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12 Aprile 2014
Stella Morra

7. Questa generazione

Commento a: Lc 7, 18-35


Premessa

Siamo al penultimo passaggio del nostro percorso. Avevo scelto questo testo molto tempo fa, quando alcune vicende legate all’operato di papa Francesco non erano ancora prevedibili e ora, alla luce dei fatti recenti, mi pare che sia un testo molto adatto. Si tratta di una parte del capitolo 7 di Luca che abbiamo intitolato “Questa generazione”. Come di consueto riprendo il filo del discorso iniziato con le lectio precedenti. Stiamo ragionando su “un altro sguardo”, la necessità di vedere le cose da un punto di vista diverso. Sempre più mi vado convincendo, anche in relazione a riflessioni molto contemporanee, a volte quotidiane, che forse ci metteranno un po’ ad arrivare fino alla periferia ma che a Roma cominciano ad avere un andamento vorticoso, che forse una delle essenze fondamentali dell’esperienza della conversione cristiana, nasce proprio dalla capacità di guardare le cose da un altro punto di vista, dentro un’altra logica, a partire da altri criteri. E mi rendo conto che questo per gli adulti diventa un elemento discriminante, quello che ci mette in grado anche di agire e scegliere diversamente. A volte abbiamo la pretesa di diventare buoni senza cambiare niente del nostro schema profondo, del modo di guardare il mondo e questo il più delle volte si tramuta in una fatica inutile, in cui uno lotta contro se stesso, contro quello che gli sembra logico e alla fine non ce la fa. Quello che la scrittura chiama la conversione del cuore, in termini moderni nostri può essere definito “la conversione dello sguardo” o, più intellettualmente, “la conversione dei paradigmi” che di fatto significa mettersi nella propria vita rispetto a se stessi e al mondo in modo tale da poter trarre solo una conclusione. A quel punto alcune cose diventano normali, ma lo diventano a partire dal fatto che guardi il mondo e comprendi la realtà, te stesso e il tuo ruolo in un altro modo. Personalmente sto riflettendo molto su come questo sia forse il problema centrale della vita adulta. Da bambini come anche da adolescenti siamo molto duttili e infatti per certi versi siamo tutti uguali. Se vi è capitato di re-incontrare anni dopo i vecchi compagni di scuola, senz’altro vi siete resi conto di come in classe, pur coscienti delle diversità si aveva la sensazione di stare tutti sulla stessa barca, mentre a vent’anni di distanza ci si accorge che con qualcuno non si ha più nulla da dire. Si percepisce una distanza infinita e non è detto che ci sia un perché. Magari l’altro ha una vita molto simile, ha passato gli stessi guai, ma ci si rende conto che progressivamente si sono instaurati degli a-priori, dei modi di intendere impliciti e profondi che ci portano a misurare le distanze. Diventare adulti è un processo di individuazione, ovvero di diventare individuo, costruendo presupposti che essendo in qualche modo scontati ti consentono di vivere, perché se ogni volta bisogna ripensare tutto come fanno gli adolescenti che per ogni situazione ristrutturano l’universo, diventa impossibile. I quadri in cui ci collochiamo ci consentono di vivere ma al tempo stesso ci radicano in ciò che ci pare normale, spontaneo, quel che ci fa dire “Io sono così di carattere”. Si crea così una sorta di presupposto dogmatico da cui difficilmente riusciamo a spostarci. Mi pare che l’appello del Vangelo alla conversione, se non vogliamo leggerlo in modo moralistico, sia esattamente l’appello a lavorare su questi presupposti, a guardare dal profondo il mondo in un altro modo, che è lo sguardo di Dio. Ed è chiaro che questa è l’opera di una vita; è come se diventando adulti ci strutturiamo e il Vangelo continuamente ci destruttura, chiedendoci di organizzare il nostro quadro di fondo secondo Dio e non sempre questo coincide con quanto ci viene spontaneo.

