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12 Febbraio 2022
Stella Morra

5. Di malattie, di tempesta, di sequele e di demoni

Commento a: Mt 8, 14-34


Nel nostro percorso stiamo riflettendo su “Io siamo”, su questo passaggio dall’Io al Noi, alla possibilità di sentirci “parte di”. Una delle questioni venute fuori nei ragionamenti dell’ultimo incontro intermedio era proprio questa, cioè che questa piccola esperienza di Lectio, a modo suo e con tutti i suoi limiti, per molti di noi sta diventando fortemente un’esperienza di Noi. Un legame significativo che esiste anche se alcuni di noi vivono abbastanza distanti e magari non si vedono se non in questa occasione, eppure questa visione collettiva crea un legame. Direi di tenere questa cosa sullo sfondo, poi magari la riprenderemo in uno degli altri confronti perché dal mio punto di vista è un dato abbastanza significativo.

Tradizionalmente in questo percorso di Lectio i primi quattro incontri sono relativi a testi dell’AT, cioè che in qualche modo mirano a descrivere più antropologicamente delle costanti umane e delle dinamiche proprie del tema di cui ci occupiamo di volta in volta, mentre i secondi quattro incontri si concentrano più su un dato Cristologico. Questo non per dirne la differenza, come se quello che c’era prima non contasse, ma per dire che in quel radicamento umano, in quelle dinamiche che sono comuni agli uomini ed alle donne che vivono, si radica una buona notizia, cresce una pianta in più, un altro punto di vista. Anche qui io ho sempre provato una grande diffidenza perché in Teologia c’è un linguaggio molto approssimativo su questa cosa; si parla spessissimo di Gesù come pienezza dell’umano, come modello dell’umano, quasi in termini quantitativi.

Di per sé l’idea è un’altra, cioè che c’è un terreno fertile che, come tutti i terreni fertili, può portare frutti molto diversi e c’è l’incarnazione che abbiamo celebrato a Natale. È la semina di un seme nuovo, in qualche modo di interruzione, che però in questo terreno fertile dell’umanità porta frutti inconsueti, porta un’altra logica, una vita che certo è la vita della terra (ogni frutto nasce dalla terra), ma è anche di più perché nessuno di noi può mangiare terra. Ci nutriamo di bellezza raccogliendo i fiori che dalla terra nascono, e in qualche modo il rapporto tra cristologia e antropologia sta in questa relazione. Non è un accrescimento quantitativo per cui gli esseri umani sarebbero belli buoni e funzionanti perché Dio li ha creati così, ma che arrivano fino ad un certo punto. Poi, allora, c’è l’annuncio cristologico che è la pienezza, nel senso che riempie il vaso che è mezzo vuoto, piuttosto è proprio una relazione di terra e di germinazione di novità dalla terra.

È il solito discorso dell’eccedenza che abbiamo fatto tante volte: la buona notizia è un’eccedenza, una buona notizia è dire “tu non sei solo terra”, la terra può portare frutti che nemmeno sospettava di poter portare. Tu hai nutrimento e linfa per una vita più grande di te, per un qualcosa che ti supera, ti attraversa e ti fa fiorire in un’altra dimensione. Da questo punto di vista i secondi quattro incontri sono intorno ai temi del NT nella direzione di vedere da questa terra che abbiamo un po’ scavato che cosa nasce. Anche in questo senso iniziamo dicendo che stiamo tutti un po’ sperimentando, anche in modo molto strano e umanamente non comprensibile, così nell’immediato, dalla condivisione della parola di Dio si genera un noi quasi gratuito, che non è costruito.

Abbiamo visto bene nel proemio della Lectio il tema del “non trattenere”, un noi che non trattiene. Poi abbiamo visto quei tre passi che sono molto tipici del credo della vita di ciascuno di noi: una vita troppo individualisticamente intesa diventa una vita incastrata, che incastra sé e gli altri. Successivamente abbiamo parlato dell’ambiguità e dell’ambivalenza dei legami nel testo di Osea. I legami sono importanti, tutti ne riconosciamo la bellezza, il nutrimento, la forza, la positività ma, contemporaneamente, i legami hanno sempre un’ambiguità. Con il testo di Isaia abbiamo affrontato il tema del riposo, l’ambiguità stanca, non c’è niente da fare. L’ambiguità dei legami è faticosa perché in qualche modo costringe ad una continua vigilanza, alle sentinelle che devono stare sveglie tutta la notte e non bisogna prendersi riposo se si vuole essere una terra fertile, diventare un’umanità che può in qualche modo andare oltre a se stessa.

