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19 Maggio 2018
Stella Morra

8. Ogni vento di dottrina

Commento a: Ef 4, 11-32


Ripresa

Siamo arrivati alla fine di questo percorso sul tema del cambiamento. A questo punto del percorso è chiaro come sia davvero difficile non tanto ragionare sui problemi, ma cogliere che il cambio di paradigmi in cui siamo messi è veramente grande. Anche chi parte da una logica di cambiamento, da un atteggiamento positivo rispetto al cambiamento, poi finisce per incagliarsi nel momento in cui cerca di applicare negli automatismi per cui continua a ragionare secondo schemi approcci e punti di vista che sono quelli precedenti. sa che non funzionano, ma i cambiamenti culturali di questa portata sono davvero rari.

Siamo in un cambiamento epocale, ci siamo in mezzo e non vediamo l’inizio e la fine, quindi non riusciamo a gestirlo, ci mancano le categorie per comprenderlo. Dunque la domanda diventa “come si fa ad abitare in un tempo di cambiamento” di cui probabilmente all’interno delle nostre vite non vedremo la fine. Ci toccherà passare il tempo della nostra vita dentro questa oscillazione. Il nostro peggior nemico sono le precomprensioni mentali e ci vuole un esercizio, molto paziente e molto umile, di conversione della mente e del cuore per abitare il cambiamento.

Fatta questa premessa richiamo brevemente i passi fatti fin qui. I primi quattro come al solito più descrittivi con brani dell’AT descrittivi delle dinamiche umane rispetto al cambiamento: Tobia la resistenza devota; Abramo e Lot, cambiamento e separazione, cambiamento e menzogna; Davide, il cambiamento ha un volto pubblico, non sempre riconoscibile; il testo di Deuteronomio, la strada il girare in tondo intorno alla montagna.

Questi quattro elementi in qualche modo ci danno la misura – tecnicamente si direbbe la fenomenologia -, delle dinamiche profonde che attraversano tutti i cambiamenti, cioè il modo in cui gli umani stanno nei cambiamenti. Sicuramente rispetto a duecento anni fa siamo un po’ più “cambiabili”, cioè siamo un po’ più abituati all’idea che si debba cambiare, abbiamo meno il culto della tradizione, del “si è sempre fatto così”. Però, forse, non siamo ancora così “cambiabili” a causa della velocità e della portata del cambiamento che rischia di essere molto più potente.

I quattro testi del NT – l’ultimo lo commento fra poco – sono quattro testi intorno a come Gesù abita il cambiamento. Uno solo riguardava Gesù, quello delle nozze di Cana, ovvero la necessità del realismo nel cambiamento. Poi c’era il testo degli Atti con la visione di Pietro sul puro impuro, la resistenza religiosa alla necessità del cambiamento. Cioè la religione (non solo il cristianesimo ) per sua stessa auto comprensione tende come tutte le esperienze umane ad accumularsi e a fare peso sugli animi, ad ostacolare il cambiamento qualsiasi essa sia. È l’immagine interiore ed esteriore del mercante di schiavi nel film “Mission” che risale la cascata tirandosi dietro il bagaglio del proprio passato che può essere interpretato sia esistenzialmente (ciascuno di noi si porta dietro il proprio passato che certe volte è un peso infinito) e sia strutturalmente (c’è un accumulo che impedisce il cambiamento). Terzo testo quello di 1 Corinzi sulla struttura relazionale del cambiamento in relazione a Dio, agli altri, a ciò che succede intorno. Il cambiamento non è un valore in sé, non si cambia per il gusto di cambiare come forse saremmo tentati di pensare; da un punto di vista cristologico la questione non è cambiare come valore in sé, ma essere aderenti alla realtà, lasciare che la realtà ci ponga domande a nome di Dio. Il contrario di questo atteggiamento non è la staticità, ma il narcisismo.