Da questo punto di vista il testo di oggi mi pare molto decisivo, chiaro e per alcuni versi anche molto profondo, un po’ spigoloso perché va proprio a toccare il livello “di fondo” di cui ho appena parlato. Occuparsi di avere “un altro sguardo” non è affatto faccenda marginale. Nei primi quattro testi abbiamo cercato di descrivere le dinamiche degli sguardi profondi a partire da quella di Nathan, la più conosciuta e così via. La logica biblica che ci narra parabole e storie spesso ci mette di fronte al fatto che se non ha utilizzato chissà quale strano ragionamento per spiegare un punto di vista profondo ma lo ha fatto attraverso la narrazione, come nel caso di Davide, se non siamo noi i soggetti, riusciamo a comprendere qual è lo schema che opera. Ma quando si tratta di noi e della nostra vita, certe volte è difficile vedere. Questo è il problema. E per questo la bibbia è la grande storia che ci è offerta, quella che racconta i grandi paradigmi di fondo di fronte ai quali, non trattandosi di noi, è più facile vedere, capire. Dopo i primi quattro brani più descrittivi abbiamo cercato di contornare in qualche modo l’altro sguardo che Gesù esercita, ovvero come fa Gesù che è nostro punto di riferimento e modello, a far funzionare un altro sguardo nelle situazione concrete in cui si ritrova a vivere. Abbiamo visto l’episodio doppio di Giairo e dell’emorroissa, un altro sguardo che sposta il ragionamento, mentre l’ultima volta abbiamo parlato dell’altro sguardo su fariseo-pubblicano, un testo abbastanza noto.

Oggi ci occupiamo invece di una questione che per certi versi spesso viene liquidata come molto storica legata a Gesù, una storia particolare che non ci chiama in causa mentre è esattamente il contrario, perché si tratta di una situazione molto più generale.

Il capitolo 7 è strutturato come al solito in modo abbastanza costruito. All’inizio troviamo il racconto di due miracoli: a. quello famoso in cui il centurione pagano si reca da Gesù per chiedere la guarigione del suo servo; Gesù acconsente e il centurione gli dice “Signore io non sono degno…”; Gesù elogia la sua fede e opera la guarigione; b. mentre Gesù va verso Naim incontra il corteo funebre dell’unico figlio della vedova di Naim e resuscita il ragazzo; questo è uno dei rari racconti di resurrezione, che di norma sono riservati alla tenerezza di Gesù verso l’amico Lazzaro e i ragazzi. Questi sono i due miracoli con cui si apre il capitolo. Il testo che ho scelto inizia al versetto 18 e riguarda il rapporto tra Gesù e Giovanni il Battista. Il capitolo si conclude con il famoso racconto della peccatrice: Gesù va a mangiare a casa di Simone il fariseo e una peccatrice gli lava i piedi con le lacrime, glieli asciuga con i capelli e glieli profuma. I presenti discutono sul fatto che se sapesse chi è quella donna la allontanerebbe e Gesù racconta così a Simone e al padrone di casa la storia dei due debitori (quello che doveva poco e quello che doveva molto) e chiede chi lo amerà di più. Questa è la cornice in cui è racchiuso il testo su Giovanni il Battista che ora leggiamo: due miracoli e l’incontro con la peccatrice narrato a Simone attraverso la parabola per mostrare un altro punto di vista. La situazione è molto chiara. Gesù ha davanti un uomo che ben conosceva come vanno le cose del mondo del denaro e usa quel contesto per mostrargli un altro punto di vista.

Il testo – Lc 7, 18-35

18Giovanni fu informato dai suoi discepoli di tutte queste cose. Chiamati quindi due di loro, Giovanni 19li mandò a dire al Signore: «Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?». 20Venuti da lui, quegli uomini dissero: «Giovanni il Battista ci ha mandati da te per domandarti: “Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?”». 21In quello stesso momento Gesù guarì molti da malattie, da infermità, da spiriti cattivi e donò la vista a molti ciechi. 22Poi diede loro questa risposta: «Andate e riferite a Giovanni ciò che avete visto e udito: i ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono purificati, i sordi odono, i morti risuscitano, ai poveri è annunciata la buona notizia. 23E beato è colui che non trova in me motivo di scandalo!».

24Quando gli inviati di Giovanni furono partiti, Gesù si mise a parlare di Giovanni alle folle: «Che cosa siete andati a vedere nel deserto? Una canna sbattuta dal vento? 25Allora, che cosa siete andati a vedere? Un uomo vestito con abiti di lusso? Ecco, quelli che portano vesti sontuose e vivono nel lusso stanno nei palazzi dei re. 26Ebbene, che cosa siete andati a vedere? Un profeta? Sì, io vi dico, anzi, più che un profeta. 27Egli è colui del quale sta scritto: Ecco, dinanzi a te mando il mio messaggero, davanti a te egli preparerà la tua via.

