visto poi, come nel proseguo del testo Davide assume quel cambiamento, assume quel punto di vista per cui la gente che lo circonda non capisce bene il suo comportamento. Davide assume un altro punto di vista, non solo lo ascolta.

Questa è stata una prima riflessione su questo tema abbastanza generale. Dal testo di oggi in poi vorremmo cominciare a riflettere sui meccanismi di ciò che significa guardare le cose da un altro punto di vista, da una posizione minoritaria e non centrale, con uno sguardo depotenziato. È un meccanismo complicato perché tutti abbiamo delle resistenze abbastanza profonde, non solo morali; non è che vogliamo sempre comandare, però è vero che è un’operazione un po’ difficile da fare, perché mollare, rilassarsi, lasciare il governo delle cose, lasciare che le cose abbiano il loro ritmo, è sempre un’operazione che comporta una resistenza. Il testo di oggi e un paio di altri, vorrei che c’aiutassero a riflettere su come funziona questa cosa, poi invece ci saranno tutti testi dai Vangeli che ci aiuteranno a vedere meglio quale strada si possa intraprendere, quali aspetti più positivi possiamo ricavarne. In qualche modo il testo di oggi e i prossimi due sono più descrittivi, e sono presi dall’Antico Testamento, nella sua parte più antica. L’Antico Testamento è per noi più difficile per via dei generi letterari, del modo di esprimersi, ma rappresenta una fonte quasi inesauribile di strutture antropologiche classiche. Di tutta la Scrittura è la parte più dedicata a descrivere come sono gli esseri umani, come funzionano, non tanto cosa dovrebbero fare; perché spesso ci sono scene di violenza, di un Dio violento, ingiusto, invidioso, questo perché non descrive il dover essere o la cosa giusta, questa è una nostra mania, ma descrive come gli esseri umani funzionano in rapporto a Dio, in modo fenomenologico basato sulle strutture fondamentali dell’esistenza e dell’essere umano, che restano sostanzialmente le stesse dal tempo in cui è stato scritto (mille anni a.C.) ad oggi.

Le strutture dell’essere umano sono rimaste le stesse, il modo in cui le diciamo è cambiato e questo ci può dare dei problemi, perché leggiamo un tipo di espressione che non capiamo, non riconosciamo, e come vedere un film muto degli anni ’30, un grande capolavoro del cinema, ma che ci annoia da morire, perché non siamo più abituati a quel genere filmico. La struttura fondamentale però è esattamente la stessa! L’Antico Testamento si sforza di dirci come gli umani funzionano questa è la prima osservazione da tener presente.

La seconda osservazione è che noi ci aspettiamo che la scrittura sia una risposta e ci dica le cose giuste, soprattutto quelle da fare. Per questo motivo spesso l’AT ci scandalizza, perché Dio sembra un altro dio un po’ cattivo, un po’ vendicatore, violento, che non ci piace. Il problema è che l’AT non è finalizzato a darci le risposte giuste, ma descrive la realtà come è, a partire da questo pone delle domande. Faccio un esempio: i testi della creazione non ci dicono come il mondo è stato creato, ma che il mondo è stato creato, descrivono un dato di fatto. Il modo e il linguaggio che usano per descriverlo è un’altra faccenda, ma ci pongono una domanda: ”voi come vi mettete rispetto al fatto che il mondo è così?”. Ad esempio nel racconto del Peccato Originale non ci dicono che cosa è successo all’origine, ma ci dicono che il mondo non funziona. Questa rimane esattamente la nostra esperienza, cioè che uno fa tutto giusto, fa tutto con le migliori intenzioni e poi il mondo non funziona. E uno si chiede ma perché? Ho fatto tutto giusto: perché non funziona? Il racconto del Peccato Originale non risponde a questa domanda, ma ci chiede: “voi come vi mettete rispetto al fatto che il mondo non funziona?”.