La lectio di oggi

Il testo di oggi è tratto dal capitolo 8 di Matteo. Sembra un testo strano, forse chi gli ha già dato un’occhiata si è chiesto perché abbia messo tutti questi versetti insieme: li ho messi perché sono come i pezzetti di un mosaico dal versetto 14 al 34 e di per sé continuerebbe fino al versetto 34 del capitolo 9 ma diventava veramente troppo lungo. Sono dei pezzetti messi insieme come uno scenario, narrativamente sono tutti pezzetti diversi ma insieme costruiscono un profilo. È esattamente quello che dicevo prima rispetto all’intervista del Papa: noi potremmo prendere frase per frase, ce ne sono alcune veramente belle che meritano di venir conservate in cuore, ma questione è lo scenario che viene fuori, il suo stile, il suo approccio. Per esempio, il non avere usato concetti religiosi per nascondersi, avere detto apertamente rispetto al problema del male “non so e forse nemmeno Gesù lo sa”, anche solo questa postura di cercare di non dare una ragione giustificativa, non usare un concetto: avrebbe potuto cominciare a fare tutta una teoria sul peccato originale e la libertà dell’uomo che poi sarebbe risultata incomprensibile agli uomini ed alle donne di questo tempo, avrebbe potuto cercare di uscire con maggiore eleganza sua rispetto al dire “non lo so”. Da questo punto di vista è lo scenario che viene fuori ad essere più interessante dei singoli pezzi. Allo stesso modo il testo di oggi ci offre uno scenario in una specie di sguardo generale su Gesù ed è interessante nell’architettura di Matteo, perché prima di prima di questi capitoli lui mette quelli del discorso della montagna, che inizia con le beatitudini. Per vari capitoli successivi c’è tutto un gioco in cui Gesù parla con la folla ma parla anche con i discepoli e che fa delle distinzioni. Dopo c’è tutto il lunghissimo discorso sulla legge, che dura tre capitoli, in cui in qualche modo c’è una specie di manifesto, di vision, di dove si sta andando a parare, del perché di tutta questa storia e di cosa sta per succedere.

Tutti abbiamo sicuramente letto o sentito spiegare il discorso della montagna, è un po’ lo sguardo ampio ed è molto interessante nell’architettura di Matteo che dopo questi capitoli di un lungo discorso vengano i capitoli 8 e 9, che sono capitoli di fatti e non di discorsi e sono come un rimettere la vita al centro. È come dire “ok, vi ho spiegato ma tanto non c’è speranza che capiate, non è ancora venuto lo Spirito e non capite, vi faccio vedere”. Come fa vedere? Con questi frammenti che vedremo uno alla volta vanno a cogliere i fatti concreti, scegliendo alcuni fatti e non altri, i punti nodali dell’essere Io e dell’essere Noi, vanno proprio ad infilarsi come la Parola di Dio che si infila come una spada tra il midollo e l’osso, vanno ad infilarsi in alcune strutture fondamentali, che sono quelle che ci attraversano tutti.

Il testo: Mt 8, 1-34

8 1Il Scese dal monte e molta folla lo seguì. 2Ed ecco, si avvicinò un lebbroso, si prostrò davanti a lui e disse: «Signore, se vuoi, puoi purificarmi». 3Tese la mano e lo toccò dicendo: «Lo voglio: sii purificato!». E subito la sua lebbra fu guarita. 4Poi Gesù gli disse: «Guàrdati bene dal dirlo a qualcuno; va’ invece a mostrarti al sacerdote e presenta l’offerta prescritta da Mosè come testimonianza per loro».

5Entrato in Cafàrnao, gli venne incontro un centurione che lo scongiurava e diceva: 6«Signore, il mio servo è in casa, a letto, paralizzato e soffre terribilmente». 7Gli disse: «Verrò e lo guarirò». 8Ma il centurione rispose: «Signore, io non sono degno che tu entri sotto il mio tetto, ma di’ soltanto una parola e il mio servo sarà guarito. 9Pur essendo anch’io un subalterno, ho dei soldati sotto di me e dico a uno: «Va’!», ed egli va; e a un altro: «Vieni!», ed egli viene; e al mio servo: «Fa’ questo!», ed egli lo fa».