28Io vi dico: fra i nati da donna non vi è alcuno più grande di Giovanni, ma il più piccolo nel regno di Dio è più grande di lui. 29Tutto il popolo che lo ascoltava, e anche i pubblicani, ricevendo il battesimo di Giovanni, hanno riconosciuto che Dio è giusto.30Ma i farisei e i dottori della Legge, non facendosi battezzare da lui, hanno reso vano il disegno di Dio su di loro». 31«A chi dunque posso paragonare la gente di questa generazione? A chi è simile? 32È simile a bambini che, seduti in piazza, gridano gli uni agli altri così: “Vi abbiamo suonato il flauto e non avete ballato, abbiamo cantato un lamento e non avete pianto!”. 33È venuto infatti Giovanni il Battista, che non mangia pane e non beve vino, e voi dite: “È indemoniato”. 34È venuto il Figlio dell’uomo, che mangia e beve, e voi dite: “Ecco un mangione e un beone, un amico di pubblicani e di peccatori!”. 35Ma la Sapienza è stata riconosciuta giusta da tutti i suoi figli».

È un testo pesante, strano e denso. Nella liturgia viene letto a pezzi, mai tutto di fila e soprattutto nella liturgia domenicale viene letta solo la prima parte. In apparenza sembrerebbe toccare una situazione storica precisa; di norma infatti viene fatta la spiegazione su Giovanni il precursore, una strana figura nella Scrittura perché tutti inconsciamente lo interpretiamo come il passaggio tra l’ebraismo e il nascente cristianesimo, ovvero come quello strumento che avrebbe dovuto aiutare gli ebrei a riconoscere il Messia. Vista in questa prospettiva la cosa non ci riguarda, avendo noi riconosciuto in Gesù il Messia e l’operazione di Giovanni può essere considerata un fallimento visto che gli ebrei non hanno invece riconosciuto il Messia. Alcuni studiosi che si sono occupati di Giovanni il Battista, sostengono che fosse un esseno, legato dunque ai movimenti apocalittici dell’epoca e spiegano in questo modo la ragione di certi suoi atteggiamenti e pratiche ascetiche, liquidandolo come un personaggio bizzarro. In realtà la lettura approfondita dei testi rivela aspetti interessanti della sua persona; Giovanni è una figura di transito, un gioco di specchi. Come mette in luce il testo di oggi, è un gioco di relazioni.