Per riconoscere il meccanismo dell’essere al centro oppure in periferia, ho scelto dei brani molto antichi all’interno dell’AT, in particolare il brano di oggi è un testo che spessissimo citiamo, ne citiamo il titolo, ma che raramente leggiamo, per cui ovviamente abbiamo delle idee fantasmagoriche su come funziona. Come spesso accade il racconto è molto meno delle idee che abbiamo in testa, ma allo stesso tempo è anche molto di più, c’è più contenuto, meno favola. È un testo verso la fine dei primi 11 capitoli che sono un blocco molto arcaico della scrittura. Genesi 1-11 è un racconto descrittivo della struttura antropologica fondamentale di come va il mondo, di come vanno gli esseri umani, di come funzionano le due o tre cose serie e fondamentali della nostra vita. Il genere letterario di questi racconti è il mito, in questo caso miti creazionali. La parola miti può creare qualche confusione, è come dire una malattia psicosomatica, che nella nostra testa significa falsa, ma una malattia psicosomatica non è falsa perché uno sta proprio male, ma essa dice qualcosa sulla qualità della nostra vita, il mal di testa da stress non vuol dire che uno non ha mal di testa, ma che la causa di quel mal di testa non è materiale anche se di per sé il mal di testa è vero. Esattamente così quando diciamo mito la nostra testa pensa è una favoletta. Non è vero il mito è un altro modo con cui raccontare delle cose che sono vere, reali, serie, che ci pongono questioni intorno a crisi epocali, così tipiche di tutti gli esseri umani, che sono difficilissime da dire con un trattato filosofico. Il mito non è assolutamente una storiella, ha l’andamento letterario della storia, ma raccontando la storia ci dice una serie di questioni molto profonde. I primi 11 capitoli di Genesi sono tutti sotto il cappello del mito creazionale, cioè contengono i racconti, i miti su l’origine del mondo, la coppia originaria, il peccato originale, perché il mondo non funziona, i peccati non più originali, il punto di rottura (diluvio universale), la Nuova Alleanza, infine la torre di Babele.

La torre di Babele, che leggiamo stasera, è l’ultimo episodio, poi ci sono alcuni pezzetti ancora, ma sono delle liste, degli elenchi, la lista delle genti, i nomi di tutti i popoli, le liste dei discendenti di Noè. È come se noi dicessimo quali sono le cose fondamentali, ovvero perché noi siamo al mondo? Come funziona? Perché il mondo non funziona? Cosa ci mettiamo di nostro nel non farlo funzionare? Questo non funzionare alla fine porterà alla fine di tutto? Come diceva Einstein se ci sarà la terza guerra mondiale non so come la combatteremo, ma di sicuro la quarta verrà combattuta con le clave. Come per dire che il male cresce fino a distruggere tutto, ma non ce la farà. Dopo succedono ancora delle altre cose e l’ultima che succede è la torre di Babele, e poi dopo delle liste. Questo lo stato del mondo, poi chi c’è a bottega. Ci sono questi e questa è la situazione.

È molto interessante che questo brano della torre di Babele è posto come l’ultima cosa che accade dopo il disastro, tutta la prima parte fino al racconto del diluvio sarebbe che Dio ha creato tutto bello, che però non funziona. Noi ci mettiamo del nostro e ci sono i cattivi, come Caino, mettendoci del nostro alla fine succede un disastro e c’è il diluvio universale. A questo punto tutto dovrebbe sparire, invece quello che resta è la torre di Babele. Quello che resta sopravvivendo al disastro in cui sarebbero dovuti annegare tutti cattivi e salvarsi soltanto i buoni (la famiglia di Noè), è la torre di Babele.

Il testo – Gen 11,1-9

1Tutta la terra aveva un’unica lingua e uniche parole. 2Emigrando dall’oriente, gli uomini capitarono in una pianura nella regione di Sinar e vi si stabilirono. 3Si dissero l’un l’altro: «Venite, facciamoci mattoni e cuociamoli al fuoco». Il mattone servì loro da pietra e il bitume da malta. 4Poi dissero: «Venite, costruiamoci una città e una torre, la cui cima tocchi il cielo, e facciamoci un nome, per non disperderci su tutta la terra». 5Ma il Signore scese a vedere la città e la torre che i figli degli uomini stavano costruendo. 6Il Signore disse: «Ecco, essi sono un unico popolo e hanno tutti un’unica lingua; questo è l’inizio della loro opera, e ora quanto avranno in progetto di fare non sarà loro impossibile. 7Scendiamo dunque e confondiamo la loro lingua, perché non comprendano più l’uno la lingua dell’altro». 8Il Signore li disperse di là su tutta la terra ed essi cessarono di costruire la città. 9Per questo la si chiamò Babele, perché là il Signore confuse la lingua di tutta la terra e di là il Signore li disperse su tutta la terra.

