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27 Marzo 2021
Stella Morra

6. Esistere/curar-e/-si

Commento a: Gv 5, 1-18


In questo ingresso nei vespri della Domenica delle Palme, stiamo arrivando al momento clou a questa Santa Settimana; la grande settimana che ci conduce la Pasqua.  Ancora, come un anno fa, in questo clima molto strano che non ci consente facilmente di entrare nel clima Pasquale. O forse sì. Forse ci ha accompagnato con una Quaresima reale, che ci ha, come dire, attraversato tutto l’anno. E, come si diceva l’altro giorno in un incontro delle teologhe sul digiuno, con un digiuno di relazioni ben più significativo che non magari certe piccole pratiche scelte e come di cui forse prima parlavamo dei ragazzi, degli adolescenti, dei bambini e della loro fatica, forse gli adulti, semplicemente, urlano un po’ meno, fanno un po’ meno pazzia, ma facciamo la stessa fatica. Un digiuno che ci sta provando tutti, non sappiamo neanche bene da cosa: dalla vicinanza, da quella che chiamavamo normalità. Non sappiamo bene ma qualcosa ci manca. I corpi sì certo, ma insomma. Non è che ogni singolo gesto, non darsi la mano, non abbracciarsi – sì manca molto – ma poi forse ci manca la disposizione dentro, più che i gesti in sé. La possibilità interiore che possiamo anche non percorrere quando sappiamo che potremmo farlo.

L’altro giorno in questo incontro delle teologhe (che dura un’oretta, e lo trovate su Facebook del coordinamento delle teologhe), si ragionava sul digiuno delle relazioni, soprattutto, e a un certo punto una delle considerazioni emerse, che a me è piaciuta molto e che infatti poi ho ripreso nella discussione, era che c’è un digiuno delle relazioni che ci segnala che al di là delle nostre intenzioni noi possiamo far male all’altro. Possiamo contagiarlo senza volerlo, ma non è solo questo, cioè c’è un male possibile in noi. E forse rimisurare vicinanze e distanze sarà un grande dono di questa Quaresima lunga. E allora, ancora una volta in questo contesto ci mettiamo in ascolto di un pezzo della Parola di Dio per cercare di farci guidare. Chi segue questo percorso dall’inizio sa che stiamo ragionando su coppie di parole, che non sono una giusta e una sbagliata, ma sono parole che stanno subendo una metamorfosi, che in questa esperienza stanno cambiando. Provare, in cui in qualche modo, a raccogliere il nuovo passando e conservando ciò che è buono del vecchio senza opporle ma facendole trasformare da questo flusso della storia delle cose, della realtà. Che non è governata dalle parole, ma è al contrario, è la realtà che ci insegna le parole. E in questo il tempo sono tutti un po’ senza parole. E quindi l’idea di riflettere su come lasciare che questa realtà, attraverso il nostro linguaggio, sta guidando questo percorso.

Siamo alla sesta coppia di parole ne abbiamo viste già parecchie e l’ultima volta però così avevo concluso con quel pezzo di D. Bonhoeffer per dire che il rapporto tra pensiero, parole, responsabilità e azione, e dunque realtà, non solo la mia azione come se io fossi onnipotente, ma il reale, le cose che accadono poi davvero, questo rapporto qua è in qualche modo la chiave di lettura di tutto. Abbiamo bisogno di un nuovo rapporto tra pensiero, parole teoriche, parole come suono semplicemente, responsabilità individuale e collettiva, e azione e realtà. E per molto tempo abbiamo dato per scontato questo rapporto, soprattutto in ambito religioso, e quindi ci siamo un po’ persi il legame, e rischiamo di ripetere parole tipo “la gioia della Pasqua”, che anche quando ci crediamo, quando pensiamo che sì, che è vero, che è bello, che è importante, poi però non sappiamo bene che cosa vuol dire. La gioia della Pasqua però è una Pasqua senza troppi parenti e amici, con persone a cui vogliamo bene che sono lontane, con la preoccupazione del futuro… ma cosa significa la gioia della Pasqua? Da dove la pesco una gioia? E quindi questo rapporto è tutto un po’ da rivisitare.