Vi invito a leggere il testo di Papa Francesco “Gaudete et Exultate” sulla santità destinata a tutti. Egli afferma che oggi ci sono due grandi pericoli mortali per la santità, lo gnosticismo e il pelagianesimo. Lo gnosticismo si identifica con il narcisismo: io so e perché so questo mi basta, niente mi interroga, niente mi raggiunge, niente mi tocca. Poi c’è il suo fratello gemello che è il pelagianesimo: io faccio e dato che faccio le cose queste sono giuste. Culturalmente siamo tutti un po’ gnostici e un po’ pelagiani. Molte persone che incontri dicono: “non dovrebbe essere così, non è giusto, ma che cosa facciamo perché non sia così”?

La lectio

Veniamo al capitolo 4 della lettera agli Efesini. È un testo bello ma anche complicato, tuttavia ritengo che abbiamo diritto a confrontarci anche con brani non semplicemente narrativi. Il titolo che ho dato alla lectio è “ogni vento di dottrina”, una citazione che viene dal testo. Confondere il cambiamento con ogni vento di dottrina è la grande tentazione dei buoni in questi tempi socio-politici e in questi tempi ecclesiali con Francesco. Sentiamo una spiegazione e ci pare giusta, ne sentiamo un’altra e diciamo “bisognerebbe fare così”, con la conseguenza che diventiamo incapaci di quello che la Scrittura ci suggerisce ovvero la “macrotimia”.

La “macrotimia” è la capacità di guardare lontano, è la capacità dell’agricoltore che con una sapienza antica pianta un ulivo sapendo che non ne raccoglierà i frutti eppure lo custodisce, lo fa crescere, lo innesta perché qualcun altro raccolga i frutti. È definita dalla Scrittura ed anche in Efesini come l’attitudine di coloro che custodiscono ciò che sanno non appartenergli, che non dipende totalmente da loro; dunque cercano di fare tutto quello che è in loro potere sapendo che non è loro proprietà né loro diritto. I cambiamenti di per sé non sono né bene né male, né giusti né sbagliati a priori, ma sono un esercizio di “macrotimia”; per questo sono importanti nella nostra storia con Dio: insegnano la misura e lo sguardo di Dio perché Dio è uno che guarda lontano.

Il testo della lettera agli Efesini fa parte delle cosiddette Lettere della Prigionia che Paolo scriverebbe intorno al 61/63 dopo Cristo, quindi nel periodo in cui Paolo è prigioniero per la prima volta a Roma, lontano dalle sue comunità, un po’ depresso, in una situazione di cambiamento; finito il primo slancio iniziato con la caduta da cavallo  e trascorsa una stagione della vita piena di energie e molto costruttiva, Paolo è posto di fronte al cambiamento che è rappresentato dalla vecchiaia e dalla prigionia. Paolo era una persona che viaggiava molto, fondava comunità, tornava, sgridava, teneva tutti sotto controllo, scriveva lettere a tutti… cioè era uno molto operativo ed anche efficace, un grande leader. Ora si trova in prigione, vecchio, non sa se potrà ancora viaggiare, non sa se rivedrà le comunità.

Per quanto riguarda l’autore e i destinatari della lettera vale un po’ quello che sappiamo della lettera di Paolo agli Ebrei, che non è di San Paolo e non è diretta agli Ebrei. Per questo prima ho usato il condizionale perché di per sé ormai quasi tutti gli esegeti sono d’accordo sul fatto che Efesini non sia di Paolo, ma sia stata redatta da un suo discepolo. Inoltre non sarebbe diretta agli Efesini ma ad una serie di Chiese dell’Asia Minore di cui Efeso era la comunità maggiore, verso la quale Paolo aveva più legami e per rinforzare l’idea che fosse di Paolo. È già una lettera circolare, una “newsletter”, non più una lettera individuale o rivolta ad una comunità specifica. Infatti, è un po’ più generica e ci sono meno questioni puntuali. In questo senso è diversa, ad esempio, dalla lettera ai Corinzi che è piena di casi concreti perché Paolo cerca di rispondere a domande precise. Efesini è una lettera vira già verso il catechismo, che compie già un’operazione di astrazione. Da questo punto di vista è una lettera più bella di altre perché poeticamente meglio costruita (si pensi all’Inno di Efesini, bellissimo e contemporaneamente già un po’ più “clericale”).