Il brano letto nella sua asciuttezza è molto inquietante, perché l’unico cattivo è Dio. Siamo abituati a fare interpretazioni morali o, per presunzione, moralistiche del racconto di questo brano: gli uomini vogliono costruire la torre per presunzione, ma nel testo non c’è. Purtroppo nella tradizione cristiana su questo brano si sono appoggiati molti discorsi del tipo che non bisogna sfidare Dio, che bisogna stare quieti, essere umili, si è colpevolizzata la ricerca, la scienza, la spinta al miglioramento. Il testo non è per niente moralistico e molto neutrale, non dice di questa cosa né che è un bene, né che è un male, che gli uomini fanno di costruire la torre. Racconta un fatto, uomini che costruiscono una città, una torre, e si fanno un nome, e tutto accade nella concordia, ma provoca l`invidia di Dio che scende a confondere lingua, li disperde e crea una situazione per cui non è più possibile per loro cooperare. Questo testo è strano. Mi sembra bello dare l’orizzonte di questo, tenendo conto di ciò che avevo detto prima, cioè che è descrittivo e non spiega la causa reale, quello che questo testo ci dice è che mettersi al centro fa nascere le periferie. Cioè se uno costruisce una torre, c’è qualcun altro che si sente messo da parte, se uno costruisce una città, questo diventa un centro e definisce un altro come periferia, anche se non era nelle intenzioni. In questa dinamica agli uomini è andata male perché loro anche se erano tutti d’accordo, si sono messi a costruire un centro, spingendo Dio su una periferia, ma Dio non si è lasciato spingere in periferia e secondo il racconto si è arrabbiato. Questo è il meccanismo che descrive ed è un meccanismo molto comune. Infatti molto spesso le nostre difficoltà relazionali sono così: io proprio non so cosa ho fatto a quella persona, non gli ho fatto niente. Il piccolo particolare è che noi abbiamo costruito una torre, l’altro si è sentito messo alla periferia perché noi abbiamo costituito un centro, e questo lo ha ferito profondamente perché si è sentito spingere in una periferia

1Tutta la terra aveva un’unica lingua e uniche parole.

Questo versetto è bello, a parte tutta la fatica che uno fa per imparare una lingua straniera, se parlassimo tutti la stessa lingua sarebbe molto più semplice, da qui tutta la fatica ad abbandonare il latino, come se la possibilità di cooperazione, di scambio, di unione passasse tutta attraverso un’unica lingua. Il mito che il modo supera la differenza, una delle esperienze fondanti dell’umanità è l’esperienza della differenza. Differenza ed eguaglianza è uno dei temi che ci fanno diventare matti dall’origine del mondo, perché se vogliamo bene a qualcuno vorremmo avere con lui una tale comunione, coesistenza, consonanza, che non vorremmo nemmeno dover spiegare, che io e l’altro fossimo una sola cosa. D’altra parte ogni differenza non amata è un insulto, è una torre costruita su un centro che mi allontana in una periferia. Come si permette di essere diverso da me? Cosa mi costringe ad essere? La differenza e l’uguaglianza sono uno dei due o tre problemi cardine. Perché io sono io e tu non sei uguale a me? Perché poi, significa che mi tocca spiegarmi? Usare delle parole che poi non mi vengono bene e tu non sai ascoltarmi, e che se devo spiegartelo, non ne vale più la pena. Questo è un classico. Normalmente ci vogliono anni di pazienza per guardare l’altro e riconoscere il suo bisogno, il tempo giusto e il modo giusto. Poi, ci vuole anche un po’ di fortuna, perché comunque non ci riesci 100 volte su 100, anche dopo anni quando la sintonia è altissima, se ti riesce 7 volte su 10 ti va di lusso.

In questo versetto si dice che tutti si spiegavano esattamente, tutti si capivano, il massimo della comunione possibile. Nel Vangelo di Giovanni ci viene detto che Gesù è la Parola del Padre e che lo Spirito è l’interprete della Parola del Padre. È come se ci dicesse che nella Trinità hanno un’unica lingua, un’unica Parola. Dio Padre è per tutti noi questo desiderio di felicità, ce lo dice il Figlio che è una comunicazione perfettamente uguale al Padre e ci dona lo Spirito affinché noi possiamo capire esattamente quello che dice. Il tema della comunione perfetta attraverso una parola perfetta, è un tema che attraversa tutta la Scrittura. In questi testi, di solito, è la conclusione che è una situazione reale, quello che noi sperimentiamo è la fine, non l’inizio.