Le parole di oggi le avevo assolutamente scelte perché fossero alla lectio prima di Pasqua, immediatamente prima di Pasqua, perché mi sembrano un po’ iI cuore della questione o, almeno, uno dei cuori della questione.  È evidente a tutti che la grande questione è la cura. Che curare e curarsi non è solo curare, curarsi dal virus. Ma il virus ci ha mostrato bene che la differenza si fa nella cura. E che la cura gli uni degli altri e la cura di sé stessi è una cura assolutamente indispensabile, un bene primario: aver cura. E dall’altra parte forse non è così immediato capire perché l’altra parola è esistere. Molto semplicemente perché mi sembrava che fino a un anno fa esistere era un dato scontato, quasi considerato un diritto. Io ci sono, sono qua. E anzi poi se mi manca qualcosa, se ho qualche ferita, qualche delusione, qualche blocco, i miei desideri e no, non è mica giusto! L’altro giorno una persona mi diceva, e trovo che è molto interessante, che fino a un anno fa, di fronte a una sofferenza, la sua domanda era, perché a me? E adesso tutte le volte che sente di qualcuno che si è ammalato di Covid pensa, perché non io? Ed è un cambio di prospettiva abbastanza grosso, no? Se io do l’esistere, il mio stare in piedi, vivere svegliarmi in mattina come un diritto scontato, ogni interferenza è: perché è successo a me? Ma se sono consapevole che non c’è niente di automatico in questo esistere, che la vita è fragile, la vita di tutti è fragile, ogni volta che una vita ha una ferita anche dall’altro capo del mondo, la domanda è, perché non a me? Che cosa mi riguarda di questa ferita che ha colpito qualcun altro?

Qui, se non faccio attenzione, farei un discorso molto lungo, ma credo che questa questione del dare per scontato l’esistere è una delle radici di quello che è successo a molti. Entrare in una crisi con questa logica significa un po’ finire de-personalizzati. Che è esattamente, non uso qua il senso tecnico della parola, ma come dire credo che è il motivo della nostra tanta stanchezza, di quella che anche coloro, tra di noi che stanno bene, che non hanno avuto grossissimi guai dal Covid, se non quelli ordinari, poche uscite, non poter più viaggiare… Vabbè insomma no, cioè cose rispetto ad altre abbastanza poco drammatiche, però tutti stiamo provando una stanchezza infinita. Non ce la facciamo più. Perché è esattamente l’esperienza che stiamo facendo, che se entri dentro una crisi come questa, una crisi collettiva come questa, a partire dal presupposto dell’esistere come un diritto, ne esci piegato. Hai la sensazione di non essere più una persona. Perché è esattamente quel preteso diritto di fondo che ci viene tolto.

La lectio di oggi

In questo orizzonte, il brano di oggi, che io amo veramente tantissimo, è l’inizio del capitolo 5 di Giovanni. Tutti quelli che frequentano un po’ le lectio sanno, che io ho una grande passione per Giovanni, che è il testo più commentato nelle lectio… Ragazzi, ognuno condivide quello che ama, quindi io amo questo, condivido questo. Il capitolo 5 è uno di quei capitoli su cui torno sempre perché mi piace veramente tanto, soprattutto questa prima parte e lo leggo, dice così:

Il testo: Gv 1, 1-18

5 1Dopo questi fatti, ricorreva una festa dei Giudei e Gesù salì a Gerusalemme. 2A Gerusalemme, presso la porta delle Pecore, vi è una piscina, chiamata in ebraico Betzatà, con cinque portici, 3sotto i quali giaceva un grande numero di infermi, ciechi, zoppi e paralitici. [ 4] 5Si trovava lì un uomo che da trentotto anni era malato. 6Gesù, vedendolo giacere e sapendo che da molto tempo era così, gli disse: «Vuoi guarire?». 7Gli rispose il malato: «Signore, non ho nessuno che mi immerga nella piscina quando l’acqua si agita. Mentre infatti sto per andarvi, un altro scende prima di me». 8Gesù gli disse: «Àlzati, prendi la tua barella e cammina». 9E all’istante quell’uomo guarì: prese la sua barella e cominciò a camminare.

