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13 Novembre 2021
Stella Morra

2. Vite “incastrate”

Commento a: 1 Re 1, 1-18


È bello ritrovarsi anche in questo tempo strano e un po’ incerto, in cui siamo sempre sul surf dell’incertezza organizzativa. A maggior ragione mi sembra che il tema che ci siamo dati per quest’anno torni utile. Il titolo del ciclo è “Io siamo… tra responsabilità e storia comune”. È il passo dopo alla riflessione sulle parole per descrivere la strana situazione in cui ci siamo trovati, la fatica di ritrovare punti di riferimento. Abbiamo dovuto fare i conti con la distanza, con la differenza tra distanza e vicinanza, con la difficile arte del trovare modi perché relazioni e distanza stessero insieme. All’inizio ci sembrava abbastanza facile, grazie anche ai mezzi tecnologici. Ci troviamo in un tempo strano: avevamo immaginato che questo tempo di difficoltà sarebbe stato lungo, ma forse non pensavamo lo sarebbe stato così tanto. Pensavamo che il problema ad un certo punto si sarebbe risolto, ma poi abbiamo iniziato a dire “caspita, però, è più lungo del previsto”. Comunque, pensavamo che una volta risolto tutto sarebbe tornato come prima, e invece non si torna come prima e questo non vale nella teoria, nell’astratto e nella filosofia, ma proprio nel nostro essere al mondo, nel quotidiano. Credo che ognuno di noi stia sperimentando almeno due elementi, ciascuno secondo sé stesso. Primo: la grande fatica, il senso di affaticamento mentale e fisico, sotto tutti i punti di vista, ognuno secondo la propria biografia… siamo tutti stanchi. Secondo: questo tema di distanza/vicinanza, il non trovare le misure, non sapere mai se una cosa è troppo, o troppo poco, se sta vincendo la paura o l’incoscienza, se sto rischiando troppo oppure se sono troppo bloccato in casa.

Credo che tutti stiamo attraversando queste cose ed ognuno di noi trovi i suoi equilibri, più o meno quotidiani, con piccoli e grandi trucchi anche per ingannare sé stesso; da un certo punto di vista, per riuscire comunque a fare qualche passetto avanti, ad essere un po’ contento, a fare delle cose belle. Proprio per questo trovo che stia nascendo in tutti un sentimento di mancanza, che è il bisogno di un noi. Ne abbiamo anche parlato lo scorso anno in alcuni degli incontri online, il bisogno di un noi che però è un noi strano, che sembra non esistere, di una comunità in cui riconoscersi, ma che non ci stringa troppo; di quegli elementi che ci permettono di dire “non sono io che sono tanto stanco, o depresso, ma siamo un noi”, e che forse se riusciamo a dircelo e scambiarci un po’ di queste cose, questo noi ci consente di assumere una responsabilità comune, di andare un po’ avanti, di fare qualcosa di meglio per tutti, di immaginare ciò che in questo momento non ci sembra nemmeno immaginabile.

Questo bisogno di noi però confligge con tutte le forme di noi che stanno invece crollando e che il Covid ha sgretolato molto rapidamente. Alcune di queste avevano già cominciato a crollare già prima, ma che il Covid lo ha smascherato. I modi in cui dicevamo noi (la parrocchia, l’impegno politico, l’identificazione in alcune cose, certe passioni…) si sono tutti sgretolati velocemente, e mi pare facciamo tutti fatica a dirci che anche se il Covid è più o meno passato e si possono tornare a fare alcune cose, non è più la stessa cosa.

Michel de Certeau dice che uno spazio è un luogo abitato, un luogo fisico mentale o interiore è solo un luogo, solo nella misura in cui viene abitato, dove donne e uomini ci camminano, si vogliono bene, si incontrano, hanno un contatto, anche litigano, confliggono… solo in questo modo un luogo abitato diventa uno spazio. Lo spazio è una possibilità, diventa parte della nostra esistenza. In qualche modo abbiamo avuto dei noi che erano dei luoghi, abbiamo bisogno e desideriamo dei noi che siano degli spazi. Questo passaggio è veramente molto complesso, è un passaggio epocale, interiore ed esteriore.

Dico tutte queste cose perché sono i pensieri di fondo che hanno mosso la scelta del tema e del percorso di quest’anno: l’Evangelo è l’esperienza credente come occasione di fare del mondo uno spazio. Se volete è un modo un po’ complesso di tradurre “Fratelli tutti”; la lettera di Papa Francesco non è una generica invocazione a dire “vogliamoci tutti bene, siamo tutti fratelli, è tutto indistinto, le religioni, le diverse condizioni non contano più, perché siamo tutti fratelli, che bello…” no, non funziona così. “Fratelli tutti” è una scelta, come spesso fa Papa Francesco, che nonostante sia detta con parole molto semplici mira ad un cuore fondamentale, che è il fare del mondo uno spazio, cioè un luogo abitato, un luogo dove possiamo anche fare errori, litigare o aiutarci. Uno spazio dove possiamo vivere, prima di ogni scelta morale, e vivere come un noi condiviso. Stiamo sperimentando che recuperare questo noi condiviso non è affatto banale, non è automatico, non viene da sé. Non è come quando da ragazzini i compagni di classe erano un dato, era facile dire “quello è un mio compagno di classe” perché stava lì con noi tutte le mattine.