10Ascoltandolo, Gesù si meravigliò e disse a quelli che lo seguivano: «In verità io vi dico, in Israele non ho trovato nessuno con una fede così grande! 11Ora io vi dico che molti verranno dall’oriente e dall’occidente e siederanno a mensa con Abramo, Isacco e Giacobbe nel regno dei cieli, 12mentre i figli del regno saranno cacciati fuori, nelle tenebre, dove sarà pianto e stridore di denti». 13E Gesù disse al centurione: «Va’, avvenga per te come hai creduto». In quell’istante il suo servo fu guarito.

14Entrato nella casa di Pietro, Gesù vide la suocera di lui che era a letto con la febbre. 15Le toccò la mano e la febbre la lasciò; poi ella si alzò e lo serviva.

16Venuta la sera, gli portarono molti indemoniati ed egli scacciò gli spiriti con la parola e guarì tutti i malati, 17perché si compisse ciò che era stato detto per mezzo del profeta Isaia:

Egli ha preso le nostre infermità

e si è caricato delle malattie.

18Vedendo la folla attorno a sé, Gesù ordinò di passare all’altra riva. 19Allora uno scriba si avvicinò e gli disse: «Maestro, ti seguirò dovunque tu vada». 20Gli rispose Gesù: «Le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo».

21E un altro dei suoi discepoli gli disse: «Signore, permettimi di andare prima a seppellire mio padre». 22Ma Gesù gli rispose: «Seguimi, e lascia che i morti seppelliscano i loro morti».

23Salito sulla barca, i suoi discepoli lo seguirono. 24Ed ecco, avvenne nel mare un grande sconvolgimento, tanto che la barca era coperta dalle onde; ma egli dormiva. 25Allora si accostarono a lui e lo svegliarono, dicendo: «Salvaci, Signore, siamo perduti!». 26Ed egli disse loro: «Perché avete paura, gente di poca fede?». Poi si alzò, minacciò i venti e il mare e ci fu grande bonaccia. 27Tutti, pieni di stupore, dicevano: «Chi è mai costui, che perfino i venti e il mare gli obbediscono?».

28Giunto all’altra riva, nel paese dei Gadarèni, due indemoniati, uscendo dai sepolcri, gli andarono incontro; erano tanto furiosi che nessuno poteva passare per quella strada. 29Ed ecco, si misero a gridare: «Che vuoi da noi, Figlio di Dio? Sei venuto qui a tormentarci prima del tempo?».

30A qualche distanza da loro c’era una numerosa mandria di porci al pascolo; 31e i demòni lo scongiuravano dicendo: «Se ci scacci, mandaci nella mandria dei porci». 32Egli disse loro: «Andate!». Ed essi uscirono, ed entrarono nei porci: ed ecco, tutta la mandria si precipitò giù dalla rupe nel mare e morirono nelle acque. 33I mandriani allora fuggirono e, entrati in città, raccontarono ogni cosa e anche il fatto degli indemoniati. 34Tutta la città allora uscì incontro a Gesù: quando lo videro, lo pregarono di allontanarsi dal loro territorio.

Commento

8 1Il Scese dal monte e molta folla lo seguì. 2Ed ecco, si avvicinò un lebbroso, si prostrò davanti a lui e disse: «Signore, se vuoi, puoi purificarmi». 3Tese la mano e lo toccò dicendo: «Lo voglio: sii purificato!». E subito la sua lebbra fu guarita. 4Poi Gesù gli disse: «Guàrdati bene dal dirlo a qualcuno; va’ invece a mostrarti al sacerdote e presenta l’offerta prescritta da Mosè come testimonianza per loro».

Questo è il primo frammento, l’ingresso, è il primo fatto che consente di fare carne al discorso della montagna. Non è poco, perché la questione che è messa proprio come ingresso, perché il discorso possa entrare nelle vite, è la questione di un lebbroso. Sapete tutti che nell’antichità la lebbra veniva considerata l’impurità per eccellenza e per motivi sanitari, in particolare per il popolo ebraico, questa comportava l’esclusione radicale. Il lebbroso è uno che necessariamente sta da solo e se non sta da solo sta con altri lebbrosi, anzi, secondo il Levitico deve suonare il campanello perché la gente si allontani al suo passaggio ed ha tutta una serie di prescrizioni finalizzate all’esclusione.