Quel giorno però era un sabato. 10Dissero, dunque, i Giudei all’uomo che era stato guarito: «È sabato e non ti è lecito portare la tua barella». 11Ma egli rispose loro: «Colui che mi ha guarito mi ha detto: «Prendi la tua barella e cammina»». 12Gli domandarono allora: «Chi è l’uomo che ti ha detto: «Prendi e cammina»?». 13Ma colui che era stato guarito non sapeva chi fosse; Gesù, infatti, si era allontanato perché vi era folla in quel luogo. 14Poco dopo Gesù lo trovò nel tempio e gli disse: «Ecco: sei guarito! Non peccare più, perché non ti accada qualcosa di peggio». 15Quell’uomo se ne andò e riferì ai Giudei che era stato Gesù a guarirlo. 16Per questo i Giudei perseguitavano Gesù, perché faceva tali cose di sabato. 17Ma Gesù disse loro: «Il Padre mio agisce anche ora e anch’io agisco». 18Per questo i Giudei cercavano ancor più di ucciderlo, perché non soltanto violava il sabato, ma chiamava Dio suo Padre, facendosi uguale a Dio.

Commento

Come spesso succede in Giovanni è un testo diciamo in due parti, Giovanni è più intellettuale, il più mentale degli evangelisti, sarà per questo che mi piace: ha sempre l’evento e il sottotitolo. Cioè, racconta il fatto e poi ci mette un commento più teorico che mi fa sempre molto riflettere, perché a me i fatti piacciono molto, ma di solito i sottotitoli mi piacciono di più, e che è strano perché di per se dovrebbero piacerci i fatti, le cose così come accadono. Dovremmo poterle percepire nella loro immediatezza, forse qualcuno di voi ci riesce. Allora il fatto è questo:

5 1Dopo questi fatti, ricorreva una festa dei Giudei e Gesù salì a Gerusalemme.

Come sempre Giovanni ci dà un’inquadratura di tempo, di luogo, di persone; parte sempre dalla concretezza. Come se ogni suo racconto cominciasse dicendo: ok oggi, qui, dove tu sei, non altrove, non in astratto, non sempre non per chiunque, non in ogni caso; oggi qui ci sono due elementi che… Quindi è sempre piuttosto interessante vedere quali sono gli elementi che mette in luce, perché li mette in luce per dirci qual è la particolarità di quel momento lì. Allora è la vigilia di una festa e Gesù sale a Gerusalemme, ecco i due elementi. È la vigilia di una festa ma per quell’uomo che sta alla piscina è una festa strampalata, da 38 anni quella stessa festa l’ha celebrata sdraiato su una barella impossibilitato a camminare. Come noi da un lungo tempo, da un tempo ben più lungo del nostro, sta di fronte a una festa che per lui non è una festa.

E Gesù sale a Gerusalemme, ovvio perché Gerusalemme è in alto, è tipo Fossano, sulla rocca, e da qualsiasi parte ci arrivi devi fare una salita. Ma, in Giovanni come in Luca, il movimento del salire, cioè non solo il salire fisicamente, ma è anche proprio un compiere un percorso che porta in alto, che fa vedere da più in alto. Rende possibile uno sguardo lungo, non lo sguardo oppresso dal quotidiano. In qualche modo Giovanni ci dice, ok, questo fatto e queste parole vanno prese a partire da una festa che è una strana festa. Una festa poco festiva, e a partire dalla capacità, il tentativo, almeno il desiderio, di guardare lontano, di non essere solo della gente che guarda i propri piedi. E direi due su due, cioè ci siamo, siamo lì. Le due condizioni per questo testo quest’anno sono perfette, non solo nel singolo del nostro cuore, ma anche comuni: il bisogno di guardare lontano. Perché se guardiamo i nostri piedi ci viene da piangere, e una festa che crediamo che pensiamo che è una festa che è vera, che cioè va tutto bene, ma è una festa poco festosa. Non è la festa della gioia in cui ci sentiamo di entrare in sintonia e non per un fatto personale. Ognuno di noi, sicuramente, ha avuto in sorte di celebrare dei Natali, delle Pasque, dei compleanni in giorni personalmente molto tristi. Succede. Ma qui è una questione comune, noi siamo tutti in una Pasqua senza fiato, senza un eccesso di gioia.

