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6 Novembre 2010
Stella Morra

2. Parole e silenzi

Commento a: Gen 32, 23-33


Abbiamo iniziato la volta scorsa il nostro percorso di lectio sulla preghiera e abbiamo letto un testo del cantico, perché la questione della preghiera è una questione molto complessa: sotto questo termine si trovano mondi di immaginario, di preconcetto, di cose che ci hanno insegnato da bambini, cose che abbiamo scoperto da grandi, sensibilità personali, storie, stagioni diverse della vita, e la tentazione è quella di semplificare la questione, di ridurla ad uno solo dei suoi elementi. Per fare un esempio, nell’800 molto spesso la questione della preghiera è stata ridotta alla questione “delle preghiere”, una serie di formule da recitare. Noi oggi siamo refrattari all’idea delle formule imparate a memoria e ci ritroviamo meglio in una concezione della preghiera tra il romantico e lo psicologico, un’apertura d’anima con parole proprie, secondo i sentimenti che ci abitano. Ma accanto a questo c’è la sfera della preghiera liturgica, che prevede delle formule, un rituale che dunque non sappiamo più dove mettere. Dunque il problema principale per noi è trovare la sintonia tra la preghiera personale come esperienza interiore e la preghiera liturgica, che rischia di diventare puro formalismo, almeno inconsapevolmente.

L’altro grande problema che spesso gli adulti credenti hanno nella testa – stanchi di esprimerlo, perché si rendono conto che non ha soluzione – è il rapporto tra preghiera e tempo. Ciascuno di noi ha sentito vera, almeno una volta nella propria vita, la frase « non ho tempo per pregare ». Cosa significa «non ho tempo per pregare»? Non ho tempo per fare cosa? E che cos’è che mi distoglie dalla preghiera, è forse la vita? Qualcosa non funziona, in questo ragionamento.

Dall’altra parte c’è una tradizione – lo dico con una battuta – che ha reso spesso le preghiere la penitenza assegnata per la confessione, e questo ci ha fatto interiorizzare che pregare è una penitenza, un prezzo da pagare, un tempo in cui si deve sospendere tutto il resto e creare una serie di condizioni che – guarda caso – sono le più difficili da creare nelle nostre vite: il silenzio, la concentrazione, la solitudine, possibilmente senza addormentarsi…

La preghiera come “specifico”, la vita come “generico”

Ho fatto la scelta di affrontare questo magma di questioni in un modo che non è ovviamente né l’unico né quello definitivo, è parziale, è il mio, ma è quello che mi sembrava più interessante.

Vedrete progressivamente che nella scelta dei brani ho privilegiato proprio la tensione tra la preghiera intesa come attività specifica, con un suo tempo, un suo luogo una sua modalità, un suo “specifico”  e la vita, intesa come qualcosa di “generico”.

Tra l’altro, non sappiamo neppure definire quale sia lo “specifico” della preghiera; quando era chiaro per tutti che “la preghiera” erano “le preghiere” si capiva molto bene qual era lo specifico: si diceva il rosario e si era tranquilli, era chiaro che si era pregato, indipendentemente dal fatto di averlo fatto bene, o essersi distratti. Noi non sappiano più come comportarci: da una parte l’idea della preghiera come qualcosa che ha un tempo e dei modi propri, dall’altra il mondo della vita, le cose da fare, andare, venire, le persone, qualcosa appunto di “generico” di fronte alla preghiera, uno “specifico” che non si sa bene in che rapporto stia con tutto il resto.

Il criterio scelto – ribadito più volte nella scrittura – quello di usare in modo sacramentale l’esperienza dei rapporti umani come esperienza che ci da una direzione per capire il rapporto con Dio, vale anche per la preghiera. Le parole scambiate con le persone a cui vogliamo bene a volte richiedono un tempo particolare, una calma particolare, una “specifica”; a volte sono parole nostre, sentite, particolari, a volte sono parole comuni, ripetute da tutti, altre volte sono parole atematiche; dentro una relazione il dialogo può risolversi in un « oggi il pane lo compri tu » ed avere come risposta « no, oggi non faccio in tempo, pensaci tu »  Non è una comunicazione fondamentale, ma per quel giorno lì può essere sufficiente, non sempre c’è bisogno di parole tematiche.