I discepoli di Giovanni si recano da Gesù a chiedere da parte di Giovanni, poi se ne vanno e Gesù parla con la folla di Giovanni. Per dirla in modo rapido, credo questa sia la figura della Chiesa secondo la logica della Chiesa di Lumen Gentium, 1, di cui più volte abbiamo parlato. Il documento conciliare si chiama Lumen Gentium, Luce delle Genti non perché la Chiesa sia la luce delle genti ma perché il testo inizia così: “Cristo è la luce delle genti, e questo sacro Concilio, adunato nello Spirito Santo, ardentemente desidera che la luce di Cristo, riflessa sul volto della Chiesa, illumini tutti gli uomini…”. Normalmente spiego agli studenti che questo incipit viene da uno studio di Hugo Rahner, fratello del più famoso Karl, che studiando i Padri della Chiesa, analizza l’immagine del mysterium lunae. La Chiesa è la luna, cioè un astro spento che però quando il sole è dall’altra parte e dalla nostra c’è la notte, riflette la luce del sole. E in una notte buia come è la storia, la luna è meglio di niente. Anche se manca il sole, una bella luna piena dà un chiarore discreto, chiunque sia andato in montagna in notturna lo sa. Il mysterium lunae è proprio questo gioco di specchi: la luna riflette la luce del sole. La Lumen Gentium ci dà un’immagine della Chiesa come di un astro spento che riflette la luce del sole per un cammino nella notte. Poi verrà l’ultimo giorno, quello senza più tramonto, in cui non ci sarà più bisogno di luce né solare né lunare perché sarà Dio a illuminarci, come dice l’Apocalisse. In quest’ottica Giovanni è la figura della Chiesa, è quello che si agita per indicare un altro e si dà da fare affinché la gente, attraverso il battesimo di conversione, possa entrare in quello sguardo che è lo sguardo di Cristo. Ma non c’è nulla che possa sostituire l’incontro diretto tra le persone e Cristo e Giovanni crea semplicemente l’occasione. Questo è il primo elemento: un altro sguardo significa ricordarsi qual è il gioco di specchi. Credo che nella nostra vita sia molto difficile distinguere, se si sta sparando all’immagine riflessa o se qualcuno ci sta sparando alle spalle e l’immagine nello specchio è la nostra, come nei film horror. Il gioco di specchi, di relazioni, di rimandi tra le cose importanti (a prescindere che lo siano per se stesse o che lo siano in quanto funzionali ad altre cose importanti) a volte ci fanno perdere. E quando ci capita qualcosa di grave che ci costringe a rivedere le priorità e a rimettere in ordine la nostra vita, scopriamo che le cose davvero importanti sono in realtà poche e sono proprio quelle che restano ferme anche nelle situazioni più difficili. Improvvisamente tutto il resto perde un po’ della sua importanza. Il gioco di specchi è decisivo e anche il contenuto della nostra vita; in fondo non abbiamo da fare sempre cose importanti ed è giusto così. Ma forse bisognerebbe ricordare che sono immagini, sono ciò che ci mette in relazione; a volte c’è il peso di tutto il Regno di Dio in un bicchiere d’acqua, altre volte non è il caso di avvelenarsi gli anni a venire con un mutuo che uccide solo per avere una casa migliore. Bisognerebbe ricordarsi qual è il gioco di specchi, il tessuto di relazioni. E questo mi pare sia il grande sguardo profondo. Un amico saggio dice spesso: “Chissà perché la gente per rendersi conto che alcune cose contano e altre no deve avere una disgrazia. Non faremmo prima a scoprire che funziona in modo diverso senza bisogno di una disgrazia?”. Sapiente ma difficile.

20Venuti da lui, quegli uomini dissero: «Giovanni il Battista ci ha mandati da te per domandarti: “Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?”».

Ciascuno di noi ha dentro di sé un Giovanni Battista che manda un parte di sé a chiedere a Gesù: “Sei tu quello che deve venire o dobbiamo aspettare un altro? È questa la cosa importante o devo aspettarne un’altra?”. Perché non lo sappiamo mai a priori. Contemporaneamente ogni tanto ci confondiamo tra chi è Giovanni Battista, chi va a chiedere cosa. La domanda è interessante: “Sei tu o dobbiamo aspettare un altro?”. Una cosa è certa: qualcuno deve venire. Questa cosa si chiama fede. La nostra vita ha un valore. Assoluto. Perché altrimenti Dio non l’avrebbe creata. Il nostro passaggio sulla terra è unico e irripetibile. Certo per capire dove sta l’importanza forse ogni tanto bisognerebbe chiedersi: “È questo o dobbiamo aspettare?”. Questo è un altro carattere degli adulti: imparare ad aspettare. Dunque i due vanno, eseguono il compito, dicono “Giovanni Battista ci manda a chiedere…”.

21In quello stesso momento Gesù guarì molti da malattie, da infermità, da spiriti cattivi e donò la vista a molti ciechi. 22Poi diede loro questa risposta: «Andate e riferite a Giovanni ciò che avete visto e udito: i ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono purificati, i sordi odono, i morti risuscitano, ai poveri è annunciata la buona notizia. 23E beato è colui che non trova in me motivo di scandalo!».

Come tutti gli evangelisti Luca gioca molto sulla terminologia del tempo. La locuzione “in quello stesso momento” indica un passaggio importante, significa che c’è un’ala dello Spirito Santo che passa di lì, che quella cosa succede non a caso in quel momento. Mi colpisce molto il fatto che in tutto questo testo la terminologia del vedere è reiterata; anche tra le malattie si nominano solo la cecità e la lebbra. Si ripete più volte “i ciechi riacquistano la vista” e si domanda: “Chi siete andati a vedere?”. Il vedere è centrale perché è proprio un altro sguardo: cosa vediamo? Quanto siamo ciechi?