2A Gerusalemme, presso la porta delle Pecore, vi è una piscina, chiamata in ebraico Betzatà, con cinque portici,

Altro elemento di collocazione e di concretezza. Questa cosa accade però in un luogo strano per un luogo, per un territorio arido, e per di più per un mondo antico: una piscina. Una sovrabbondanza d’acqua in un territorio che non ne ha molta. E che è un’eccezionalità, una ricchezza, un lusso, per di più con cinque portici. Allora una festa non tanto festiva, la voglia, il desiderio di guardare lontano, e poi il senso del lusso. Il senso di qualcosa che non è nella logica ordinaria in un territorio. Se avesse detto “c’era un mucchio di sabbia”, uno dice “ok”: è quello che non manca da nessuna parte in quelle zone, dovunque ti giri c’è un mucchio di sabbia. Ma dice: “c’è una piscina”. C’è un posto dove c’è qualche cosa, una scheggia incandescente, qualche cosa di speciale da cogliere, da raccogliere, anche se è sempre lì, anche se c’è sempre stata quella piscina o da tanto tempo c’era. C’è un luogo, chiaro, non è un caso che nelle grandi religioni nate nel bacino medio orientale, ad esempio, ma anche in tutte le figure religiose in generale, il tema dell’abluzione, la necessità di lavarsi, di passare, di lavarsi le mani, piedi di immergersi, eccetera, è un tema che è ricorrente in tutte le grandi religioni. La figura dell’acqua, perché l’acqua, per nessuna cultura antica è un dato scontato, un diritto a priori. È il contrario dell’esistere, questa piscina. È il lusso che non era dato; in un territorio arido di per sè, l’acqua è una fatica, bisogna, come purtroppo ancora in tanti paesi del mondo, prendere dei contenitori, andare lontano, prenderla: è un lusso. E qui c’è una piscina che è un lusso E infatti molto spesso nelle realtà antiche i luoghi ricchi d’acqua sono luoghi taumaturgici. Dove si raccolgono malati e dove si raccontavano storie di guarigione. Gli antecedenti delle terme, cioè dov’è in qualche modo l’acqua, questo lusso dell’esistenza, non dato per diritto, ma regalato come un di più, diventava il luogo della guarigione, della purificazione, eccetera. E questo posto ha cinque portici. Non devo spiegare alla gente dell’Atrio dei Gentili quanto è diversa una piscina con i portici o con delle pareti intorno: non è un posto chiuso. Questo lusso e per tutti. E infatti dice:

3sotto i quali giaceva un grande numero di infermi, ciechi, zoppi e paralitici.

È un posto per poveretti, un lusso per poveretti. E anche qui c’è già una bella domanda, perché, come dire, nella nostra logica normale, i poveretti non hanno lussi, i ricchi li hanno. I poveretti si sentono sempre defraudati, è la logica dell’esistere. Sono vivo, però, va bene, questo è il minimo. Ma perché non posso permettermi una Ferrari piuttosto che una villa? Perché sono un poveretto? E invece in questo luogo del lusso dell’acqua, di ciò che non era dato per natura, lo spazio è per i poveri e gli ammalati, che hanno bisogno di questo lusso. Si passa oltre la parola esistere ricordandosi che la nostra ferita, la nostra povertà, la nostra malattia, non è solo un danno da curare, è il vero luogo dove possiamo ricevere un lusso. Perché ciò che non ci potremmo dare da soli, che non potremmo comprare per nessuna cifra, che non è alla nostra portata. Se no non è una malattia, è un problema e i problemi si risolvono. Ognuno di noi ha tanti problemi concreti, meno concreti e ti metti lì e un passo dopo l’altro, con più facilità, con fatica, con più dolore, ma il problema lo risolvi. Ma essere infermo, cieco, zoppo e paralitico in una società antica vuol dire non avere nessuna possibilità di soluzione del problema. E quindi bisogna puntare all’esagerazione, al lusso o a niente.

5Si trovava lì un uomo che da trentotto anni era malato.

Considerando l’età media del tempo di Gesù, da tutta la vita, per un tempo infinito. Per noi oggi a 38 anni si dice “no, ma è giovane ha 40 anni”, ma non era così ai tempi di Gesù dove la vita media pare forse intorno ai 45 anni. Uno che da 38 anni è malato, è tutta la vita che è malato. Il suo esistere è un esistere malato.

6Gesù, vedendolo giacere e sapendo che da molto tempo era così, gli disse: «Vuoi guarire?».