E’ chiaro quanto sia complicato mantenere l’equilibrio tra lo specifico e il generale, può succedere che ci si faccia prendere dall’abitudine, finché non si arriva al punto in cui ci si trova a pensare « ma quanto tempo è che non ci parliamo », oppure, viceversa, ci si arrovella all’infinito su una questione, su una tensione, si parla e si parla finché uno dei due dice « basta, non ne posso più, per un po’ non ne parliamo, se no non ne usciamo vivi ».

Come dicevo già la volta scorsa, i primi tre incontri sono un repertorio, tratto sempre dalla scrittura, sui motivi per cui abbiamo tutti una domanda sulla preghiera, perché non è automatica.

Il desiderio di essere riconosciuti

Il primo elemento è che c’è in noi il desiderio di essere riconosciuti – ricordate il testo del cantico – un bisogno costante che si scontra con l’impossibilità che l’altro veda dentro di noi. Quando dico di me “io esisto”, ho bisogno che qualcuno al mondo riconosca questo “io”, ho bisogno che non vada perduto, dunque dico “io esisto” nella speranza che ci sia un interlocutore, che qualcuno stia a sentire, ed è questo il desiderio da cui muove la preghiera.

Spesso non sappiamo bene che cos’è la preghiera perché abbiamo perso la speranza di essere riconosciuti, abbiamo lasciato perdere. Dunque pregare diventa un’attività aggiuntiva, si prega perché si è credenti, ma non si sa che cosa andare a cercare.

Forse la prima questione dunque non è trovare o non trovare il tempo per pregare, ma chiederci se in noi è ancora vivo il desiderio che ciò che io sono non vada perduto, che ci sia da qualche parte un interlocutore che capisca almeno un po’ di quello che io vivo e che io sono.

Il secondo elemento che abbiamo ricavato la volta scorsa è il fatto che la soddisfazione e l’insoddisfazione fanno entrambe parte di una relazione ben riuscita, che trovarsi e perdersi, riconoscersi e dubitare di riconoscersi, cercarsi o tenersi, sono entrambe parti della relazione, non conta solo il risultato: rispetto al rapporto con Dio e alla nostra stessa vita siamo tutti contagiati dalla logica della prestazione, perché siamo immersi in una cultura in cui ciò che conta è il risultato, mentre nelle cose serie della vita – ce lo diciamo sempre ma non so quanto riusciamo a gustarlo – il risultato e il percorso sono almeno altrettanto importanti, e certe volte il percorso è addirittura più importante del risultato. Dunque il desiderio di essere riconosciuti non è importante perché alla fine qualcuno mi riconosce, ma perché se io vivo come uno che ha bisogno di essere riconosciuto vivo come uno che ha mantenuto aperto il desiderio di essere riconosciuto.

A volte soddisfatti, a volte no, ma dentro una relazione

Se ci confrontiamo con la scrittura, se prendiamo il libro dei salmi, un classico libro di preghiere, ci rendiamo conto che ci sono dentro la fiducia e la sfiducia, l’imprecazione e la lode, perché anche nella relazione con Dio non si vive solo il dato positivo della soddisfazione, ma anche l’esperienza di pregare male, di sentirsi non esaudito. Accade esattamente come in una relazione interpersonale in cui parlare con l’altro non sempre è un’esperienza gratificante, ma l’importante è non smettere di parlarsi, perché se non mi interessa più che tu mi riconosca, se non ho più speranza che tu possa comprendere, allora neanche le cose belle possono più essere dette. Una relazione vera regge i tempi buoni e i tempi cattivi, una relazione che interrotta non regge più neanche i tempi buoni, nemmeno le cose gentili hanno più uno spazio.

La preghiera come un tempo ordinario, che è vita, e non è alternativo alla vita, un tempo che a volte ha luoghi, dei tempi e dei modalità specifiche, tempi in cui è necessario pensare solo a quello, ma più spesso vive di ordinari età, un tempo in cui le cose che faccio le faccio semplicemente con Dio, un’esperienza che comprende in sé la soddisfazione e l’insoddisfazione.

Molto spesso nelle questioni di fede ci poniamo come se la questione sia trovare la soluzione ai problemi, ma la vita è ciò che accade mentre noi stiamo cercando le soluzioni: i cadaveri hanno tutte le soluzioni, perché non hanno più problemi. La soluzione a volte c’è, a volte no, a volte richiede un tempo per essere costruita, a volte non arriva mai, ma nel frattempo abbiamo vissuto, ed è esattamente questa la questione della preghiera.