La prima porta perché il discorso della montagna diventi carne e vita delle persone è Gesù che scende dal monte e va in pianura, non parla più con i discepoli, ma c’è una grande folla, cioè ad un noi che non è più quello identitario dei discepoli ma è il noi della vita com’è, il noi della gente che sta insieme perché è lì. E il primo a rivolgersi a Gesù è proprio un lebbroso, un escluso, il non-noi per eccellenza, colui che non può dire mai noi, e gli fa una domanda che se letta bene è molto strana. In altri miracoli chi chiede un miracolo domanda “Signore, ridammi la vista…”, “Signore, guariscimi…”, una domanda autoreferenziale, ma questo uno che è l’escluso ha una domanda di noi e dice:

«Signore, se vuoi, puoi purificarmi»

Se vuoi, puoi togliermi dal circuito dell’esclusione, puoi rimettermi dentro un noi rendendomi puro, ma questo se tu vuoi. È proprio il gesto della fede radicale, l’affidamento al desiderio dell’altro, non alla legge, né alla giustizia, né alla misericordia, ma al desiderio dell’altro. Ci va un bel fegato, non è una cosa banale.

3Tese la mano e lo toccò

Gesù fa un gesto che è il gesto in assoluto più contrario a tutte le leggi dell’esclusione e della purezza. Anche solo parlare con un lebbroso intacca la purezza di Gesù, ma il toccarlo lo mette anche a rischio di contrarre la malattia. Chi toccava un impuro poi doveva avere quella che al giorno d’oggi chiameremo una quarantena, cioè doveva a sua volta assumersi un’esclusione. Qui mi veniva in mente quanto detto da Papa Francesco durante l’intervista, cioè che farsi carico dell’altro vuol dire toccarlo e non solo dire “ah poverino”, proprio toccarlo. Gesù tocca il lebbroso e gli dice:

«Lo voglio: sii purificato!»

Qui c’è molto più di un miracolo e di una guarigione, c’è lo scambio di un desiderio, l’affidamento del lebbroso nella sua esclusione provoca in Gesù un desiderio così potente di reimmetterlo in un circuito del noi che lo tocca. Fa un noi prima ancora di averlo guarito e se ci pensate è l’altra faccia del gesto dell’emorroissa, l’altra impura per eccellenza, che è lei a toccare il mantello di Gesù e non viceversa, perché non ha nemmeno più una parola ed ha speso talmente tutto il suo sangue per cercare di essere reimmessa in un noi che non ha più parole e tocca il mantello di Gesù. Potrei rimanere sul tema del toccare molto a lungo, vi faccio solo notare un giochetto di parole che fa spesso Andrea Grillo, che trovo molto efficace: contatto vuol dire con-tatto, non è solo toccarsi, è con garbo. Toccarsi è un atto di fuoco, un atto pesante, l’abbiamo tutti vissuto in pandemia il peso del non potersi abbracciare, ma ci va tatto per avere un con-tatto e non vuol dire soltanto il senso del tatto, ma anche il garbo, perché il tatto conta più di ogni parola.

E subito la sua lebbra fu guarita.

Questo reinserimento nel noi avviene prima della guarigione, quando Gesù lo tocca. Avviene sulla fiducia come sulla fiducia il lebbroso ha chiesto. Può diventare pubblico perché è guarito, infatti Gesù gli dice di mostrarsi ai sacerdoti, cioè compiere l’atto per cui pubblicamente sarebbe reimmesso nel noi, ma gli dice anche:

«Guàrdati bene dal dirlo a qualcuno; va’ invece a mostrarti al sacerdote e presenta l’offerta prescritta da Mosè come testimonianza per loro».

Chiede di non fare ciò che era in parte legge ed in parte prassi, cioè di rendere pubblica la notizia. Un’esclusione così pubblica in un posto così piccolo come era Israele allora richiedeva che l’inclusione fosse resa nota e cioè che se uno fosse guarito e i sacerdoti l’avessero riconosciuto come tale si dicesse a tutti “guardate è guarito, potete riammetterlo”. Gesù gli dice di stare zitto perché vuole rompere la grande questione che c’è sotto: la porta per cui il discorso della montagna può diventare vita e carne è una porta che comporta la rottura della logica del puro e dell’impuro, non ci deve più essere un discorso pubblico che basi inclusione ed esclusione in base a puro ed impuro, questa è la porta. La purezza non è più un problema.