Il testo

11Ed egli ha dato ad alcuni di essere apostoli, ad altri di essere profeti, ad altri ancora di essere evangelisti, ad altri di essere pastori e maestri, 12per preparare i fratelli a compiere il ministero, allo scopo di edificare il corpo di Cristo, 13finché arriviamo tutti all’unità della fede e della conoscenza del Figlio di Dio, fino all’uomo perfetto, fino a raggiungere la misura della pienezza di Cristo. 14Così non saremo più fanciulli in balìa delle onde, trasportati qua e là da qualsiasi vento di dottrina, ingannati dagli uomini con quella astuzia che trascina all’errore. 15Al contrario, agendo secondo verità nella carità, cerchiamo di crescere in ogni cosa tendendo a lui, che è il capo, Cristo. 16Da lui tutto il corpo, ben compaginato e connesso, con la collaborazione di ogni giuntura, secondo l’energia propria di ogni membro, cresce in modo da edificare se stesso nella carità. 17Vi dico dunque e vi scongiuro nel Signore: non comportatevi più come i pagani con i loro vani pensieri, 18accecati nella loro mente, estranei alla vita di Dio a causa dell’ignoranza che è in loro e della durezza del loro cuore. 19Così, diventati insensibili, si sono abbandonati alla dissolutezza e, insaziabili, commettono ogni sorta di impurità.

20Ma voi non così avete imparato a conoscere il Cristo, 21se davvero gli avete dato ascolto e se in lui siete stati istruiti, secondo la verità che è in Gesù, 22ad abbandonare, con la sua condotta di prima, l’uomo vecchio che si corrompe seguendo le passioni ingannevoli, 23a rinnovarvi nello spirito della vostra mente 24e a rivestire l’uomo nuovo, creato secondo Dio nella giustizia e nella vera santità. 25Perciò, bando alla menzogna e dite ciascuno la verità al suo prossimo, perché siamo membra gli uni degli altri. 26Adiratevi, ma non peccate; non tramonti il sole sopra la vostra ira, 27e non date spazio al diavolo. 28Chi rubava non rubi più, anzi lavori operando il bene con le proprie mani, per poter condividere con chi si trova nel bisogno. 29Nessuna parola cattiva esca dalla vostra bocca, ma piuttosto parole buone che possano servire per un’opportuna edificazione, giovando a quelli che ascoltano. 30E non vogliate rattristare lo Spirito Santo di Dio, con il quale foste segnati per il giorno della redenzione. 31Scompaiano da voi ogni asprezza, sdegno, ira, grida e maldicenze con ogni sorta di malignità. 32Siate invece benevoli gli uni verso gli altri, misericordiosi, perdonandovi a vicenda come Dio ha perdonato a voi in Cristo.

Commento

11Ed egli ha dato ad alcuni di essere apostoli, ad altri di essere profeti, ad altri ancora di essere evangelisti, ad altri di essere pastori e maestri, 12per preparare i fratelli a compiere il ministero, allo scopo di edificare il corpo di Cristo, 13finché arriviamo tutti all’unità della fede e della conoscenza del Figlio di Dio, fino all’uomo perfetto, fino a raggiungere la misura della pienezza di Cristo.

Questo versetto 11 è un molto interessante e particolare perché ha dietro un problema di traduzione gigantesco. Il testo greco dice una cosa, invece tutte le lingue volgari contemporanee nelle traduzioni ufficiali (quella che vi ho letto è la traduzione della Cei) non traducono il greco, ma traducono diversamente. La versione italiana, così come quella francese, inglese, spagnola…  traducono: “Ed egli ha dato ad alcuni di essere apostoli, ad altri di essere profeti, ad altri ancora di essere evangelisti…”. Il problema è che il greco scrive: “Ed egli ha dato alcuni come apostoli, alcuni come profeti, alcuni come evangelisti, alcuni come pastori e maestri…”. Notate la diversità: un conto è dire “io ti do di essere, cioè che tu diventi una certa cosa”, diverso è dire: “io do alla Chiesa te come maestro, te come profeta…”. Nel primo caso – quello della traduzione ufficiale – la preoccupazione è su di te e su che cosa diventi tu, nell’altro caso la preoccupazione è sulla Chiesa. Tra l’altro la seconda parte di questa pericope (“a compiere il ministero, allo scopo di edificare il corpo di Cristo, finché arriviamo tutti all’unità della fede e della conoscenza del Figlio di Dio, fino all’uomo perfetto, fino a raggiungere la misura della pienezza di Cristo”) non funziona in relazione alla traduzione della prima parte. La preoccupazione è la Chiesa. Infatti, nel testo greco si dice che “Egli, Gesù, ha dato alla Chiesa alcuni come apostoli, alcuni…” cioè ha fornito la Chiesa di tutto quello che gli serviva per preparare tutti a compiere il ministero.