La lotta di Giacobbe

Il testo di oggi è la parte finale del capitolo 32 di Genesi – un testo già commentato altre volte, ma come sempre la scrittura ci mostra sfumature e aspetti nuovi ogni volta che la rileggiamo – ed è stato intitolato “parole e silenzi”. E’ il testo famoso della lotta di Giacobbe. Personalmente credo che la grande questione della preghiera sia la ricerca di una parola che non è solo verbale ma è un uscire da se stessi, dal mistero che siamo, dal luogo che abitiamo interiormente per incontrare un altro ed essere riconosciuti e raccolti, non essere perduti nell’universo. Tutto questo avviene attraverso la parola, l’unica esperienza che abbiamo nella vita di qualcosa che produciamo attraverso la convenzione che è il linguaggio verbale – o attraverso gestualità che se sufficientemente scrutate sono parlanti. Io produco una parola e questa, nel momento in cui è detta non torna indietro, ha immediatamente una sua autonomia; io metto fuori di me un pezzo della mia anima e lei se ne va, gli altri la capiscono, non la capiscono la raccolgono, la travisano, non posso più controllarla. Questo è un altro dei motivi per cui fa paura pregare, perché nella preghiera metto fuori un pezzo della mia anima e, come un figlio che se ne va per le proprie strade, non sono più io a governarlo.

Veniamo dunque al testo.

Il testo

[23] Durante quella notte egli si alzò, prese le due mogli, le due schiave, i suoi undici figli e passò il guado dello Iabbok.

[24] Li prese, fece loro passare il torrente e fece passare anche tutti i suoi averi.

[25] Giacobbe rimase solo e un uomo lottò con lui fino allo spuntare dell’aurora.

[26] Vedendo che non riusciva a vincerlo, lo colpì all’articolazione del femore e l’articolazione del femore di Giacobbe si slogò, mentre continuava a lottare con lui.

[27] Quegli disse: “Lasciami andare, perché è spuntata l’aurora”. Giacobbe rispose: “Non ti lascerò, se non mi avrai benedetto!”.

[28] Gli domandò: “Come ti chiami?”. Rispose: “Giacobbe”.

[29] Riprese: “Non ti chiamerai più Giacobbe, ma Israele, perché hai combattuto con Dio e con gli uomini e hai vinto!”.

[30] Giacobbe allora gli chiese: “Dimmi il tuo nome”. Gli rispose: “Perché mi chiedi il nome?”. E qui lo benedisse.

[31] Allora Giacobbe chiamò quel luogo Penuel “Perché – disse – ho visto Dio faccia a faccia, eppure la mia vita è rimasta salva”.

[32] Spuntava il sole, quando Giacobbe passò Penuel e zoppicava all’anca.

[33] Per questo gli Israeliti, fino ad oggi, non mangiano il nervo sciatico, che è sopra l’articolazione del femore, perché quegli aveva colpito l’articolazione del femore di Giacobbe nel nervo sciatico.

Durante quella notte egli si alzò, prese le due mogli, le due schiave, i suoi undici figli e passò il guado dello Iabbok.

Come spesso accade nei racconti biblici, i primi versetti ci indicano la direzione, sono il titolo del brano. Questo è un versetto potente, contiene le coordinate che definiscono la cornice in cui può accadere quello che succede dopo: una notte, un prendere, un passare. Sono queste le coordinate fondamentali in questo esercizio di parole e di silenzi che è la preghiera.

Il prendere. L’immagine è patriarcale, la cultura è – diremmo noi – maschilista. Giacobbe prende mogli, schiave, figli – il suo possesso in quanto maschio. Prende in mano le proprie cose: l’esatto contrario di quando pensiamo di non avere tempo per pregare perché la vita, le nostre cose, ci distraggono. Il punto di partenza è questo, Giacobbe prende in mano la propria vita, le cose che ha, le persone, le relazioni e passa – il secondo verbo – un guado.  E’ un tempo di passaggio.