Un noi diventa una scelta e in questo passaggio anche una scelta significativa, una scelta per cui non abbiamo tanti strumenti, non sappiamo da dove si comincia. Le ideologie (che sono state uno dei modi che hanno reso abitati i luoghi), l’appartenenza religiosa, l’appartenenza civica, sono tutte esperienze che non funzionano più per tenerci insieme, e non sappiamo bene da che parte girarci. Nella storia della vita credente questo paradosso è stato già vissuto in altri passaggi e anche nelle linee di presentazione dicevo come i mistici di inizio ‘500/’600 abbiano vissuto un passaggio molto simile al nostro (il crollo di una civiltà e l’inizio oscuro di un’altra) hanno inventato una figura retorica per descrivere questo nuovo bisogno che non sapevano come descrivere a parole, l’ossimoro (per esempio “notte luminosa”). Io trovo che non sono più le nostre parole ad essere un ossimoro, ma sono proprio le nostre vite ad essere diventate un ossimoro. Siamo alla fine del percorso iniziato dai mistici. Siamo chiamati ad essere vicini e distanziati, noi ed io, “io siamo” con un verbo ed un soggetto che non concordano. Siamo chiamati in qualche modo ad un’impresa impossibile per rendere il mondo uno spazio, un luogo abitato.

Parte da qui la scelta di mettere questa piccola poesia nel programma delle Lectio:

L’universo non ha un centro,
ma per abbracciarsi si fa così:
ci si avvicina lentamente
eppure senza motivo apparente,
poi allargando le braccia,
si mostra il disarmo delle ali,
e infine si svanisce,
insieme,
nello spazio di carità
tra te e l’altro

CHANDRA LIVIA CANDIANI, La bambina pugile ovvero la precisione dell’amore, Einaudi, 2014

La nostra logica nell’abbracciarsi è che uno allarga le braccia per stringere, per trattenere. Forse abbiamo bisogno di un nuovo modo di abbracciarci, allargare le braccia per mostrare il disarmo delle ali, la nostra vulnerabilità, per poi svanire insieme, creare nello spazio di carità tra te e l’altro. Da questo punto di vista il prequel del 2 ottobre era quel testo molto conosciuto dell’apparizione di Gesù Risorto a Maria di Magdala, raccontata nel vangelo di Giovanni, in cui Gesù dice a Maria “non mi trattenere”. Questa è una parola fastidiosa perché Maria ha pianto cercando il risorto, ha aspettato vicino alla tomba, è l’unica un po’ seria in quella situazione di dolore dove gli apostoli non capiscono, vanno, vengono, si nascondono. Lei li chiama, tornano, non capiscono un granché, sono un po’ tonti, mentre lei è una che regge il dolore, quindi uno dice cavolo, quando l’hai retto poi succede la cosa bella, lui appare e tu dici> “abbiamo risolto, non dobbiamo più reggere quel dolore”, ma Gesù le dice> “non mi trattenere”. La legge del Risorto ci chiede di imparare ad abbracciare non per stringere ma per svanire in uno spazio comune.

Questo era un po’ il prequel per dare, come mi piace fare, un quadro generale di quale orizzonte, istinto o domanda, dalla quale prendiamo un po’ le mosse. Abbiamo bisogno di fare un grande salto di qualità, non solo imparare ad abbracciarci (che già è una bella fatica, perché certe volte ci prenderemmo a botte, piuttosto che abbracciarci, quindi già abbracciarsi sarebbe una buona idea), ma imparare ad abbracciarci in un altro modo. Forse il Covid ci è stato dato esattamente per mostrarci questo, un altro modo che non trattiene, che non stringe, che costituisce un noi in uno spazio condiviso. Questa è un po’ la cosa che mi sta a cuore, che guida anche la scelta dei testi e anche il bisogno che abbiamo oggi di ripensare le cose che facevamo prima, per cercare quelle personali e comunitarie, per riproporle in questo tempo così radicalmente nuovo, molto più nuovo di quanto non siamo consapevoli, che ha bisogno di uno sguardo penetrante, che veda lontano, che apra spazi, possibilmente abitabili da tutti.