È chiaro che Gesù compie degli atti e come prima risposta non offre parole, ma azioni: guarisce da malattia e infermità, da spiriti cattivi e dona la vista. Non è casuale. Malattia e infermità rappresentano quel che ci da fastidio, gli spiriti sono quelli che ammalano il nostro cuore e la cecità è il nostro rapporto con il mondo, è quel che vediamo. Gesù compie questi tre gesti. Prima ci toglie quel che ci da dolore, poi converte il cuore e infine ci regala un altro sguardo. Queste tra l’altro sono esattamente le indicazioni per il percorso di conversione.

Dopo aver agito, Gesù risponde a parole: “Andate e riferite a Giovanni quel che avete visto e udito. I ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono purificati, i sordi odono, i morti risuscitano, ai poveri è annunciata la buona notizia. E beato è colui che non trova in me motivo di scandalo”. Alla domanda “Dobbiamo aspettare?” la risposta è “Beato colui che non trova in me motivo di scandalo”.

Al che ci si domanda: “Ma come, se fa tutto questo bene visto che ha appena resuscitato un ragazzo e guarito il servo di un centurione perché dovremmo trovare motivo di scandalo?”. Il bene secondo l’evangelo dà scandalo, solo i poveri sono in grado di non scandalizzarsi perché hanno così bisogno che il bene li guarisca che non si chiedono se è giusto, sbagliato, ecc… Ci ho riflettuto la prima volta leggendo questo testo. Pensiamo a tutte le discussioni riportate nel Vangelo in merito ai farisei, che polemizzano perché Gesù guarisce di sabato e a loro Gesù risponde “Ma è più importante l’uomo o il sabato?”. Pensiamo a come potremmo comprendere noi oggi questa cosa: “Cos’è per noi il sabato?”. È opportuno o no? È educativo o no? È corretto o no? I poveri non si scandalizzano del bene ricevuto perché ne hanno bisogno e sono consapevoli del loro bisogno, sono ciechi, malati o in lutto per il figlio; sono allo sbando e non vanno troppo per il sottile. Il lusso di scandalizzarsi del bene attiene ai ricchi che è uno dei motivi per cui nel Vangelo si dice “È più facile che un cammello passi nella cruna di un ago che un ricco entri nel Regno dei Cieli”. Perché i ricchi si scandalizzano del bene.

24Quando gli inviati di Giovanni furono partiti, Gesù si mise a parlare di Giovanni alle folle: «Che cosa siete andati a vedere nel deserto?

Ancora una volta c’è un ennesimo gioco di specchi. Gesù parla con le folle di Giovanni, quindi c’è un ennesimo gioco di rifrazione della luce. Le cose giuste, vere, che hanno una struttura troppo lineare in cui si pensa e si trova una risposta sono quelle di cui non bisogna fidarsi, perché la verità della vita non funziona così, richiede sempre percorsi tortuosi. Ci si arriva di sbieco, al contrario, dopo aver sbattuto la testa, si arriva per via di negazione. Il resto si chiama ideologia e non è la verità ma un’altra cosa. Gesù parla con la folla di Giovanni; questa è l’immagine della conversazione. Questo testo è incredibile, dà veramente l’immagine di Chiesa. Tutti parlano con tutti, Gesù opera meraviglie e tutti cercano di riconoscere, vedere, capire. E apparentemente perdono tempo in discussioni ma è l’unica cosa che possono fare. “Che cosa siete andati a vedere nel deserto?”. Questo credo sia il versetto che mi accompagnerà nella Settimana Santa che sta per iniziare, lo trovo incredibile. È esattamente il parallelo di “Sei tu o dobbiamo aspettare un altro?”. È sempre la stessa questione. Cosa vogliamo vedere? Da dove ci aspettiamo i segni di Gesù, della sua resurrezione, del fatto che abbiamo fatto bene a fidarci di lui, della benedizione della nostra vita, della beatitudine, della gioia, del fatto che i ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono purificati, i sordi odono, i morti risuscitano, ai poveri è annunciata la buona notizia? Cosa siamo andati a vedere? Cosa guardiamo? Credo che questa, per un adulto, sia una domanda gigantesca. Quale realtà vedo? Cosa mi aspetto di vedere? Nel 90% dei casi le nostre delusioni dipendono dalle aspettative. I bambini invece provano meraviglia, perché non hanno aspettative. Non avendo competenze sul futuro e vivendo un immenso presente, ogni cosa che arriva è una meraviglia.