Il passare. Noi siamo portati ad immaginare che i tempi di passaggio siano quelli esistenziali, che nella vita fortunatamente sono tre o 4, l’adolescenza, la mezza età… una serie di passaggi in cui le nostre vite possono cambiare radicalmente. Ma la saggezza popolare ha sempre sostenuto che la vita è un passaggio, è l’abitare un mondo che è sotto taglia per noi. Ogni tanto dico scherzando che abbiamo un desiderio ‘extralarge’ e una vita ‘small’, abitiamo questo mondo che non ha la misura del nostro desiderio, per cui, se ci guardiamo dentro, l’unica possibilità che abbiamo sarebbe l’insoddisfazione, perché non c’è nulla che funzioni come vorremmo. Siamo sempre in un passaggio, di fronte ad un guado: la nostra verità è nelle mani di Dio e ci sarà data un giorno, ma questa vita è l’unica che abbiamo, ogni tanto siamo contenti, ci sono tante cose belle, persone, affetti, ma siamo sempre di fronte a un passaggio, ogni cosa bella porta sempre in sé un segno di insoddisfazione. E allora torno all’inizio: le tre condizioni sono prendere in mano la propria vita, riconoscerle una qualità di passaggio, di guado, cioè riconoscere la sovrabbondanza del nostro desiderio rispetto alle possibilità concrete, riconoscere che vorremmo, più vita, più parole, più verità, e tutto questo avviene nella notte. Abbiamo detto molte volte che nella scrittura la notte è un tempo strano, ambivalente, tutto ciò che succede di importante nell’antico testamento tra Dio e l’uomo succede di notte, dall’Esodo alla Pasqua, alla creazione, le manifestazioni sono sempre nel sonno. Le notti sono tempi di nascita e il pensiero antico sa che i tempi di nascita sono anche un rischio di morte, un trauma, un passaggio. Allora per pregare bisogna avere una misura reale del nostro desiderio e della sua ambiguità, sapere che ogni desiderio di vita è anche un rischio di morte, che non è vero che la vita è una bella avventura, la vita può essere una grande fregatura. Per esempio, amare qualcuno significa mettersi a rischio di sofferenza, se non altro perché un giorno morirà. Perciò abbiamo tutti la tendenza, un po’ borghese, ad abbassare il livello, a cercare di partecipare meno per soffrire meno. Qui si dice invece che per pregare bisogna essere consapevoli di essere in una notte, prendere in mano la propria vita, il proprio desiderio ed essere disponibili a riconoscerlo come un passaggio. Traduco con parole che ci sono familiari: sapere che l’evangelo dice che non siamo tutti lì, che la nostra vita ha il massimo della dignità, tutto ciò che abbiamo è noi stessi, non abbiamo altro, ma essere credenti significa sapere che non siamo tutti lì in ciò che abbiamo, sapere che la parte migliore di noi deve ancora venire e che soprattutto non è in nostro possesso, non la possiamo governare.

Li prese, fece loro passare il torrente e fece passare anche tutti i suoi averi.

Non solo le persone, anche le cose. C’è la sacramentalità delle cose, è come se G si spogliasse di ogni difesa e riconoscesse che lui non è nelle proprie cose né nei propri affetti, che non è tutto lì, che c’è altro ed è questo altro che lui vuole che sia riconosciuto, che abbia un nome. Dunque si dice che G rimase solo e un uomo lottò con lui fino allo spuntare dell’aurora. G rimase solo: c’è la meravigliosa questione del rimanere soli. Lo dico in modo ironico: si fa una grande retorica sulla necessità di cercare la  solitudine per pregare, cioè una condizione che il 90% degli adulti normali considererebbe come una vacanza in una beauty-farm, nel senso che quasi tutte le madri stressate dallo stare 24 ore al giorno dietro ai propri figli sarebbero ben liete di stare da sole in un posto tranquillo dove qualcun altro cucina! Ma la solitudine di cui qui si parla è un’altra, quella che ci fa paura, addirittura ci sposiamo, facciamo dei figli per non essere soli così, nell’illusione di combattere una solitudine radicale che alla fine ci frega in ogni caso, nel senso che è parte di noi. Possiamo essere sposati felicemente, avere dei deliziosi figli che amiamo e ritrovarci comunque soli. C’è una dimensione di solitudine molto seria ed è la solitudine che ciascuno di noi prova rispetto alla serietà della propria vita, al movimento profondo del rapporto tra il desiderio e la realtà che ognuno di noi ha dentro di sé, rispetto all’esperienza quotidiana di misurare la nostra impotenza rispetto al governo del mondo, a fare andare la vita come dovrebbe andare secondo noi. E ci vuole del coraggio per rimanere soli e non fare tutte le operazioni che si fanno per evitarlo, a partire dal gesto banale di accendere il televisore, un modo per riempire il vuoto di rumore, ma il problema non è tenere spenta o accesa la tv, ma essere capaci di abitare la propria solitudine. E qui secondo me ci sarebbe un bell’esercizio da fare, cioè chiederci qual è la nostra solitudine di adulti e come la possiamo abitare invece di rimuoverla, negarla, temerla, ecc.