La lectio di oggi

Il testo di oggi è abbastanza strano e non si legge praticamente mai nella Liturgia. L’ho messo sotto il titolo “vite incastrate” perché sembra che partiamo da qui, da una situazione in cui ciascuno di noi, un po’ come Maria di Magdala, ha fatto del suo meglio. Ha provato a reggere questo tempo di fatica, ha avuto sicuramente dei dolori, delle cose su cui ha dovuto spendersi, dare anche generosamente, probabilmente ha avuto anche qualche gioia, qualche momento bello e gustoso. Ha provato a mantenere una certa dignità anche in questi ultimi due anni, a regolarsi di volta in volta con buon senso, per sé e per gli altri, non proprio di sclerare dentro “bolle epistemologiche” come dice Lingiardi, cioè dentro a ragionamenti che non sai più da dove partono e dove arrivano. Ha provato a rimanere con i piedi per terra. Uno dice che forse ne stiamo un po’ uscendo con vaccini e terze dosi va un po’ meglio… e dunque? E dunque uno si ritrova con una vita incastrata, non in un ampio spazio di libertà, ma dentro ad una specie di vicolo chiuso in cui l’unica cosa che gli sembra di portare a casa è la stanchezza. Tutto questo… e dunque? In gruppo di miei studenti, che stanno ancora imparando un po’ l’italiano, è partita questa espressione “…e dunque?” che viene ripetuta molto spesso, anche un po’ insensatamente, ma è una cosa che sta servendo un po’ a tutti perché è la classica domanda da bambino impertinente che arriva quando fai tutto il tuo bel ragionamento, e te ne compiaci, poi uno ti dice “e dunque?”, e tu rimani spiazzato e devi tornare un po’ con i piedi per terra.  Mi sembra appunto che la nostra esperienza dello stare in qualche modo al fondo di questo tempo dove abbiamo “tenuto” facendo del nostro meglio, sia un po’ quella di trovarci con una vita incastrata e con molte vite incastrate, nostre ed altrui, dicendo “e dunque?”. Dove ritroviamo l’energia? Abbiamo speso tanto e ciò in cui eravamo abituati a rigenerarci dov’è? Non sembra esserci più.

Il testo di oggi è proprio all’inizio del libro dei Re e non lo si legge quasi mai nella Liturgia, di per sé è abbastanza lungo e un po’ strampalato, queste cose da Primo Testamento che sono un po’ creative, però secondo me è molto interessante rispetto a questi temi. Sta dentro alla storia di Davide e della successione dei Re e fa parte di quel percorso dell’autoconsapevolezza del popolo di Israele, riflettuta ovviamente non in presa diretta ma in un momento storico successivo, l’autoconsapevolezza rispetto alla responsabilità e al dovere di un noi, di un popolo. Dal momento in cui il popolo si comprende come tale va man mano più avanti nel riflettere sul proprio noi e ne riconosce i limiti, i pregi, i rischi a seconda dei casi, e dunque li rappresenta e li racconta attraverso figure o episodi emblematici. In questo testo c’è un episodio secondo me molto divertente di queste “vite incastrate”.

Il testo: 1Re 1, 1-21

1 1Il re Davide era vecchio e avanzato negli anni e, sebbene lo coprissero, non riusciva a riscaldarsi. 2I suoi servi gli suggerirono: «Si cerchi per il re, nostro signore, una giovane vergine, che assista il re e lo curi e dorma sul suo seno; così il re, nostro signore, si riscalderà». 3Si cercò in tutto il territorio d’Israele una giovane bella e si trovò Abisàg, la Sunammita, e la condussero al re. 4La giovane era straordinariamente bella; ella curava il re e lo serviva, ma il re non si unì a lei.

5Intanto Adonia, figlio di Agghìt, insuperbito, diceva: «Sarò io il re». Si procurò un carro, un tiro di cavalli e cinquanta uomini che correvano dinanzi a lui. 6Suo padre non lo contrariò mai, dicendo: «Perché ti comporti in questo modo?». Anche lui era molto avvenente; era nato dopo Assalonne. 7Si accordò con Ioab, figlio di Seruià, e con il sacerdote Ebiatàr, i quali sostenevano il partito di Adonia. 8Invece il sacerdote Sadoc, Benaià, figlio di Ioiadà, il profeta Natan, Simei, Rei e il corpo dei prodi di Davide non si schierarono con Adonia. 9Adonia un giorno immolò pecore, buoi e vitelli grassi presso la pietra Zochèlet, che è vicina alla fonte di Roghel. Invitò tutti i suoi fratelli, figli del re, e tutti gli uomini di Giuda al servizio del re. 10Ma non invitò il profeta Natan né Benaià né il corpo dei prodi e neppure Salomone, suo fratello.