2Emigrando dall’oriente, gli uomini capitarono in una pianura nella regione di Sinar e vi si stabilirono. 3Si dissero l’un l’altro: «Venite, facciamoci mattoni e cuociamoli al fuoco».

Questo passaggio è interessante perché la cultura della terracotta e una cultura che gli Ebrei non avevano, perché erano un popolo nomade, che viveva nelle tende. Lo stesso nome ebreo probabilmente viene dall`aramaico ibriu, che vuol dire polveroso, perché abitavano il deserto, la polvere. Le città (ad esempio Babilonia) costruite di mattoni, in tutti territori desertici sono sempre oggetto di un mito, ovvero luoghi mitologici. Dove c’è abbastanza terra acqua e fuoco per cuocere i mattoni, perché tutta la zona desertica non ha cave di pietra, quindi si vive nelle tende e di qui il mito della ricchezza è una città di mattoni, segno di stabilità e di forza. Nella favola dei tre porcellini abbiamo ancora il segno mitologico della differenza, perché è la casa di mattoni che difende, le altre sono pericolosamente instabili.

Gli uomini arrivano in questa pianura e decidono di rendere stabile quel luogo, in questo non c’è nessuna presunzione.

Il mattone servì loro da pietra e il bitume da malta. 4Poi dissero: «Venite, costruiamoci una città e una torre, la cui cima tocchi il cielo,

Una città e una torre, già, una città è tantissimo, ma persino una torre. Vogliono fare un luogo stabile bello, la torre è proprio un sfizio, un lusso, un di più di esercizi di genialità.

e facciamoci un nome, per non disperderci su tutta la terra».

Inoltre facciamoci un nome, ovvero costruiamo un centro. Loro avevano quest’esperienza, gli assiri con Babilonia non erano una delle tante tribù. Erano popoli che si erano fatti un nome, che erano diventati un centro, un punto di riferimento, un luogo dove gli altri si misuravano e gli altri erano considerati incivili, dei nomadi polverosi, periferici. Stabilità, lusso, e facciamoci un nome, è il meccanismo fondamentale. Qui ci viene detto che la comunione, cioè la struttura che permette la cooperazione, è rotta da questi tre desideri: garantire il futuro, la sovrabbondanza, il superamento del bisogno e farsi un nome, cioè diventare un centro. Mi sembra inquietante, nel senso che sono esattamente il meccanismo attraverso il quale noi ci costituiamo come centri e abbiamo la necessità che gli altri diventino delle periferie. Darci una stabilità, avere un governo, un’assicurazione sul futuro, un controllo dell’ansia, ognuno può declinare secondo se stesso, superare la logica del bisogno e farsi un nome, diventare una pietra di paragone. La città e la tecnica sono per gli ebrei, come per tutti i popoli nomadi e periferici, l’immagine di ogni male, la città e la capacità di costruire una torre sono proprio l’abominio, il luogo dove succedono tutte le cose malvagie.

Cito un testo che gira su Internet (ed è anche diventato un libro) che si chiama Dio nella città omelia di Bergoglio, allora cardinale, che inizia esattamente ponendosi questa questione: ma perché tutti rimpiangiamo le società tradizionali, contadine, dove sembrava che fosse più facile essere cristiani? I casi sono due: o Dio odia le città, ma non è così perché Dio non odia i luoghi dove vivono gli umani, oppure siamo noi che non siamo capaci a fare i conti con la città. Questa questione è molto antica, la città ovvero un luogo che costituisce il centro e che organizza il potere dell’uomo è un luogo visto come pericoloso. Il racconto qui ce la mostra attraverso ciò che attribuisce a Dio. Non ci dice niente di Dio, ma ci dice di come gli Ebrei vedevano la città, attribuiscono il giudizio che è il loro. È un antico meccanismo, anche noi lo facciamo spesso, cioè siamo spesso convinti che Dio sia d’accordo con noi. Cosa succede quando la comunione attraverso un’unica lingua diventa stabilità, tecnica, lusso e nome? Succede che niente sarà più a loro impossibile. L’operazione, dunque, che viene fatta, che dà come esito l’esperienza che noi facciamo, cioè che nessuno ha mai sperimentato la comunione perfetta con tutti gli altri esseri umani. Quello che noi sperimentiamo è quello che si racconta dopo