Questo frammento dice scendi dal monte, abbandona il discorso ristretto, entra nella vita com’è, la folla lo accoglie, ed è carino che il frammento successivo dica:

5Entrato in Cafàrnao

Cafarnao è tra le genti, è fuori dalle mura, lontano dal tempio, fuori dalla purezza rituale dell’ebraismo. È la Galilea delle genti, infatti:

5Entrato in Cafàrnao, gli venne incontro un centurione

Dunque uno straniero, non un ebreo e per di più un militare oppressore, cioè proprio quello che non è assolutamente noi. Non si poteva proprio essere conniventi con un oppressore romano.

che lo scongiurava e diceva: 6«Signore, il mio servo è in casa, a letto, paralizzato e soffre terribilmente».

Ancora una volta la domanda è posta benissimo: non chiede per sé, chiede per il proprio servo e per la sofferenza del proprio servo, cioè è uno laicamente serio. È una terra buona piena di hummus per cui il servo non è solo uno che serve, a lui ma è qualcuno di cui lui si fa carico. Come nella miglior tradizione delle civiltà antiche in cui il buon padrone era un padrone che aveva cura dei suoi servi. Gli dice che il suo servo sta tanto male e Gesù risponde Verrò e lo guarirò e il centurione risponde con quella frase che diciamo sempre prima della Comunione:

8Ma il centurione rispose: «Signore, io non sono degno che tu entri sotto il mio tetto, ma di’ soltanto una parola e il mio servo sarà guarito. 9Pur essendo anch’io un subalterno, ho dei soldati sotto di me e dico a uno: «Va’!», ed egli va; e a un altro: «Vieni!», ed egli viene; e al mio servo: «Fa’ questo!», ed egli lo fa».

Il centurione ragiona in modo laico, non vuole mettere Gesù in difficoltà facendolo entrare nella casa di un pagano, rispetta una purezza che non condivide, cioè la purezza ebraica, rispetta la differenza ma ha fatto i conti con il proprio potere ed il potere altrui. Dice:

9Pur essendo anch’io un subalterno, ho dei soldati sotto di me e dico a uno: «Va’!», ed egli va; e a un altro: «Vieni!», ed egli viene; e al mio servo: «Fa’ questo!», ed egli lo fa».

Se volete la prima porta è l’abbattere la logica dell’esclusione causata da purezza e dell’impurità ,ma la seconda soglia è fare i conti con il potere, ed in particolare con il potere della parola, riconoscerlo sapientemente senza false modestie. Mi piacerebbe molto che d’ora in avanti tutte le volte che uno di noi dirà prima dell’eucarestia “Signore, non sono degno di…” non lo vivesse come un esercizio di falsa, o più, o meno sincera modestia, del tipo “me tapino…tu sei meraviglioso…”, ma si sentisse un laico centurione che rispetta la diversità del sacro, la diversità di Dio, e che rispettandola sa che l’essere degni o no non esclude ma include perché c’è una potenza della Parola di Dio, e della sua carne condivisa con noi che guarisce. Siamo gente in piedi che può dire “tranquillo, so che tu hai un’altra misura ed io non arrivo a quella misura”.

Nell’angelus del 2 gennaio scorso, il Papa ha detto una cosa che mi ha fatta tanto ridere, ma anche tanto pensare. Ha detto che bisogna sempre pregare il Signore perché resti vicino, ma non pregarlo perché sia troppo dentro alle nostre stalle interiori. Perché ci sono tempi della nostra vita in cui nessuno di noi è in grado di affrontare la nostra stalla interiore e migliorarla, quindi bisogna dire a Dio “ok stai qua, resta a portata di voce, ma adesso stai calmino che per adesso non ce la faccio”. C’è una grande dignità in questo, so dove sono io e so dov’è lui, rispetto le misure, ma sono certo della potenza della parola e della carne del Signore.

10Ascoltandolo, Gesù si meravigliò e disse a quelli che lo seguivano: «In verità io vi dico, in Israele non ho trovato nessuno con una fede così grande!

Essere un noi non è una questione di appartenenza, non importa se noi siamo figli di Abramo o siamo cattolici, il problema è una fede così grande, non una questione di appartenenza ma di realtà, di come agiamo la nostra vita. Il centurione non invoca una legge religiosa ma semplicemente l’esperienza che ha, il sapere qualcosa di sé, lui sa che benché non sia l’imperatore ha un potere di comando.

11Ora io vi dico che molti verranno dall’oriente e dall’occidente e siederanno a mensa con Abramo, Isacco e Giacobbe nel regno dei cieli,

C’è un noi del regno dei cieli che si nutre da Oriente ad Occidente, che non ha bisogno di un’altra vita ma a cui bastano le vite che abbiamo. L’essere uno che è un subalterno ma se dice a qualcuno “vai”, quello va.