11Allora Natan disse a Betsabea, madre di Salomone: «Non hai sentito che Adonia, figlio di Agghìt, è diventato re e Davide, nostro signore, non lo sa neppure? 12Ebbene, ti do un consiglio, perché tu salvi la tua vita e quella di tuo figlio Salomone. 13Va’, presentati al re Davide e digli: «O re, mio signore, tu non hai forse giurato alla tua schiava dicendo: Salomone, tuo figlio, sarà re dopo di me, ed egli siederà sul mio trono? Perché allora è diventato re Adonia?». 14Ecco, mentre tu starai ancora lì a parlare al re, io ti seguirò e completerò le tue parole».

15Betsabea si presentò al re, nella camera da letto; il re era molto vecchio, e Abisàg, la Sunammita, lo serviva. 16Betsabea si inchinò e si prostrò davanti al re. Il re poi le domandò: «Che hai?». 17Ella gli rispose: «Signore mio, tu hai giurato alla tua schiava per il Signore, tuo Dio: «Salomone, tuo figlio, sarà re dopo di me, ed egli siederà sul trono». 18Ora invece Adonia è diventato re senza che tu, o re, mio signore, neppure lo sappia. 19Ha immolato molti giovenchi, vitelli grassi e pecore, ha invitato tutti i figli del re, il sacerdote Ebiatàr e Ioab, capo dell’esercito, ma non ha invitato Salomone tuo servitore. 20Perciò su di te, o re, mio signore, sono gli occhi di tutto Israele, perché annunci loro chi siederà sul trono del re, mio signore, dopo di lui. 21Quando il re, mio signore, si sarà addormentato con i suoi padri, io e mio figlio Salomone saremo trattati da colpevoli».

Commento:

1Il re Davide era vecchio e avanzato negli anni e, sebbene lo coprissero, non riusciva a riscaldarsi. 2I suoi servi gli suggerirono: «Si cerchi per il re, nostro signore, una giovane vergine, che assista il re e lo curi e dorma sul suo seno; così il re, nostro signore, si riscalderà». 3Si cercò in tutto il territorio d’Israele una giovane bella e si trovò Abisàg, la Sunammita, e la condussero al re. 4La giovane era straordinariamente bella; ella curava il re e lo serviva, ma il re non si unì a lei.

Ovviamente sono ammessi commenti ironici di tutti i generi, ma è chiaro che qui c’è una struttura molto elementare dell’esistenza: la vita di un re anziano perde calore. Siamo così, perdiamo calore, abbiamo perso tante energie e non sappiamo dove recuperarle. Il tema del calore è proprio quello che noi più intellettualmente, in modo meno ridotto alle questioni elementari dell’esistenza, dicevamo prima: l’energia. Ci sentiamo stanchi come dei vecchi, indipendentemente dall’età. Per quanto ci scaldiamo non riusciamo a recuperare calore, che è proprio segno dell’energia, della vita. Qui c’è un sapere molto elementare: per un re vecchio che non trova calore bisogna cercare una bella ragazza. Si va sul basico, una relazione di qualità e di quantità darà calore. Ognuno di noi ha elaborato nella sua vita delle soluzioni basiche, che sono quelle un po’ primarie, ci sono quelle sere in cui andiamo a mangiarci un hamburger, perché questa cosa da un po’ il senso di trasgressione, è una cosa allegra, c’è gente, respiro un po’. Oppure si va al cinema, si ascolta un po’ di musica, ognuno ha le sue soluzioni: il suo modo con cui ha imparato ad ingannare sé stesso e la sua mancanza di energie. La vita di Re Davide è incastrata, come la nostra oggi, perché tutti i metodi e i trucchi che abbiamo imparato non ci danno forza, energia, calore: il re non si unì a lei. Ma come? È bellissima e giovane, non si può desiderare di più dalla vita… ma no, non serve a niente. Questo in qualche modo è la prima vita incastrata. Per Davide la distanza dalla vita, non dalla Sunammita, è diventata troppo forte.

E poi c’è la seconda vita incastrata. Ricordate sempre che la normalità è una situazione di poligamia, quindi molte mogli, con molti figli. La successione del Re era sempre un problema perché con molte mogli è difficile capire qual è la moglie con il figlio che ha diritto alla successione del Re. In tutte le strutture poligamiche è un problema, quindi c’è sempre una bella lotta tra i figli, e tra le mogli, dietro le quinte per favorire il proprio figlio nella successione.

Adonia è uno dei figli di Davide e di Agghìt.