Ora, vi risparmio la serie di questioni dietro questa traduzione, tuttavia c’è un tema che per noi e per la nostra riflessione oggi è molto importante. Il tema – al centro di questo versetto – è ciò che è comune. Egli ha dato alla Chiesa una pluralità: ha dato alcuni come apostoli, altri come profeti, altri come evangelisti, altri come pastori e maestri allo scopo di… preparare i fratelli a compiere il ministero, edificare il corpo di Cristo, arrivare all’unità della fede fino all’uomo perfetto che raggiunge la misura della pienezza di Dio. In queste quattro azioni c’è il cuore della faccenda di cui stiamo parlando.

Il cambiamento radicale di fronte a cui le comunità dei primi secoli si trovano – un cambiamento paragonabile al nostro – è passare da una situazione insorgente di movimento che ha ancora una memoria di Gesù molto viva e un po’ entusiastica, a qualcosa d’altro. Il cambiamento si fa a partire da una pluralità verso una situazione comune, che non vuol dire unitaria o appiattita, e che è definita da quelle quattro azioni come obiettivo.

Su questo aspetto noi siamo molto interrogati. Perché ogni esperienza che noi facciamo del cambiamento in primo luogo non è finalizzata ad un “comune”, è finalizzata piuttosto all’obiettivo che io capisca, che gli altri capiscano, che io sappia spiegarmi, come comportarmi. In secondo luogo non parte da una pluralità. Noi infatti partiamo da un processo che ci ha unificati (il catechismo della Chiesa Cattolica ci ha reso tutti uguali) e faticosamente dobbiamo reimparare la lingua della pluralità, cioè di come si può essere apostoli, profeti, evangelisti, pastori, maestri: tutti per lo stesso comune.

È un nodo decisivo, provo a spiegarlo partendo da un altro punto. Semplificando, noi siamo in una cultura che ha ridotto tutto all’alternativa tra pubblico e privato. In Occidente abbiamo teorizzato e anche praticato la centralità del privato, poi alcuni hanno pensato la centralità (eventuale) del pubblico, però ci sono state discussioni. La nostra cultura si dibatte in questo dilemma. Il grande cambiamento verso cui siamo appellati dalla Scrittura rimanda ad una questione che non è a due poli (pubblico e privato), ma a tre (pubblico, privato, comune). C’è “un terzo”: il comune non è né privato né pubblico, è l’unico territorio dove la pluralità dei privati ha qualche cosa da fare rispetto a ciò che è pubblico. Pensate alle implicazioni che potrebbero derivare alla nostra vita civile e sociale. Già così la questione è importante, ma qui c’è qualcosa di più.

Sì, perché qui non si sta parlando di un comune qualsiasi, ma del comune dei discepoli di Cristo che è caratterizzato da quattro questioni: 1) preparare i fratelli a compiere il ministero, 2) allo scopo di edificare il corpo di Cristo, 3) finché arriviamo all’unità della fede, 4) fino all’uomo perfetto che raggiunge la misura della pienezza di Dio.

Parto dall’ultima: l’uomo perfetto che raggiunge la misura della pienezza di Dio. Essa rimanda a un bellissimo criterio: nella storia cristiana la perfezione è stata intesa in senso morale (è perfetto chi non sbaglia mai), in senso intellettuale (è perfetto chi è onnisciente); se è così Dio solo è perfetto. Qui invece c’è un’idea diversa di perfezione. La perfezione è questione di misura (“fino a raggiungere la misura della pienezza di Cristo”). Nel cambiamento se cerchiamo una perfezione morale o conoscitiva siamo finiti. Bisogna cercare una perfezione di misura, che allarga, che fa tanto spazio. Alla domanda: “cosa ti auguri succeda nel cambiamento?” la risposta della Scrittura è: l’uomo perfetto secondo la misura di Dio, che è una misura macro, extra large.