5Ma il Signore scese a vedere la città e la torre che i figli degli uomini stavano costruendo. 6Il Signore disse: «Ecco, essi sono un unico popolo e hanno tutti un’unica lingua; questo è l’inizio della loro opera, e ora quanto avranno in progetto di fare non sarà loro impossibile. 7Scendiamo dunque e confondiamo la loro lingua, perché non comprendano più l’uno la lingua dell’altro». 8Il Signore li disperse di là su tutta la terra ed essi cessarono di costruire la città. 9Per questo la si chiamò Babele, perché là il Signore confuse la lingua di tutta la terra e di là il Signore li disperse su tutta la terra.

L’esperienza che noi facciamo è che siamo tutti dispersi e che non parliamo un’unica lingua. La stabilità illustra il come diventano costruibili, sempre a prezzo che qualcun altro paga. Diventare il centro fa diventare altri una periferia. La conclusione è “li disperse su tutta la terra” e poi seguono dunque di elenchi, proprio a mostrarci che la questione è descrittiva.

Questo testo ci dice alcune cose fondamentali: il mondo in cui viviamo storicamente: la ricerca della stabilità, del lusso, del farsi un nome, cioè mettersi al centro, anche solo della propria vita, crea delle periferie, disperde e non ci permette più di parlare la stessa lingua.

Questa è la grande domanda: quanta dispersione per il mondo sono disposto a pagare e a far pagare in cambio della mia stabilità, del mio lusso, del mio farmi un nome? Oppure quanta mancanza di stabilità, di lusso e di farmi un nome, in cambio di un aumento, di una comunione, di una lingua comune. Quello che questo testo ci dice è che non c’è una terza possibilità. Parlare un’unica lingua costa caro in termini di esigenze, che qui sono date come esigenze legittime, non costano caro solo i nostri peccati. Traduco quello che le nostre mamme ci hanno sempre detto “per andare d’accordo ci vuole un po’ di pazienza” nasconde una verità, cioè per andare d’accordo, per parlare una lingua in comune, non basta non trattar male la gente, non basta pagare il prezzo di non fare cose sbagliate, bisogna spendere, bisogna avere una capacità in più che la pazienza, se no non si va d’accordo. Non basta non far niente di male a nessuno per parlare la stessa lingua, bisogna investire positivamente. Non c’è una terza possibilità, quel testo è molto chiaro ci dice che se qualcuno si mette al centro, in automatico, qualcun altro andrà nelle periferie e quindi bisogna decidere da che parte ci si mette, su cosa si investe. Poi, si dice, in fondo non ho mai fatto niente di male, infatti non hanno fatto niente di male ma il prezzo di questa costruzione è la rottura dell’unica lingua.

Qui ci sarebbe un lungo tema di cui dico solo il titolo, poi se interessa ne riparleremo, che è il dittico che interessa il peccato originale e questo racconto, che sono due racconti paralleli. Prima del peccato originale c’è una situazione come qui, ovvero, Dio e l’uomo parlano un’unica lingua, anche l’uomo e la natura parlano un’unica lingua. Tutto va bene, esattamente come in questo testo, un unica lingua e uniche parole, poi c’è l’insinuazione, attribuita al serpente, di una differenza. La differenza tra uomo e Dio, per cui il serpente dice se mangerete il frutto sarete come Dio, come se essere uguali fosse un vantaggio, un premio quando l’essere diversi è già un premio. In questo brano è esattamente la stessa cosa raccontata al contrario, c’è una comunione e c’è un prezzo da pagare perché questa comunione continui. Non viene pagato e quindi si viene dispersi e la differenza è raccontata come un perdita, le diverse lingue sono una perdita. Nel racconto di Pentecoste leggeremmo che Pietro parla nella propria lingua e ognuno lo capisce nella propria, non è che Pietro parla tutte le lingue, ma ognuno lo capisce nella propria lingua.

Questo primo meccanismo è molto chiaro, mettersi al centro di per sé non è un male, ma il prezzo da pagare è molto caro, si deve spingere gli altri nelle periferie.

Fossano, 30 novembre 2013

(testo non rivisto dal relatore)

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