5Intanto Adonia, figlio di Agghìt, insuperbito, diceva: «Sarò io il re». Si procurò un carro, un tiro di cavalli e cinquanta uomini che correvano dinanzi a lui. 6Suo padre non lo contrariò mai, dicendo: «Perché ti comporti in questo modo?». Anche lui era molto avvenente; era nato dopo Assalonne. 7Si accordò con Ioab, figlio di Seruià, e con il sacerdote Ebiatàr, i quali sostenevano il partito di Adonia. 8Invece il sacerdote Sadoc, Benaià, figlio di Ioiadà, il profeta Natan, Simei, Rei e il corpo dei prodi di Davide non si schierarono con Adonia. 9Adonia un giorno immolò pecore, buoi e vitelli grassi presso la pietra Zochèlet, che è vicina alla fonte di Roghel. Invitò tutti i suoi fratelli, figli del re, e tutti gli uomini di Giuda al servizio del re. 10Ma non invitò il profeta Natan né Benaià né il corpo dei prodi e neppure Salomone, suo fratello.

Noi sappiamo che poi Salomone diventerà Re, ma nel racconto non si sa ancora. Adonia è un’altra vita incastrata perché è incastrato nella sua superbia. Si è incastrati per la distanza dalla vita, come Davide, si è incastrati per la distanza da sé stessi, come la superbia, cioè la semplice mancanza di realismo rispetto a sé. essere troppo distanti da sé per avere una percezione di quello che si è, quello che si vale.

Però, qui, c’è anche un’aggravante perché mentre ci sono distanze oggettive, come il Covid che ci è successo e tocca tutti, e nessuno di noi ne ha direttamente colpa (poi abbiamo responsabilità nelle azioni che scegliamo di fare dopo), ma quando si tratta della distanza da sé stessi c’è sempre una collaborazione nel male. Qui la collaborazione è detta in questo versetto

6Suo padre non lo contrariò mai, dicendo: «Perché ti comporti in questo modo?».

Suo padre è sempre il Davide di cui sopra. Qui ci viene detto che uno ha distanza da sé, quando non c’è uno davanti che con autorità paterna, indipendentemente dal fatto che sia il padre o meno, sia in grado di dire “ma che cavolo fai?”. La prima azione possibile rispetto al disincastrare le vite è accettare che ci sia un altro o a cui riconosci il potere di dirti “ma che cavolo fai?”. Questo glielo devi riconoscere tu, sei tu che devi dare il permesso agli altri di esserti così vicino da poterti ricostituire nella distanza corretta da te stesso. Credo che già solo con questo uno potrebbe fermarsi su questo versetto, portarselo a casa e tenerselo nel cuore.

Ma il testo va avanti e ci dice che la relazione malata tra Davide ed Adonia produce altra malattia. In questo racconto il linguaggio e la struttura narrativa sono basati sui saperi elementari della vita: la sessualità, la religione, la giustizia basica. Quindi questa relazione malata va sull’altro aspetto fondamentale della vita, produce malattia ed incastra anche la religione, divide i sacerdoti. Adonia ne invita alcuni e non ne invita altri, e fa un sacrificio, tenta di legittimare religiosamente il suo errore di distanza da sé stesso. Perché la malattia distingue escludendo. Una delle cose a cui spero arriveremo alla fine di questo percorso, attraverso una lettura più cristologica, è che la possibilità di un noi futuro a partire da questo luogo in cui siamo tutti è unicamente quella di una distinzione includente, del conoscere le differenze e le distanze ma di fare questo il luogo del noi. Invece la logica malata distingue escludendo, alcuni sono invitati e altri no. A questo sacrificio non invita il profeta Natan, il sacerdote Benaià, il corpo dei prodi (cioè i militari che si erano detti fedeli a Davide) e non invita suo fratello Salomone. Costituisce una religione che divide, un gesto religioso che divide. Qui la malattia diventa grave, non è più solo la malattia interna della superbia personale ma produce altra malattia.

Il testo insiste ancora, ci parla di Betsabea, moglie di Davide e madre di Salomone, e di Natan, che è il profeta che racconta la storia della pecorella, il profeta di corte riconosciuto che ha una parola autorevole per quanto dura, ma anche le loro vite sono incastrate in un desiderio di governare il futuro secondo delle promesse.

11Allora Natan disse a Betsabea, madre di Salomone: «Non hai sentito che Adonia, figlio di Agghìt, è diventato re e Davide, nostro signore, non lo sa neppure? 12Ebbene, ti do un consiglio, perché tu salvi la tua vita e quella di tuo figlio Salomone. 13Va’, presentati al re Davide e digli: «O re, mio signore, tu non hai forse giurato alla tua schiava dicendo: Salomone, tuo figlio, sarà re dopo di me, ed egli siederà sul mio trono? Perché allora è diventato re Adonia?». 14Ecco, mentre tu starai ancora lì a parlare al re, io ti seguirò e completerò le tue parole».