Questo attraverso tre questioni: 1) preparare i fratelli al ministero, 2) edificare il corpo di Cristo, 3) arrivare all’unità della fede.

Noi probabilmente diremmo: 1) formazione, preparare i fratelli, essere in un atteggiamento di training, non fermarsi mai, rimanere aperti alla formazione… 2) Poche chiacchere, bisogna fare, edificare, costruire poi magari essere pronti a smontare… 3) L’unità della fede accoglie tutte le pluralità dell’inizio, non è uniformità, ma unità di plurali. Ho fatto una traduzione nel linguaggio del Novecento ma questa è l’idea.

La conclusione è:

14Così non saremo più fanciulli in balìa delle onde, trasportati qua e là da qualsiasi vento di dottrina, ingannati dagli uomini con quella astuzia che trascina all’errore.

Il modo per non essere in balia delle onde del cambiamento, per non essere trasportati qua e là da qualsiasi vento di dottrina, ma per abitare il cambiamento è questo: sapere che la perfezione è una misura.

Di qui in avanti l’autore, sapendo che ha scritto qualcosa di molto denso, cerca di spiegarsi un po’ meglio; in effetti da qui in poi il testo è abbastanza “ripetitivo”: aggiunge delle cose, ma nella sostanza continua a ripetere il medesimo concetto.

15Al contrario, agendo secondo verità nella carità, cerchiamo di crescere in ogni cosa tendendo a lui, che è il capo, Cristo. 16Da lui tutto il corpo, ben compaginato e connesso, con la collaborazione di ogni giuntura, secondo l’energia propria di ogni membro, cresce in modo da edificare se stesso nella carità. 17Vi dico dunque e vi scongiuro nel Signore: non comportatevi più come i pagani con i loro vani pensieri, 18accecati nella loro mente, estranei alla vita di Dio a causa dell’ignoranza che è in loro e della durezza del loro cuore.

Crescere, cioè ancora una questione di misura: crescere è cambiare, crescere è prepararsi, ma crescere è anche agire, fare.

Con la chiave di lettura che vi ho dato prima il v. 16 diventa bellissimo. “Ben compaginato” non perché è tutto una massa unica, ma ben compaginato e connesso perché è costituito da tanti pezzi diversi che devono incastrarsi, devono girare bene “con la collaborazione di ogni giuntura, secondo l’energia propria di ogni membro, cresce in modo da edificare se stesso nella carità”.

Mi fermo su una questione: agire secondo verità nella carità. Questo è uno dei versetti più mal citati, spesso usati come delle clave: la verità nella carità, secondo il nostro paradigma, sarebbe: “siccome ti voglio bene, ti spiego quanto sbagli”. Ovviamente chiunque abbia avuto a che fare con un essere umano sa che questa interpretazione è una cavolata, un artificio retorico, una falsità.

Al contrario, nel paradigma e nella logica in cui sto cercando di muovermi, bisogna passare da una verità che “si sa o non si sa” ad una verità che “si fa o non si fa”. Verità e carità sono collegate, ma non nel senso che la verità si fa in termini morali (so la verità, ma non la dico, la faccio). Verità che si fa vuol dire una verità che fa se stessa, che edifica se stessa. Traduzione: la verità Gesù ce l’ha spiegata, ce l’ha data e ora noi ce l’abbiamo; se sono un rompiscatole la spiego, se sono molto coerente la faccio. No! La verità è davanti a noi, è dall’altra parte del cambiamento, oltre il guado che la storia è. Quindi la verità la costruiamo.