G rimase solo e un uomo lottò con lui fino allo spuntare dell’aurora.

Qui come al solito il testo biblico ha un linguaggio piano: “un uomo lottò con lui”; poi, nella tradizione questo testo è “G lotta con l’angelo” e nelle nostre teste è “G lotta con Dio”. È diventato un passaggio in automatico.

Ma chi era costui? Con chi lotta G? Non lo sappiamo evidentemente, anche perché fino qui c’è un radicale silenzio, che è proprio della solitudine. Perché comincia a lottare? Deduciamo, dalla parte successiva del racconto, che c’è un problema di benedizione, di nome, ma non si capisce bene. Quest’uomo compare e lotta nella notte. Come spesso accade, la scrittura lascia un segno, una parola aperta perché l’umanità possa ritrovarcisi di volta in volta dando un nome a questo uomo che può essere dio, un altro, un angelo, me stesso. Non c’è una soluzione sola, un modo giusto di capire questo testo, che è volutamente lasciato aperto. Quello che qui ci viene detto di interessante è che se uno ha il coraggio di restare solo prima o poi lotta: a me piace molto in questo contesto di lettura pensare a questa lotta come la nostra costante lotta contro il silenzio. Quello che G vuole estorcere a quest’uomo sono parole. Noi lottiamo per rompere il silenzio che ci abita dentro perché abbiamo un grande desiderio di mettere fuori. Ma abbiamo anche paura di mettere fuori, perché poi chissà gli altri cosa fanno con questi figli primogeniti che sono le mie parole, che faccio così fatica a partorire. Ci metto dei secoli e poi  magari gli altri mi dicono “Ma questo figlio ti è venuto storto, è bruttissimo… ma che hai detto?”. E tu hai fatto una grande lotta con il tuo silenzio per vincere la tua solitudine e provare a mettere fuori una parola.

Vedendo che non riusciva a vincerlo, lo colpì all’articolazione del femore e l’articolazione del femore di G si slogò, mentre continuava a lottare con lui.

Il fatto interessantissimo di questo testo è che a vincere è Giacobbe. Il testo ci dice la nostra potenza profonda: se abbiamo il coraggio di stare sui piedi della nostra solitudine, di lottare con il silenzio che ci sommerge, siamo in grado di vincere. E il silenzio non riesce a vincere, anzi bara. G continua a lottare ma è il corpo che lo ferma (e qui gli psicoanalisti potrebbero fare mille letture…).

Cioè, le parole non sono solo un fatto di parole, frasi dette o non dette. Le parole sono la totalità del nostro corpo, e certe volte ci vuole tutta la nostra energia – chi sta in un rapporto amoroso da più di un anno lo sa bene – solo per prendere il mio corpo e portarlo lì, per non scappare via, e magari non avere nulla da dire… Nella preghiera è la stessa cosa. Sant’Ignazio scrive: “Non posso obbligare la mia mente a rimanere concentrata su Dio, non posso obbligare il mio cuore ad amare Dio senza distrazioni, ma posso obbligare il mio corpo a rimanere qui”. Certe volte questa cosa che sembra il minimo in realtà è il massimo che possiamo fare. Il rapporto tra corpi e parole è molto complesso: a volte le parole dicono una cosa, il corpo l’opposto.

G continua a lottare, è testardo, ha una grande caparbietà… e ci sono le prime parole. Fino qui c’è sempre stato il silenzio, ma ora G ottiene ciò che vuole e il silenzio si muta in parola.

Quegli disse: “Lasciami andare, perché è spuntata l’aurora”.

Sta finendo il tempo pericoloso della notte, quello che è nato è nato e dunque quell’altro dice: “Lasciami andare…”.

Giacobbe rispose: “Non ti lascerò, se non mi avrai benedetto!”

Abbiamo tante volte sottolineato la parola ‘benedizione’ significa ‘dire il bene’; quante volte abbiamo bisogno di benedizione per la nostra vita! Benedizione non come gesto magico, ma parole che dicano il bene della nostra vita, lo riconoscano, lo facciano rifiorire.

Ciò che G vuole estorcere è una parola di benedizione, una parola che sia pronunciata, fatta circolare. Non conta ciò che G pensi della propria vita, ma che una parola sia pronunciata.

Gli domandò: “Come ti chiami?”. Rispose: “Giacobbe”.