Oramai tutte le volte che leggo questo versetto mi viene il nervoso perché penso che Gesù faccia sempre delle domande stupide. Ma, secondo voi, uno che è malato da 38 anni cosa vuole? Ballare la samba? La domanda, “vuoi guarire?” che domanda è? Perché Gesù domanda, “vuoi guarire?” Per puro gusto della scena teatrale? Giovanni dopo ci dirà che c’era troppa folla e Gesù se ne va. Non sta facendo una scena. E Giovanni si premura di sottolineare che non sta facendo una scena. Ma Gesù, come dire, ci mostra una cosa fondamentale: la parola che cura, non è una risposta ma è una domanda. La parola che cura è una domanda. È una domanda sul proprio desiderio, o se volete, su ciò che diamo per scontato, come dovuto, come un diritto. O su ciò che sono in grado di ricevere come un lusso, di implorare come un lusso, di aguzzare il nostro ingegno ma soprattutto di farci aiutare perché quel lusso diventi realtà. Non è una risposta che mi do o al massimo che qualcun altro mi da.  È la domanda di cui io divento soggetto. Qui si ricuce, come dire, pensiero, responsabilità, azione, e si esce dal pensare che esistere sia un dato scontato, anche se esistere da malati.

7Gli rispose il malato: «Signore, non ho nessuno che mi immerga nella piscina quando l’acqua si agita. Mentre infatti sto per andarvi, un altro scende prima di me».

La risposta, infatti, non è “sì, voglio guarire” o “no, non me ne frega niente”. Non risponde alla domanda, entra nel gioco giusto. Ed è lui in qualche modo che seduce, Gesù, che lo sposta, lo conduce a sé. Gli dice guardami. Quando l’acqua si agita nel momento buono per immergersi e guarire, non faccio in tempo. Ora io credo che chiunque abbia compiuto i 15 anni sappia quanto peso ha non solo nelle agende quotidiane, nel correre tutti i giorni dietro alle 1000 cose da fare, quanto appreso ha il: “Non faccio in tempo”. Non faccio in tempo a sapere di me fino in fondo, non ho fatto in tempo ad abitare quella relazione come avrei voluto, non ho fatto in tempo ad avere una risposta sufficiente a me stessa e agli altri, ad avere tutta la verità che mi serviva. Non faccio in tempo è il segno della nostra creaturalità; solo Dio è eterno. Contemporaneo a sé stesso e dunque fa sempre in tempo. È sempre in tempo. Noi non facciamo in tempo, siamo tutti un po’ paralitici. Ora che ci mettiamo in movimento nell’anima, che andiamo a fondo alle cose, che le riconosciamo, che troviamo le parole per dirle e le mettiamo in circolazione, è quasi sempre troppo tardi. Ci sono pochi momenti di grazia in cui ci è dato di essere all’altezza del tempo in cui siamo. Perché non abbiamo noi stessi a disposizione, perché il nostro esiste non è affatto un dato scontato nelle nostre mani, di cui possiamo disporre. E poi, dopo, magari ci arriviamo e dopo un po’ ci ripensiamo e diciamo: “a cavolo, ma non facciamo in tempo quando l’acqua si agita”. Ed è interessante perché qui c’è una bella costruzione: mentre sto per andarvi un altro scende prima di te. Certo, si scende in una piscina.

8Gesù gli disse: «Àlzati, prendi la tua barella e cammina».

Tre verbi che non hanno niente a che fare con lo scendere, anzi, sono il contrario: alzati, prendi, cammina. La strada è salire, non scendere. Così come la parola che cura è una domanda, e non una risposta. Questo alzati in Giovanni compare molto frequentemente, è un verbo che lui usa spesso. Alzato lo sguardo, alzati, si alzarono, alzò gli occhi, eccetera. Perché questo senso del salire del “in alto” non è una roba poetica, “guardate il cielo…”  tutte quelle robe lì, o spirituale, ma è una chiave molto concreta, invece. Se non teniamo insieme cielo e terra non abbiamo futuro. E i nostri piedi sono piantati sulla terra; questo sì che è un dato. Non abbiamo altra possibilità che avere i piedi piantati sulla terra. E quindi almeno i nostri occhi devono guardare il cielo. Per essere noi, noi stessi, il legame tra queste due cose, tra la terra e il cielo. Per tenere insieme come Gesù ha fatto nell’incarnazione. Per tenere insieme le nostre, i vostri desideri extra large in vite small, e la possibilità di questo sta nel gesto che fa Gesù:

«Àlzati, prendi la tua barella e cammina». 9E all’istante quell’uomo guarì: prese la sua barella e cominciò a camminare.