25Allora, che cosa siete andati a vedere? Un uomo vestito con abiti di lusso? Ecco, quelli che portano vesti sontuose e vivono nel lusso stanno nei palazzi dei re. 26Ebbene, che cosa siete andati a vedere? Un profeta? Sì, io vi dico, anzi, più che un profeta. 

Riflettendo su questo testo ho pensato che una traduzione molto concreta potrebbe stare nella domanda: se dovessi morire questa sera, sarei contenta della mia vita? Cosa volevo fare? Quando poi mi arrabbio perché qualcosa va storto o faccio troppa fatica, la domanda è: cosa volevo davvero? È una domanda concreta. Volevo diventare professore ordinario di Teologia? Forse sì e ormai non faccio più in tempo per motivi di età. Ma era davvero questo che volevo fare? O quello era il mezzo per potermi occupare di teologia a tempo pieno, avere studenti, cercare di trasmettere la passione delle cose che amo? Non sono diventata professore ordinario e probabilmente non lo diventerò mai ma in fondo sto facendo questo, in un modo che non era per me prevedibile. Dunque, è tanto grave se non divento professore ordinario? No.

Cosa vogliamo vedere? Questa è la grande domanda. Cosa siamo andati a vedere nel deserto? Chiunque abbia fatto un po’ di esperienza parrocchiale da ragazzo ricorda bene l’esperienza “inflitta” del deserto. Non so voi, ma io mi chiedevo sempre a cosa avrei dovuto pensare. Perché il deserto, aldilà della poesia, è solo un posto vuoto. Il problema sta in cosa uno va a cercare nel deserto. In questo testo ho capito che il mio deserto di ragazzina non funzionava, perché nessuno mi ha mai spiegato che dovevo chiedermi cosa stavo cercando. Oggi, nel deserto della biblioteca dell’Università Gregoriana io so cosa cercare; non ho il problema di non sapere a cosa pensare, anzi non mi basta il tempo. E forse nel deserto di certe serate in cui i bambini non vanno a letto e non se ne può più, forse bisogna chiedersi cosa si sta andando a cercare. Cosa si va a vedere nel deserto? Come ormai avrete capito, questa domanda mi ha davvero appassionata. Gesù dice che andando a trovare Giovanni si è trovato davanti “più che un profeta”. Chi erano i profeti? In ebraico il profeta, Navi’, è colui che vede; non è uno che predice il futuro con la sfera di cristallo, ma è uno che partendo dai dati della realtà vede qual è il rischio. Il mio professore di Antico Testamento faceva questo esempio: il profeta è come l’insegnante che a metà anno scolastico richiama lo studente che va male a scuola e gli dice: “se continui così sarai bocciato”. Non è una previsione sul futuro di tipo magico ma è una constatazione dei fatti che contiene anche un avvertimento. Il profeta dunque è colui che vede, osserva un po’ da distante, dall’alto. È colui che dice: le premesse sono gravi e pongono questo esito, cosa vogliamo fare?

Gesù però dice che Giovanni è “più che un profeta”.

27Egli è colui del quale sta scritto: Ecco, dinanzi a te mando il mio messaggero, davanti a te egli preparerà la tua via.

Giovanni non vede solo cosa sta per accadere, ma crea le condizioni. Tra l’altro è chiamata nello stesso modo la funzione profetica della Chiesa. Attraverso la Parola di Dio la Chiesa crea le condizioni perché la conversione dei suoi figli sia possibile. E Gesù conclude

28Io vi dico: fra i nati da donna non vi è alcuno più grande di Giovanni, ma il più piccolo nel regno di Dio è più grande di lui.

È una frase pesante. Nessuno è più grande di Giovanni ma nel Regno di Dio, ovvero dove si vedono le cose da un altro punto di vista, il più piccolo del Regno è più grande di lui.