12mentre i figli del regno saranno cacciati fuori, nelle tenebre, dove sarà pianto e stridore di denti».

Non è una questione di appartenenza, è una questione di realtà, di qualità delle vite.

13E Gesù disse al centurione: «Va’, avvenga per te come hai creduto». In quell’istante il suo servo fu guarito.

Attenzione, non dice “va’, avvenga di te come hai chiesto”, gli dice “come hai creduto”. Penso spesso questa cosa, il giudizio finale sarà una cosa più o meno analoga: ci sarà dato esattamente ciò che siamo stati capaci di desiderare e questo può essere molto rischioso. Avverrà quello che abbiamo creduto e quindi bisogna un po’ esagerare nel credere perché se no alla fine ci troviamo con un mucchietto di niente in mano.

Terza scena, ricapitolando in modo breve: il noi religioso su cui si spacca puro e impuro, il noi vitale su cui si spaccano le logiche di potere e poi arriva il noi degli affetti, quello che a noi sta più stretto e ci sembra più o meno inevitabile.

14Entrato nella casa di Pietro, Gesù vide la suocera di lui che era a letto con la febbre. 15Le toccò la mano e la febbre la lasciò; poi ella si alzò e lo serviva.

Nel noi degli affetti non serve nemmeno chiedere, Gesù guarda e vede perché gli affetti ci rendono vedenti, non sempre e non bene, ogni tanto siamo un po’ miopi ed ogni tanto ci confondiamo, infatti negli affetti umani un po’ di parole servono perché non siamo ancora Gesù, non abbiamo lo sguardo così limpido, ma di per sé il noi degli affetti è un noi che vede, un noi che vedendo tocca e toccando guarisce. Il noi diventa un servizio reciproco, il noi guarito è un noi che serve.

Non so se sono riuscita a darvi un po’ l’idea di questi tre cerchi concentrici, questi tre episodi niente affatto scollegati tra di loro ma veramente tre cerchi concentrici di un noi che è l’incarnazione dei “beati i puri di cuore…beati i poveri ecc..”

Dopo questi tre cerchi concentrici che ci fanno entrare si arriva al nucleo duro, alla questione delle questioni:

16Venuta la sera, gli portarono molti indemoniati ed egli scacciò gli spiriti con la parola e guarì tutti i malati, 17perché si compisse ciò che era stato detto per mezzo del profeta Isaia:

Egli ha preso le nostre infermità

e si è caricato delle malattie.

Abbiamo avuto tre volti: un lebbroso, un centurione e la suocera di Pietro, senza nomi propri e senza individualismo ma tre volti di quella folla che l’ha accolto allo scendere dal monte. Qui torniamo nella folla, gli portarono gli indemoniati cioè il nucleo duro, non ciechi, zoppi o muti ma indemoniati. Sappiamo tutti che se il Vangelo fosse scritto da un medico di oggi avrebbe scritto epilettici o psichiatrici e non indemoniati, il genere letterario dell’antichità parla di posseduti dal demonio ma di cosa si sta parlando? Si sta parlando di un male profondo che sconvolge e travolge l’identità, di quel male che non ti lascia più spazio per essere te, mai, in cui percezione, almeno nel racconto, è di gente che parla con un’altra voce e vedremo che alla fine, dopo il cuore del testo che è subito dopo, questi capitoli si chiuderanno con un altro episodio di indemoniati.

gli portarono molti indemoniati ed egli scacciò gli spiriti con la parola e guarì tutti i malati,

È una grande operazione di guarigione di fronte alla folla, un noi di guariti che si costituisce. In fondo la pianticella che nasce dalla comune umanità è la costituzione non di un esercito dove tutti hanno le stesse idee e difendono le stesse battaglie ma la costituzione di un noi di guariti, diverso da un noi di sani. Siamo presi da qualsiasi posto in cui siamo, un popolo ebraico religioso o dalle genti pagane, con le nostre lebbre, i nostri servi, il nostro potere, la nostra vita com’è, i nostri affetti, e siamo unificati di fronte al male più radicale dall’essere un noi di guariti, un noi di fragili che hanno riconosciuto le loro fragilità qualunque esse siano (purezza, potere, affetti…) e che in qualche modo sono ricostituiti in una salute attraverso la Parola di Gesù, perché si compisse ciò che era stato detto dal profeta

Egli ha preso le nostre infermità

e si è caricato delle malattie.