È un gesto di cura, non c’è giudizio, non c’è classificazione, non c’è logica morale, non c’è logica di premio, non c’è logica di niente; è un puro gesto di cura. Una parola che cura. Sarà che le mie ginocchia oramai cominciano a denunciare pesantemente i miei anni, ma questa figura un po’ paralitica, perché poi dice: “sto per andarvi” vuol dire solo che ci mette come me tanto tempo a tirarsi su e a spostarsi; non è proprio del tutto paralitico ma, come le mie ginocchia, scricchiola abbondantemente, fa fatica, non ha la stessa velocità. E questa figura un po’ paralitica mi commuove molto. Ho la sensazione che uno dei grandi fantasmi di questo tempo per ciascuno di noi sia che siamo diventati tutti un po’ paralitici. Non solo perché ci muoviamo meno e passiamo tante ore davanti al computer a lavorare, o a chiacchierare, incontrare le persone che non possiamo vedere dal vivo, ma perché siamo tutti diventati un po’ paralitici dentro. Abbiamo desideri, passioni, volontà che scricchiolano, tutte, che non facciamo in tempo, che si scontrano con l’oggettiva realtà. Andrei proprio a mangiare una pizza e a fare la serata con due risate rilassanti… eh, non si può. Perché? Perché non si può andare a mangiare la pizza. Farei volentieri due passi con quell’amico, con quell’amica, per chiacchierare un po’ in modo rilassato… eh, non si può. Lavorerei volentieri con gente meno isterica e mi piacerebbe molto essere meno isterico sul mio lavoro per poter, come certe volte è accaduto, confrontarci, ragionare, dirci le cose, affrontare i problemi senza ammazzarci sul lavoro, ma in una ragionevole dialettica che sta in tutti i posti di lavoro…eh, però siamo tutti isterici. E non facciamo in tempo, e ti esce la risposta dura prima che tu abbia fatto in tempo a pensarla. Siamo tutti un po’ paralitici. Mi fa grande commozione in questo tempo, la nostra parte migliore, quella più capace di dare, di ricevere cura, rischia di irrigidirsi, di avere sempre meno spazio.

9E all’istante quell’uomo guarì: prese la sua barella e cominciò a camminare.

Perché la parola che cura cambia e consente di alzarsi, prendere con sé il proprio peso. Non lascia lì la barella, non cancella i 38 anni, li prende con sé. Prendere con sé il proprio peso, mettersi a camminare, cioè continuare, non ad esistere, a quel punto, ma vivere da guarito, senza pretesa di essere sano. E allora c’è la seconda parte che a me piace, appunto, come vi dicevo, mi piacciono più i sottotitoli degli eventi.

Quel giorno però era un sabato.

E che cavolo, e la tempistica in questo racconto è fondamentale, quello non fa tempo che gli succede di guarire, così, come un ulteriore lusso meraviglioso, e però guarisce di sabato, il giorno sbagliato. Come la battuta di Moni Ovadia a Maria Teresa: tutto intorno a loro era sabato e li era giovedì. E, invece, è il sabato e:

10Dissero, dunque, i Giudei all’uomo che era stato guarito: «È sabato e non ti è lecito portare la tua barella».

È interessante perché la cosa che gli contestano è di fare un lavoro, servire, quello che è proibito dalla legge: portare una cosa. Non è che dicono; che figo cammini, sei guarito, che bello, oppure non ti è lecito guarire. Per assurdo, no, no, non ti è lecito portare la barella. È l’invito all’oblio, a buttare via la parte malata, a non farne parte della propria vita da guariti. Vabbè, mo sei sano non sei più tra i poveretti, sei tra gente normale, entra nello schema. Mettiti ad esistere come se esistere fosse normale. Stai alle regole, alla legge. Non ti portare dietro ciò che sei stato. Non sei guarito, sei sano.

11Ma egli rispose loro: «Colui che mi ha guarito mi ha detto: «Prendi la tua barella e cammina»».

Ed egli, bello come il sole, anche qui le due risposte di quest’uomo malato sono meravigliose, tutte e due. A Gesù non risponde affatto alla domanda vuoi guarire o non vuoi guarire. E con questi non si mette a discutere sulla legge, sa che perderebbe che queste sono persone più esperte di lui sulla legge, ma semplicemente di fronte a un’evidenza:

«Colui che mi ha guarito mi ha detto: «Prendi la tua barella e cammina»».