29Tutto il popolo che lo ascoltava, e anche i pubblicani, ricevendo il battesimo di Giovanni, hanno riconosciuto che Dio è giusto.30Ma i farisei e i dottori della Legge, non facendosi battezzare da lui, hanno reso vano il disegno di Dio su di loro».

Il popolo che lo ascoltava, anche i pubblicani, andati da Giovanni si sono fatti battezzare, ma i farisei, i dottori della Legge, non facendosi battezzare hanno reso vano il disegno di Dio su di loro. Assumere un altro sguardo, anche se sei un pubblicano, fa funzionare il disegno di Dio. Rimanere nel proprio sguardo e non assumere la provocazione di Giovanni, rende vano il piano di Dio su di noi. E poi dunque la questione che vorrei tanto riuscire ad avere il tempo per farla sentire in tutta la sua forza.

31«A chi dunque posso paragonare la gente di questa generazione? A chi è simile? 32È simile a bambini che, seduti in piazza, gridano gli uni agli altri così: “Vi abbiamo suonato il flauto e non avete ballato, abbiamo cantato un lamento e non avete pianto!”.

A me sembra che questo sia il peggior rimprovero che possa essere fatto da parte di Gesù. Per peccatori, donne, stranieri, pubblicani, ha parole di misericordia mentre il peggio che ci può succedere è di essere gente a cui Dio suona il flauto e non balliamo, a cui Dio canta un lamento e non piangiamo. Il peggior rimprovero è a chi è sordo e cieco di fronte alla realtà. E mi sembra tra l’altro che in questo momento storico ed ecclesiale ci vuole proprio lo stomaco forte per essere sordi e ciechi o per accodarsi alla gran massa dei lamentosi o dei demagogici o degli ideologici. Qui invece Dio sta suonando il flauto e cantando un lamento; bisogna ballare e piangere. Bisogna davvero mettersi in gioco con potenza e con forza.

33È venuto infatti Giovanni il Battista, che non mangia pane e non beve vino, e voi dite: “È indemoniato”. 34È venuto il Figlio dell’uomo, che mangia e beve, e voi dite: “Ecco un mangione e un beone, un amico di pubblicani e di peccatori!”. 

È esattamente il tipo di discorsi che sentiamo sul posto di lavoro, al bar, al mercato: tanto sono tutti uguali, tanto non si cambia niente, ecc… è l’autoassoluzione di chi non ha intenzione di guardare la realtà.

35Ma la Sapienza è stata riconosciuta giusta da tutti i suoi figli».

Ci vuole sapienza. Questo è quel che ci viene richiesto. Riconoscere la sapienza, vederla, avere un altro sguardo e riprendere forza, non solo per ballare ma anche per piangere se serve. Non c’è solo il flauto, ci sono anche i lamenti, ma per piangere con chi piange, per ballare con chi balla, per riconoscere che Giovanni che non mangia pane e non beve vino è un asceta e che il Figlio dell’Uomo che mangia e beve è uno pieno di umanità, per riconoscere che le cose sono diverse e che il gioco degli specchi ci costringe a parlare tra di noi, a dirci gli uni gli altri “È lui, non è lui, è questo o non è questo; dobbiamo aspettare? Dobbiamo decidere?”. È quello che ci fa esplodere il narcisismo individualista in cui ciascuno di noi rischia di rinchiudersi con le sue frasi fatte, tipo “Tanto non cambia niente”.

È la provocazione a essere una generazione che ricostruisce un tessuto di relazioni. Non è un caso che il capitolo si concluda con il racconto della peccatrice. Gesù offre un altro sguardo a Simone su quel che sta accadendo, gli chiede di vedere quel che c’è da vedere e non solo una donna peccatrice; gli chiede di vedere la danza che Dio sta imbastendo, che è il perdono dei peccatori. Ed è chiaro, lo scandalo è sulla soglia; il capitolo si conclude con:

I commensali cominciarono a chiedersi: chi è costui che perdona anche i peccati?

Questo porterà alla morte di Gesù, ucciso come peccatore e bestemmiatore perché scandalizzarsi di lui è facile, è un’altra logica.

Spero che anche a voi questo testo faccia compagnia nella Settimana Santa perché pur non essendo un testo per la Pasqua è molto pasquale, molto potente.

Fossano, 12 aprile 2014

(testo non rivisto dal relatore)

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