Natan escogita un piano ed incastra la propria vita a quella di Betsabea nel chiedere conto di una promessa del passato, come quando noi ci chiediamo “in fondo, perché continuare quello che era prima del Covid?”. Natan non vuole prendere atto della realtà, di questa distinzione escludente che deve diventare una distinzione includente, vuole semplicemente recuperare. Qui è tutto raddoppiato: due dialoghi, due domande. Natan e Betsabea che dicono la stessa cosa due volte: c’è la narrazione del piano e poi la narrazione della realizzazione del piano con le stesse parole, è tutto raddoppiato perché ci dice che le vite possono anche esserci dei “noi” incastrati, che non è un privilegio dei singoli quello di incastrarsi. È qualcosa che possiamo addirittura nutrire dentro ad una relazione, addirittura in una relazione come questa, tra un profeta e Betsabea, rispetto ad un figlio, Salomone, che era il segno del perdono ricevuto da Davide per il gestaccio compiuto per sposare Betsabea. Quindi un figlio che era una promessa di benevolenza, di benedizione. C’è questo scambio, questo gioco a due della responsabilità della parresia. Con questo passo mi viene in mente la battuta di un film, che dice: “vai avanti tu che a me vien da ridere”, sembra che il giochetto tra Natan e Betsabea sia: “vai avanti tu che a me vien da ridere”, chi è che deve prendersi la responsabilità della parresia e di quale parresia? Cosa c’è da dire a Davide, solo di chiedergli conto di una promessa del passato? Certo, le promesse del Re sono una parola data ma qual è la vera parola che ci è stata data? Che cosa ci era stato promesso prima del Covid per cui noi avremmo diritto oggi di chiederne conto? Questo bisognerebbe chiederselo, qual è la vera parola data?

Betsabea va nella camera dal Re che è molto vecchio, la Sunammita lo serviva e Betsabea si prostra in silenzio

15Betsabea si presentò al re, nella camera da letto; il re era molto vecchio, e Abisàg, la Sunammita, lo serviva. 16Betsabea si inchinò e si prostrò davanti al re. Il re poi le domandò: «Che hai?». 17Ella gli rispose: «Signore mio, tu hai giurato alla tua schiava per il Signore, tuo Dio: «Salomone, tuo figlio, sarà re dopo di me, ed egli siederà sul trono». 18Ora invece Adonia è diventato re senza che tu, o re, mio signore, neppure lo sappia. 19Ha immolato molti giovenchi, vitelli grassi e pecore, ha invitato tutti i figli del re, il sacerdote Ebiatàr e Ioab, capo dell’esercito, ma non ha invitato Salomone tuo servitore. 20Perciò su di te, o re, mio signore, sono gli occhi di tutto Israele, perché annunci loro chi siederà sul trono del re, mio signore, dopo di lui. 21Quando il re, mio signore, si sarà addormentato con i suoi padri, io e mio figlio Salomone saremo trattati da colpevoli».

Si riuniscono in questo breve passo tutte le vite incastrate, quella di Davide, di Adonia, di Natan e Betsabea, si incontrano tutte lì. Evocata quella di Adonia, presente quella di Betsabea e Natan che arriverà subito dopo, presente quella di Davide, si incontrano tutte lì e c’è un elemento che sbilancia il tutto che è l’essere visti dalla realtà.

20Perciò su di te, o re, mio signore, sono gli occhi di tutto Israele

C’è un’attesa su di te, il resto del mondo esiste e ti guarda. In questo incastro di vite ciò che può sbilanciare è uno sguardo da fuori ed è il senso di responsabilità rispetto a ciò che facciamo vedere agli altri. Per altro è una cosa molto antica che può avere aspetti anche molto negativi, quello di ipocrisia, ma è un’antica legge degli umani quella che non tutti i dolori si mettono in piazza. A volte è proprio perché siamo consapevoli che un altro ci guarda (in questo caso siamo spinti dalla motivazione migliore, non dall’ipocrisia) che ci facciamo un gran coraggio e non ci disperiamo, proprio perché sappiamo che l’altro è più fragile e che crollerebbe se crollassimo anche noi, perché sappiamo che siamo visti e così riusciamo a fare i conti con la nostra vita incastrata, ritroviamo un’energia che viene dal bisogno dell’altro, non da noi.