Domani festeggiamo Pentecoste, la festa dello Spirito che ci condurrà alla verità tutta intera, una frase che abbiamo ripetuto migliaia di volte. Questa espressione però implica che noi non abbiamo tutta la verità intera, perché la verità è davanti, non dietro di noi; noi siamo come Giovanni Battista, sulle soglie del Vangelo, perché il Vangelo è davanti e non storicamente dietro. Dunque la verità va fatta, cioè costruita nel riconoscimento della storia che accade da oggi fino alla fine del tempo. La storia non è solo il territorio in cui spieghiamo la verità, ma è il territorio in cui Dio ci conduce alla Verità tutta intera attraverso lo Spirito. Purtroppo l’Occidente latino ha dimenticato la figura dello Spirito Santo, mettendolo… in terz’ultima posizione. Ma lo Spirito Santo invece serve perché è esattamente colui che ci conduce alla verità tutta intera, che traghetta il cambiamento nella direzione di una verità che ancora non so.

Sempre per sottolineare e chiarire l’autore aggiunge:

17Vi dico dunque e vi scongiuro nel Signore: non comportatevi più come i pagani con i loro vani pensieri, 18accecati nella loro mente, estranei alla vita di Dio a causa dell’ignoranza che è in loro e della durezza del loro cuore. 19Così, diventati insensibili, si sono abbandonati alla dissolutezza e, insaziabili, commettono ogni sorta di impurità.

Il comportamento morale sbagliato è l’ultimo sintomo di vani pensieri, cecità che producono insensibilità rispetto alla storia. È la figura di Tobia il vecchio che essendo molto devoto ha vani pensieri, cioè è preoccupato solo di seppellire cadaveri, dunque diventa cieco, insensibile.

Rimanere fermi nella propria giustizia supponendo di possedere la verità è la garanzia di avere vani pensieri, cecità, insensibilità e dunque finire per diventare nonostante se stessi il più delle volte dei dissoluti.

Il succo su cui l’autore scongiura i suoi interlocutori è: attenzione! quello che può succedere è diventare insensibili e non raccogliere più la domanda che la storia pone.

20Ma voi non così avete imparato a conoscere il Cristo, 21se davvero gli avete dato ascolto e se in lui siete stati istruiti, secondo la verità che è in Gesù, 22ad abbandonare, con la sua condotta di prima, l’uomo vecchio che si corrompe seguendo le passioni ingannevoli, 23a rinnovarvi nello spirito della vostra mente 24e a rivestire l’uomo nuovo, creato secondo Dio nella giustizia e nella vera santità.

Il versetto 20 è micidiale perché il 90% di quello che viene prodotto nelle nostre Chiese se fosse rivolto a noi, ci romperemmo le scatole. Per anni ho organizzato incontri per adolescenti, a cui se mi avessero invitata come adolescente… non sarei andata.

In questo grande cambiamento la prima questione da porsi è una radicale onestà rispetto a se stessi, è dire come e dove questa cosa mi ha toccato, ha raggiunto il mio cuore, mi è sembrata significativa… perché quello che vale per me vale per tutti, se non convince me non convincerà nessuno, se non tocca me non toccherà nessuno. Non importa che sia teoricamente giusta.

Nei vv. 22-24 l’autore fa una connessione bellissima, dice che la nostra esperienza è abbandonare l’uomo vecchio e trovare l’uomo nuovo, cioè quella che tecnicamente chiamiamo conversione. Se quello che vi ha salvato è un cambiamento, il cambiamento sarà un problema? Forse ci salva tutti, nel nostro comune.

Creato secondo Dio nella giustizia e nella vera santità, ma come si fanno la vera giustizia e la vera santità?

25Perciò, bando alla menzogna e dite ciascuno la verità al suo prossimo, perché siamo membra gli uni degli altri.

La risposta numero uno è: bando alla menzogna. Il grande nemico è raccontare balle a se stessi innanzitutto e poi agli altri perché questo atteggiamento è la negazione del principio di realtà.

Mi fa molto riflettere questo fatto: nella tradizione cristiana degli ultimi duecento anni abbiamo avuto un ossessivo culto per la verità concettuale, per l’ortodossia, ma non abbiamo stigmatizzato il peccato di menzogna così fortemente come altri; anzi a partire dall’ossessione per la verità concettuale abbiamo costruito una logica per cui tutto ciò che è spontaneo (passioni, emozioni…) e senza mediazioni è un po’ pericoloso. Di per sé è il contrario: se la verità è davanti a noi, l’unica possibilità che ho per continuare a camminare verso la misura di Dio è di non raccontarmi balle, cioè di essere fin dove riesco onesto con me stesso e con la realtà.