La parola che mi ha curato mi ha detto, prendi la tua barella, non dimenticare. E quindi, poiché quella parola mi ha guarito, io non dimentico. È una realtà sola, non è una condizione per. Prima mi guarisce, poi mi dice prendi la tua barella, non lasciarla in giro. Riordina. Mi dice che per poter essere, vivere da guarito, devo portarmi dietro la mia barella. Ed è tutta questa parola che mi ha curato. La cura non mi ha negato i miei 38 anni malati. Quindi che volete da me?

12Gli domandarono allora: «Chi è l’uomo che ti ha detto: «Prendi e cammina»?».

E ancora una volta la risposta è bella: quell’uomo non lo sapeva. Tanto è sensata la domanda “vuoi guarire?” che nemmeno gli ha chiesto chi fosse. Perché la parola che cura è una parola nel senso migliore, non brutto di questo termine, tutt’altro, senza nome. Non viene da noi, viene sempre da Dio e quindi non è la mia parola che cura. Poi in molte delle nostre professioni, nelle professioni di cura, la parola che dico ha un peso, ma anche nella vita avere cura gli uni degli altri significa certe volte saper dire o saper tacere. Avere cura di se stessi significa sapersi dire o sapersi tacere delle cose. Ma non viene mai da noi la parola che cura davvero, è la parola creatrice di Dio, quella stessa che dice “sia la luce” e la luce fu. È una parola che viene sempre da altrove, ma non viene da Dio nel senso, come una specie di magia, uno zot dall’alto. Viene da Dio, perché è una parola che non può essere posseduta da qualcuno, che non può essere fermata. È una traiettoria del bene che per il mondo circola e che si può solo lasciar passare. Non è mia proprietà. Poiché oggi ho incontrato sulla via che da Gerusalemme scende a Gerico un uomo ferito, ne ho avuto cura e l’ho consegnato all’oste, non è detto che domani sia in grado di fare la stessa cosa. Perché la parola che cura viene da prima di noi, non ha diritti d’autore. E prosegue la sua strada per il mondo perché così Dio ha sognato il mondo. Non si accumula come un capitale, se si accumula marcisce come la manna presa per il giorno dopo.

13Ma colui che era stato guarito non sapeva chi fosse; Gesù, infatti, si era allontanato perché vi era folla in quel luogo.

Vi dicevo prima, Giovanni ci vuol far notare che Gesù non sta facendo una scena. Non sta facendo l’imbonitore televisivo che deve costituirsi un pubblico. Gesù sta curando con una parola che lo attraversa, che viene dal Padre, parola creatrice. Che rompe la paralisi che affida all’uomo a sé stesso, alla sua memoria, che ne fa un guarito, non un sano. Ma poi lui sparisce, non rimane lì.

14Poco dopo Gesù lo trovò nel tempio

È cambiata la scena. Non siamo più nel portico della piscina, vicino alla porta della città, in periferia, in un posto aperto dove si entra, si esce dove ci sono i poveretti. Siamo nel tempio, nel cuore del cuore, di ciò che è stabilito, nel cuore delle regole. Dove esattamente rispettare il sabato è quasi, sembra, tutta la realtà necessaria. Rispettare la purezza, rispettare tutta una serie di questioni.

e gli disse: «Ecco: sei guarito! Non peccare più, perché non ti accada qualcosa di peggio».

E anche qui è interessante, perché nel luogo dove ci sarebbe da prendere atto che Gesù ha trasgredito il sabato, Gesù dice all’uomo: “sei guarito, non peccare più”. Non ri-paralizzarti. Non lasciare che il “non fare in tempo” ti renda sterile. Sii uno capace di far passare la parola, che cura, farsi attraversare da essa, lasciarla andare oltre sé.

15Quell’uomo se ne andò e riferì ai Giudei che era stato Gesù a guarirlo.

Quell’uomo, fa esattamente quello che Gesù gli ha detto, lascia che la parola che cura lo attraversi e arrivi ai Giudei. Non la trattiene per sé. Non è il suo privilegio. La lascia andare.

16Per questo i Giudei perseguitavano Gesù, perché faceva tali cose di sabato.