Questa è la pianta nuova, il germoglio non preordinato nella terra ma seminato dal cielo, che qualcuno si faccia carico non della nostra forza ma della nostra infermità, dell’essere colui che si fa carico. Noi spesso usiamo questa frase per dire che un medico quando ti cura bene ti “prende in carico”, non ti ha solo visitato ma ti ha preso in carico e questo lo consideriamo un gran lusso. Anche un insegnante che si prende cura di uno studente diciamo che l’ha proprio preso in carico e tutti notiamo la differenza, ci sono insegnanti che fanno bene il loro lavoro e non puoi rimproverargli niente ma non si fanno carico, rimangono un passo indietro e tu senti che non è la stessa cosa, soprattutto quando più tu sei in difficoltà, quanto meno ti senti forte di tuo. Per questo beati i poveri, perché hanno delle povertà da caricare sulle spalle di qualcun altro.

Ed ecco che torna lo scenario della folla, a dimostrazione di quello che vi dicevo prima

18Vedendo la folla attorno a sé, Gesù ordinò di passare all’altra riva.

Questo versetto da noi in Piemonte è spesso citato nei ricordini da morto, per tanti secoli il morire è stato interpretato con questo modo figurato, passare all’altra riva, ma in realtà Gesù vede la folla ed in qualche modo se ne distanzia, perché la folla non è ancora un noi, non è semplicemente l’identificazione di un noi, un noi richiede delle condizioni e la folla nella sua immediatezza non ha queste condizioni: il noi non è un qualcosa che nasce automaticamente solo perché c’è un plurale.

A dimostrazione abbiamo ora i versetti che è sono uno dei due cuori dell’incarnazione del discorso della montagna.

19Allora uno scriba si avvicinò e gli disse: «Maestro, ti seguirò dovunque tu vada». 20Gli rispose Gesù: «Le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo».

21E un altro dei suoi discepoli gli disse: «Signore, permettimi di andare prima a seppellire mio padre». 22Ma Gesù gli rispose: «Seguimi, e lascia che i morti seppelliscano i loro morti».

Questo è il primo elemento, la rottura dei legami consueti, dei noi comuni. Il noi generativo (lasciami andare a seppellire mio padre), il noi con la casa (Gesù non ha più una casa) e il noi dei discepoli che è il noi che ha delle esigenze, un noi di guariti che però è disposto e disponibile a sovvertire i legami dei noi abituali, che stabilisce dei nuovi noi inclusivi. Per esempio, c’è un noi dei viventi, lascia che i morti seppelliscano i loro morti. Questo è il primo cuore: la folla generica da cui Gesù un po’ si distanzia per costituirsi come un noi passa attraverso la sequela di un noi esigente, la rottura di alcuni noi abituali, istintivi.

Poi il secondo fuoco di questa ellisse:

23Salito sulla barca, i suoi discepoli lo seguirono. 24Ed ecco, avvenne nel mare un grande sconvolgimento, tanto che la barca era coperta dalle onde; ma egli dormiva. 25Allora si accostarono a lui e lo svegliarono, dicendo: «Salvaci, Signore, siamo perduti!». 26Ed egli disse loro: «Perché avete paura, gente di poca fede?». Poi si alzò, minacciò i venti e il mare e ci fu grande bonaccia. 27Tutti, pieni di stupore, dicevano: «Chi è mai costui, che perfino i venti e il mare gli obbediscono?».

Questo testo della tempesta sedata ci ha accompagnato nel lockdown con quella bellissima meditazione di Francesco a marzo dell’anno scorso. È un testo che in questo momento di “siamo tutti sulla stessa barca” mi suona affettuosamente, ma qui c’è un’altra questione molto grossa, questo noi esigente è un noi che fa paura, e questo va detto perché è un noi in cui si accetta di attraversare una tempesta. È un noi in cui si è costretti ad accettare che Dio dorma.