26Adiratevi, ma non peccate; non tramonti il sole sopra la vostra ira

La risposta numero due è: Adiratevi, ma non peccate. È una citazione dell’AT ed è curiosa: adirarsi sarebbe un peccato? Cosa vuol dire questa espressione? Che non bisogna mai arrabbiarsi? Secondo la logica un po’ dissimulatoria di ogni struttura religiosa la menzogna non sarebbe così grave, perché in fondo uno non ha detto una bugia, semplicemente non ha detto tutta la verità. Ciò che è grave sarebbe l’arrabbiarsi, perché se ti arrabbi sei troppo diretto, troppo aggressivo.

Qui si dice: “adiratevi, ma non peccate”. Che significa: se ti serve una sana “incazzatura”, arrabbiati pure, perché il peccato sta da un’altra parte. La mia amica Manuela sostiene che dico questo perché sono una che si arrabbia facilmente. Può essere che valga qui il famoso detto: “Cicero pro domo sua”.

Poi prosegue con “non tramonti il sole sopra la vostra ira”: anche qui è una questione di misura. Cioè, uno si può arrabbiare ma non deve lasciare che la giornata finisca cioè che il tempo tramuti quell’ira in veleno.

27e non date spazio al diavolo.

Se è una questione di misura, il diavolo va messo in un angolo, non deve allargarsi; se bisogna avere la misura di Dio occorre stringere la misura del male.

E come si fa a stringere la misura del male? Lo spiegano i versetti successivi:

28Chi rubava non rubi più, anzi lavori operando il bene con le proprie mani, per poter condividere con chi si trova nel bisogno. 29Nessuna parola cattiva esca dalla vostra bocca, ma piuttosto parole buone che possano servire per un’opportuna edificazione, giovando a quelli che ascoltano. 30E non vogliate rattristare lo Spirito Santo di Dio, con il quale foste segnati per il giorno della redenzione. 31Scompaiano da voi ogni asprezza, sdegno, ira, grida e maldicenze con ogni sorta di malignità. 32Siate invece benevoli gli uni verso gli altri, misericordiosi, perdonandovi a vicenda come Dio ha perdonato a voi in Cristo.

È una questione di misura, perciò bisogna stringere la misura del diavolo, del male e prendere la misura di Dio. E quindi cambiare, mia nonna avrebbe detto emendarsi, laddove, se non ci raccontiamo delle storie, scopriamo che il nostro essere e agire cozza contro la realtà, contro gli altri, contro Dio.

Conclusione

In conclusione, il testo come abbiamo visto è un po’ complesso, ma spero almeno che la chiave di lettura iniziale ci aiuti a vedere dove va a parare.

È proprio un viatico non troppo emotivo, non consolatorio come i Salmi, ma più sostanzioso che ci conduce a comprendere cosa vuol dire abitare un cambiamento. Cioè stare dentro un tempo in cui non è così facile sapere con certezza di aver capito, individuare dove sta il bene e dove sta il male, essere sicuri se quello che si sta facendo serve al bene comune e non soltanto a me e via dicendo. In un tempo di cambiamento non capire bene cosa succede, non avere tutti gli elementi della questione, comporta la necessità di alcuni criteri che ci conducano verso una “macrotimia”, verso una misura abbondante che dunque possa contenere anche la nostra ira, il nostro sdegno, ma che garantisca soprattutto l’assenza di menzogna. Riflettendo sul discernimento durante il Seminario estivo proveremo a darci strumenti più concreti per abitare questo tempo di cambiamento. Da questo punto di vista credo però che la questione discriminante, almeno nel pratico, sia quella che dicevo all’inizio: il vero problema è come far sì che questi modi di abitare il cambiamento siano condivisi, comuni, e non semplicemente individuali, per non confondersi troppo e campare un po’ meglio. Da soli non si riesce a produrre consonanze intorno al cambiamento. La sfida è avere dei luoghi di vita condivisa, ecclesiali e non, dove mettere in comune gli strumenti per abitare il cambiamento.

Fossano, 19 maggio 2018

(Testo non rivisto dall’autore)

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