Perché questi Giudei, almeno quelli a cui Giovanni si riferisce, non sono dei poveretti che stanno in attesa della propria guarigione. Sono qualcuno che ritiene di sapere come funzionano le cose. Che esiste, non che si cura e che si cura degli altri, di sé e degli altri. E dunque hanno un giudizio su Gesù, una parola di giudizio.

17Ma Gesù disse loro: «Il Padre mio agisce anche ora e anch’io agisco».

Il tempo dell’azione responsabile di cura è sempre, non c’è il sabato. E poiché la parola di cura circola come benedizione di Dio, non si può fermarla.

18Per questo i Giudei cercavano ancor più di ucciderlo, perché non soltanto violava il sabato, ma chiamava Dio suo Padre, facendosi uguale a Dio.

Quando nella Messa di domani reciteremo insieme il Padre Nostro forse ci chiederemo se siamo in grado di violare il sabato e chiamare Dio Padre perché siamo in grado di ricevere la domanda “vuoi guarire?” e di lasciar passare una parola di cura. Esistere diventa di più di se stesso se nell’azione, nel non smettere di agire, diventa curare e curarsi. Per chiudere questa riflessione volevo condividere con voi una piccola citazione che probabilmente alcuni di voi conoscono, e che mi piace tanto, sempre dalla “Cura dello sguardo” di Arminio.

Siamo inagibili. Io credo di appartenere ad una tipologia umani cui si parla poco: gli inagibili. L’uomo inagibile è come una casa colpita dal terremoto: non è caduta ma è pericoloso starci dentro. Il terremoto che rende inagibili gli umani in genere si verifica nell’infanzia. Non è detto che il terremoto è quello che ci raccontiamo noi, ricostruendo la nostra vita da soli o con l’aiuto di un analista. Il terremoto di cui parlo è molto misterioso, è qualcosa di diverso dal trauma. Gli inagibili sono inquieti di lungo corso, 38 anni. Con l’aggiunta di tremori feroci e improvvisi, nel mio caso sono gli attacchi di panico, ma ognuno ha il suo modo di arrivare al dunque con la vita. Le persone rotte temono di cadere, magari per un nuovo terremoto, anche lieve. Guariti, non sani, appunto. E il timore ancora più grande è la sensazione di essere irreparabili. Se chiudi una crepa se ne apre un’altra, se la nascondi se ne aprono tantissime, non sei più un essere umano, ma un allevamento di crepe. L’unico sollievo possibile per chi è inagibile è trovare persone con gli stessi problemi e farsi compagnia. Tu pensi di essere una sventura particolare e invece ti accorgi che è proprio la condizione umana a essere inagibile. E allora ti ritrovi fratello di gente che ti sembrava incolume e vigorosa. Tutta apparenza, la verità è che da tempo gli esseri umani sono divenuti inagibili o forse lo sono sempre stati. Siamo bruciati dalla vampa del venire al mondo e passiamo la vita dentro questa vampa fino a diventare cenere. La salute può venire solo dalla resa al nostro destino. La farfalla paga il suo prezzo a essere farfalla, la pietra paga il suo prezzo di essere pietra. Noi siamo vivi perché siamo inagibili, se fossimo saldi e senza crepe non saremmo carne viva ma calcestruzzo.

Mi piace molto finire con questo particolare dell’incredulità di Tommaso di Caravaggio. Il corpo glorioso risorto di Cristo ha delle piaghe così potenti che, come vedete, Tommaso può metterci mezzo dito dentro. Un vero inagibile. Ma la crepa nel costato di Gesù non gli fa male perché sennò urlerebbe, altro che guidare la mano di Tommaso, ma gli darebbe uno schiaffone cacciandolo via. E guardate la faccia di Tommaso: è veramente la nostra, non sa se essere schifato, stupito, ammirato. Non sa bene quale sentimento che lo abita.  Alzati, prendi la tua barella e cammina. Guarda. Un corpo guarito è meglio di un corpo sano. È un corpo glorioso. E forse questa è la Pasqua che siamo chiamati a celebrare quest’anno. La gioia della Pasqua, non la gioia che viene dall’essere sani, ma la gioia stupita un po’ schifata, preoccupata, ammirata di Tommaso. Esiste un corpo glorioso, inagibile, perché la carne viva, non è calcestruzzo. Fratello di tutti gli inagibili che ciascuno di noi abita e ospita dentro di sé.

Mi fermo qui.

Fossano, 27 marzo 2021

Testo non rivisto dall’autore

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