Siamo visti. Gli incastri non si sbilanciano dall’interno ma si sbilanciano dall’esterno, dal lasciarsi guardare da un altro. Questo, tradotto molto concretamente, è per esempio uno dei grandi problemi della Chiesa in Italia, che per molti secoli è stata abituata a non concedere a nessuno il diritto dal di fuori, anche quando ha fatto del bene e non solo quando ha fatto del male. Perché Lei era Lei, e una delle grandi fatiche che stiamo facendo è che quello che sta succedendo è visto da fuori e che c’è qualcuno che dice: “questo va bene, questo non va bene”. Se vi va di leggere qualcuno dei commenti usciti dopo il dossier sulla chiesa francese circa la questione della pedofilia scoprirete che, oltre ai drammi ed alle storie estremamente dolorose che ci sono narrate, la grande questione che fa sentire irreparabilmente offesi certi uomini di chiesa è che qualcuno si permetta di guardare da fuori, di dare una valutazione, di rilevare una realtà, e di dire “guardate che non va proprio bene così”, di esprimere dunque un giudizio. Questo, purtroppo, è uno dei nostri grandi temi di passaggio, esattamente rispetto a ciò che dicevo prima: la costituzione di un noi ecclesiale non può non passare dal lasciarsi guardare da fuori, nel grande e nel piccolo, nelle nostre esperienze ecclesiali. Lasciarsi guardare da fuori è un’operazione molto complicata, molto faticosa soprattutto dopo del tempo in cui uno è un po’ incastrato, cioè ha il suo ritmo, fa le sue cose e gli sembra che tutto vada bene così. Il Covid ha spezzato questa cosa e tutti ci guardiamo gli uni gli altri da fuori, questo è estremamente faticoso ma è anche quello che dà la possibilità a tutte queste vite incastrate di muoversi, non si vedrà ancora il risultato di questo ma accadrà così.

Dopo questo racconto compare Natan, che usa toni più moderati di Betsabea, perché non sta difendendo il proprio figlio. Il testo che volevo esaminare è finito ma vi richiamo ancora un paio di versetti che, ragionando successivamente, ho pensato di aggiungere.

Natan fa tutto il suo giro e Davide dice che Salomone sarà re, dopo questo annuncio spiega come fare con le celebrazioni per annunciare che Salomone sarà re e appare Benaià, il sacerdote che aveva seguito Adonia, dice a Davide:

36Benaià figlio di Ioiadà rispose al re: “Così sia! Anche il Signore, Dio del re mio signore, decida allo stesso modo!”

È paradossale, una vita malata rovescia le logiche, la decisione di Davide è e deve diventare la decisione del Signore… non era il contrario? Che passaggio mi sono persa? Questo è un sacerdote malato, sta in una logica di vite incastrate e il suo problema è il salvare le vite incastrate per come sono ed avere il proprio piccolo posto in questo incastro. Guardate che qui è plateale perché uno che dice “anche il Signore decida allo stesso modo”, è un po’ esagerato, ma questo movimento è terribilmente comune.

Mi hanno colpita tanto anche i versetti finali del capitolo, quando l’ho riletto un po’ di volte. Dopo che Davide ha deciso che Salomone sarà Re, Adonia viene abbandonato e tutti quelli che facevano festa scappano velocemente, nessuno intende difenderlo.

49Tutti gli invitati di Adonia allora spaventati si alzarono e se ne andarono ognuno per la sua strada. 50Adonia, che temeva Salomone, alzatosi andò ad aggrapparsi ai corni dell’altare. 51Fu riferito a Salomone: “Sappi che Adonia, avendo paura del re Salomone, ha afferrato i corni dell’altare dicendo: Mi giuri oggi il re Salomone che non farà morire di spada il suo servitore”.52Salomone disse: “Se si comporterà da uomo leale, neppure un suo capello cadrà a terra; ma se in lui sarà trovato qualche male, morirà”. 53Il re Salomone ordinò che lo facessero scendere dall’altare; quegli andò a prostrarsi davanti al re Salomone, che gli disse: “Va a casa tua!”.

Il capitolo si conclude così e questo finale mi colpisce molto, perché da una parte tutti siamo tentati in caso di disperazione di rivolgerci a Dio. Qui Adonia non sa più come salvarsi la pelle e si attacca ai corni dell’altare perché non si può uccidere un uomo sull’altare di Dio. E va bene, è l’istinto primario della sopravvivenza, ma è una vita incastrata che produce altri incastri, non c’è un gesto di libertà in questa cosa. Non c’è un noi, non c’è un’assunzione di responsabilità, non c’è una parresia di parola, non c’è un dire “io sono qui, forse ho sbagliato però questo è il posto dove sono”. Non c’è niente di tutto questo e Salomone a fronte dà un giudizio bellissimo, che non ha niente a che fare con i corni dell’altare. Poi cosa sia successo davvero ve lo fate raccontare perché non credo sia andato tutto così liscio come nel racconto, ma comunque nel testo ci viene detto che Salomone sposta il giudizio, fa la prima cosa giusta per disincastrare le vite. Dice che salvarlo o farlo morire non dipende, né dai corni dell’altare, né dal suo ghiribizzo, ma dipende un dato di fatto: se lui è leale, perché ucciderlo? Se invece non è leale, botte. Cioè lo pone di fronte ad una responsabilità della realtà che non riguarda la simpatia o l’antipatia nei suoi confronti, e nemmeno dei motivi religiosi ma se Salomone è il re e lui davvero accetta di non essere re, se lealmente sta a queste regole del gioco è perfetto, altrimenti no. È un altro criterio e la conclusione è infatti che Adonia si prostra di fronte a Salomone, e Salomone l’unica cosa che gli dice è “vai a casa tua”, riprendi il luogo dov’eri.