Voi, che rammentate le promesse al Signore, non prendetevi mai riposo e neppure a lui date riposo, finché non abbia ristabilito Gerusalemme […] (Is 62, 6-7)

Vi ripeto il testo dell’altra volta perché Dio ogni tanto dorme o sembra dormire, un testo in cui se noi rispettiamo l’alterità di Dio, Dio rispetta la nostra alterità e ci fa misurare con le tempeste della nostra vita, rimanendo sulla nostra stessa barca. Si è caricato le nostre infermità non vuol dire che risolve tutto come in un gioco di prestigio, come Babbo Natale che mi porta i regali che chiedo, vuol dire però che non scende da quella barca, che attraversa la tempesta ma non ha paura, questa è la differenza tra noi e lui. Sul tema della paura abbiamo spesso riflettuto, è un tema molto grande e tra l’altro molto generativo e distorcente nelle nostre vite, perché la paura è un meccanismo molto strano, è l’anticipazione di un qualcosa che non c’è ancora. Più volte abbiamo riflettuto su questa cosa, quando siamo in una situazione anche difficile ma ci siamo dentro, non abbiamo paura, siamo stanchi, non sappiamo come reagire e non abbiamo le forze ma non abbiamo paura. La paura uno ce l’ha prima perché non c’è ancora la realtà, la paura si sostituisce alla realtà. Padre Cesare diceva spesso che la paura è come i buchi della gruviera, il diavolo ci mette il formaggio intorno per far credere che esistano, cioè è un qualcosa che non ha consistenza propria perché non è una realtà.

«Salvaci, Signore, siamo perduti!».

Non è vero che sono perduti, la barca non si è rovesciata, non stanno annegando ma hanno paura di essere perduti. La differenza tra noi e Dio è che Dio non ha paura e non ha paura di noi, né delle nostre cavolate. Infatti Gesù dice:

«Perché avete paura, gente di poca fede?».

Si può attraversare la tempesta che è la nostra vita, è possibile, e allora minaccia il vento e il mare. Il verbo è proprio questo anche in greco, usa una parola potente, autorevole e infatti

27Tutti, pieni di stupore, dicevano: «Chi è mai costui, che perfino i venti e il mare gli obbediscono?».

Gli avevano già obbedito i demoni, aveva guarito la lebbra, guarito il servo del centurione, guarito la suocera e si stupiscono perché placa il mare. Questi due poli, la questione della rottura di un noi precedente ed un noi senza paura in mezzo alle tempeste della vita, sono il cuore attraverso cui il discorso della montagna può diventare carne.

Dunque veniamo guidati in qualche modo verso l’uscita.

28Giunto all’altra riva, nel paese dei Gadarèni, due indemoniati, uscendo dai sepolcri, gli andarono incontro;

È il contrario della vita, escono dalle tombe, è proprio la figura che è al contrario dei viventi.

erano tanto furiosi che nessuno poteva passare per quella strada. 29Ed ecco, si misero a gridare: «Che vuoi da noi, Figlio di Dio? Sei venuto qui a tormentarci prima del tempo?».

I senza-noi, quelli che stanno tra i sepolcri perché sono senza vita, possono dire noi solo tra di loro e si relazionano con Gesù dicendo “cosa vuoi da noi? Fatti gli affari tuoi, non accelerare i tempi”.

30A qualche distanza da loro c’era una numerosa mandria di porci al pascolo; 31e i demòni lo scongiuravano dicendo: «Se ci scacci, mandaci nella mandria dei porci». 32Egli disse loro: «Andate!». Ed essi uscirono, ed entrarono nei porci: ed ecco, tutta la mandria si precipitò giù dalla rupe nel mare e morirono nelle acque.

È il male profondo, il male contro la vita, il male che non tollera i viventi, che vive nei sepolcri e si butta in mare.

33I mandriani allora fuggirono e, entrati in città, raccontarono ogni cosa e anche il fatto degli indemoniati. 34Tutta la città allora uscì incontro a Gesù: quando lo videro, lo pregarono di allontanarsi dal loro territorio.

Non sono più stupiti che abbia zittito il vento ed il mare, come i discepoli, gli dicono invece “anche no, grazie, vai da un’altra parte a fare questi giochetti”, perché reggere questo noi ci mette di fronte a questioni veramente radicali, ad accettare le tempeste, la ricostituzione dei legami, disfarne alcuni e crearne altri, ad essere in qualche modo costretti a fare i conti con la paura e con il potere e di fronte a questo uno dice “magari è meglio da un’altra parte, magari non qui”.

Io mi fermerei qua, nel senso che spero di avervi disegnato un affresco che risulti un po’ meno frammentato, più unitario. L’idea è che il noi costituito dal discorso della montagna, che si dice spesso essere il manifesto dei cristiani, la carta costituzionale, quello che ci fa Chiesa, non è un’astrazione. Immediatamente dopo, Matteo ci mostra che il centro sono i viventi, la vita com’è, nelle sue forme, ma ci sono alcuni conti da fare perché questi viventi possano diventare un noi.

Fossano, 12 febbraio 2022

Testo non rivisto dall’autore

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