L’altro risponde con una domanda: “Come ti chiami?”. Nella struttura della mentalità antica le parole qui pronunciate sono quelle essenziali. Sono due tipi di parole (figlie di una lotta, non chiacchiere da mercato): la benedizione e il nome. Due parole fondamentali: dire il bene sulla e della vita; dare, imporre il nome. In linguaggio romantico si potrebbe tradurre con “Benedici la mia vita perché tu sei mio”, “dimmi che sono tua perché tu sei mio”.

Se noi uscissimo un po’ dalla mentalità romantica (di cui siamo figli) e ricominciassimo a usare le categorie bibliche staremmo anche un po’ meglio. Se le nostre si dividessero in parole che benedicono e parole che danno e ricevono nomi il nostro parlare sarebbe un po’ più sano.

Riprese: “Non ti chiamerai più Giacobbe, ma Israele, perché hai combattuto con Dio e con gli uomini e hai vinto!”.

Quell’altro gli cambia nome: non più Giacobbe, ma Israele. Che diventerà anche il nome del popolo. Israele diventerà un nome comunicativo, che caratterizza l’alleanza tra Dio e il suo popolo. Un nome grandissimo nel tempo, nello spazio, nella quantità… E come se qui si dicesse: bisogna combattere con il silenzio per avere un nome che duri, perché qualcuno possa ripetere il nostro nome, riconoscerci nel tempo.

Giacobbe allora gli chiese: “Dimmi il tuo nome”. Gli rispose: “Perché mi chiedi il nome?”. E qui lo benedisse.

G impara immediatamente il meccanismo e prova a sua volta a chiedere il nome. Qui c’è il segno della differenza del lottare con le nostre parole. Dio, la storia, la realtà possono cambiarci nome, ma noi non possiamo cambiare nome a Dio, alla storia, alla realtà. Anche nella pienezza del nostro desiderio noi possiamo solo benedire perché non siamo Dio.

L’altro risponde con una nuova domanda “Perché mi chiedi il nome?” ma non attende la risposta e “lo benedisse”. G ottiene quel che voleva. Una benedizione sulla propria vita, una domanda che rimane aperta… G non saprà mai qual è il nome di quest’uomo, angelo o Dio con cui ha lottato, ma può dare il nome al luogo.

Allora Giacobbe chiamò quel luogo Penuel “Perché – disse – ho visto Dio faccia a faccia, eppure la mia vita è rimasta salva”. Spuntava il sole, quando Giacobbe passò Penuel e zoppicava all’anca.

G sa dare un nome al luogo, e da questa lotta non si esce uguali a prima, si esce zoppicando. Non perché abbiamo imparato qualcosa, ma perché ognuna di queste lotte ci lascia una cicatrice, un livido, un’ammaccatura… una ruga, si dovrebbe dire oggi, che siamo così terrorizzati dai segni sul nostro viso. Ciò che accade non è solo un’operazione intellettuale, ma corporea.

Torniamo ora alla questione rimasta in sospeso: chi è questo Dio, uomo, angelo? G lo riconosce come Dio e dice « ho visto Dio faccia a faccia »; nella pittura e nell’iconografia è spesso rappresentato come un angelo; la Bibbia usa un termine ambivalente, che viene tradotto come “un uomo”.

Tutte queste identificazioni possono essere di volta in volta sovrapposte. Noi lottiamo con l’altro che ci abita, col desiderio più grande di noi che sta nel nostro cuore, e se siamo credenti sappiamo che quel desiderio è l’immagine di Dio posta in noi dalla creazione.  Dunque l’altro che mi abita, viene da Dio ed è fuori misura, è gigantesco, allora lottiamo dentro di noi, fuori di noi, psicologicamente, sociologicamente… in mille modi, ma la questione è la tensione tra parole e silenzi, è sapere che le parole così come i silenzi alla fine lasciano zoppicanti, che da questa lotta, si può uscire guariti ma non sani, perché è una lotta che avviene di notte, che comporta il rischio di rimanere soli. In questa cornice l’idea di una preghiera come espressione di parole e di silenzi comincia a prendere una forma, secondo me. Abbiamo bisogno di essere riconosciuti, ed è un bisogno che ogni tanto si esprime in modo tematico, che possiamo dire a parole, ma è un bisogno che attraversa la nostra esistenza sotto forma di una lotta contro il silenzio che ci abita sempre.

Fossano, 6 novembre 2010

(testo non rivisto dal relatore)

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