Responsabilità e storia comune cominciano da storie incastrate e non da vite perfette, non è che uno prima si sistema e mette tutto in ordine, diventa bravo, equilibrato, energico e dice: “questo non è proprio il momento per impegnarmi per il comune perché sono proprio tanto stanco”, non funziona così. Funziona che noi abbiamo delle vite incastrate e se vogliamo disincastrarle dobbiamo metterle in gioco rispetto al loro esterno, lasciarci guardare, farci disincastrare da una parola che viene da fuori, assumere la responsabilità del luogo che abitiamo e del tornare a casa nostra, del ritrovare un luogo che sia la nostra casa, da cui ripartire, perché solo così siamo in grado di assumere responsabilità e storia comune disincastrando la vita. La contemplazione della nostra stessa stanchezza non porta da nessuna parte. Il dire a noi stessi, anche giustificatamente e realisticamente, “non ce la faccio, non ho energie per occuparmi di questo” non funziona, perché se non ho energie per occuparmi di qualcosa che è un noi, vuol dire che non avrò mai più energie e che mi incastro sempre di più. Sto sempre di più in una relazione malata con me stesso. È chiaro che non è sempre né così banale, né così immediato individuare i luoghi.

Domanda: quando dici che se uno è troppo è stanco non può esimersi dallo sbilanciarsi ancora di più, perché è solo da lì che si può trovare dell’energia, non si corre il rischio di confondersi ancora di più, di non essere lucido, di non avere la capacità di cogliere il bene?

Risposta: quello che dici è esattamente il cuore della questione. Lo dico in modo un po’ esagerato, bisognerebbe aggiungere qualche grigio ma per semplificare lo dico un po’ in bianco e nero: credo che una delle cose che il Covid ci ha mostrato con assoluta potenza, e che dovremmo cercare di capire come trasformare in una quotidianità, è proprio che come principio generale non è vera l’idea che se io sono troppo stanco poi mi confondo, perché di per sé se io sono troppo stanco quello che mostro è la mia vulnerabilità, e di per sé ci reggiamo gli uni gli altri. Forse io mi confondo. Ma se c’è un tessuto di relazioni, gli altri non mi permettono di confondermi fino a fare danno, la parola che viene da fuori è la mia rete di sicurezza. Non la mia capacità di trovare chissà quale vigilanza equilibrata perché tanto siamo tutti squilibrati. Dal mio discutibile punto di vista è proprio in questo mutamento che dobbiamo cominciare ad abitare, nell’idea che ciò che noi mostriamo è esattamente la nostra vulnerabilità, il dire “sono troppo confuso per cavarne qualcosa: qualcuno di voi ne ha un’idea?” Certo che non vale con chiunque, serve essere in una rete di relazioni qualificate e significative, ma non è che se io mi raccolgo su di me (che è uno dei metodi pre-covid) e rifletto ad un certo punto mi passa la stanchezza. Qua non ci passa più, in tutti i sensi.

La domanda è molto seria e sta nel cuore anche di molti brani successivi, non pretendo di risolverla così in due minuti, ma è proprio questo spostamento d’accento. “Io siamo” è proprio il passaggio del ritrovare assolutamente e solo in sé le fonti della propria energia. In questo il rapporto privilegiato per i credenti è con l’altro che è Dio, che regge, anche qui però uscendo dalla logica per la quale il rapporto con Dio sarebbe una cosa intima, del cuore, silenziosa. Il rapporto con Dio è un rapporto che si dà nel reale, Papa Francesco direbbe: innanzitutto nei poveri e nella liturgia.

È anche vera la questione che quando il noi è un tessuto debole, se mi appoggio al noi caschiamo tutti. Ci stiamo trovando esattamente in questa situazione. Non è un caso secondo me che ormai nella nostra cultura corrente il modo più comune di dirimere le questioni o di uscire dai conflitti. È il modo legale perché non essendoci nessun sostegno e nessuna energia alla fine si guarda all’oggettività della legge. La domanda è sempre se è legale o no. Ci appoggiamo a questo fantasma del legale perché i nostri noi sono molto fragili e abbiamo la sensazione che se ci aspettiamo da lì delle energie caschiamo poi tutti per terra. Questo è il nucleo del percorso attorno a cui vorrei ragionare.

Fossano, 13 novembre 2021

Testo non rivisto dall’autore

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