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20 Ottobre 2018
Stella Morra

1. Tra verità e sincerità

Commento a: Gen 44, 1 – 45,8


Introduzione al percorso

La riflessione del seminario svoltosi a Pra ‘d Mill del luglio scorso sul discernimento, peraltro interessantissima, ha lasciato aperto il tema del discernimento, che detto male sarebbe: alla fine ognuno fa come gli pare. Su tutto si può valutare, comprendere. Le storie individuali hanno un peso, e dunque? È un po’ il tempo in cui viviamo, cioè in cui credo, l’esperienza di molti di noi è quella di dire: «Tutti la raccontano come gli pare»: non per usare il solito slogan delle fake news, però ognuno la racconta come gli pare. Escludiamo pure quelli che lo fanno in modo disonesto, ma anche tra quelli che lo fanno in modo onesto ci sono delle differenze di interpretazione sulla realtà, sulle cose, in cui dici: «Ma come possiamo ancora confrontarci?» Allora, a partire da queste due esperienze, su questa seconda in particolare rispetto alle questioni ecclesiali, per esempio sempre più spesso, succede che certi comportamenti, certe parole, certe scelte del Papa a me fanno un effetto istintivo di un certo genere (bello, a volte anche brutto, ma mi fanno un effetto), poi il giorno dopo vai a leggere i vari commenti, e ti dici: «Stiamo parlando della stessa cosa?». Ti viene il dubbio che non si riferiscano alla stessa parola o allo stesso gesto, perché l’interpretazione è radicalmente un’altra.

Allora, in questa logica, l’idea che ci è venuta è di fare un percorso sul tema della verità. Ci sembra un tema sempre più difficile, una parola da prendere con le pinze. Non solo e non immediatamente in termini filosofici, su cui la discussione potrebbe essere gigantesca, ma non è questo l’ambito; ma proprio su una verità come un luogo, il luogo minimo, su cui appoggiarsi per dialogare, confrontarsi, anche pensarla diversamente. Perché un conto è dire: “Ok, più o meno ci capiamo su quali sono i dati del problema, poi io penso che vada risolto così e tu pensi che vada risolto cosà, però più o meno il problema lo vediamo in questo modo”. Un altro conto è dire: “Stiamo guardando due cose diverse, la tua preoccupazione, il tuo scopo, i termini che tu vedi, sembra che siano un’altra realtà rispetto a quella che vedo io”.

Questo, se volete è il tema verità/realtà, o per dirla in termini più classici: si dà una verità in qualche modo oggettiva? Perché evidentemente questo è un criterio fondamentale rispetto al discernimento. Se no, l’alternativa, è che il discernimento, anche ecclesiale, è che ognuno “se la canta e se la suona”, cioè ognuno deve studiare, pensare, capire, farsi un giudizio, e poi rimane da solo di fronte a qualsiasi cosa. Allora è chiaro che questo non ha senso. Amoris Laetitia invita a un discernimento comunitario, il che vuol dire che devi avere dei criteri, se non dei contenuti, almeno dei criteri condivisi, che non possono essere usati come macigni, delle spade per uccidere la gente, ma da cui partire per ragionare. Per esempio, è come dire: «Ok il discernimento comunitario presuppone almeno che più o meno parliamo tutti la stessa lingua, l’italiano.» Dopodiché uno lo parla meglio, uno lo parla peggio, quell’altro ha più vocaboli, quell’altro meno, cioè ci sono differenze, però abbiamo lo strumento minimo per. Questa era l’idea di partenza: su questa idea mi sono messa a lavorare, scoperchiando dentro di me degli universi (per cui, praticamente, avevo materiale per una decina di anni di lectio se la cosa vi può interessare). E per cui poi ho poi dovuto fare una serie di scelte di cui non sono totalmente soddisfatta, però fa uguale.

Mi sembra che questa faccenda, tra l’altro, tocchi un tema molto tradizionale dell’esperienza credente. Gli evangelisti fanno dire a Gesù come autodefinizione di sé: “Io sono via, verità e vita”. Anche in modo molto istintivo “via” i cristiani lo hanno spesso interpretato, senza nemmeno saperlo e in termini un po’ più morali, che strada fare, come comportarsi, ecc.; “verità” è spesso stata identificata con la dottrina; e “vita” con la carità, con la sovrabbondanza, non sbagliare strada ma avere anche un po’ coraggio creativo di alcune cose. Ora, ci sembra che il rapporto tra verità e dottrina stia un po’ cambiando, non sia più possibile identificare immediatamente verità e dottrina, rischiamo semplicemente di omettere questa parola. ”via” più o meno so cosa vuol dire, “vita” più o meno so cosa vuole: Gesù è via, Gesù è vita, che Gesù è verità, sarà anche vero, ma è troppo complicato, lo lasciamo in secondo piano. Mi sembra, invece, che questa sia una questione rilevante, grossa. Dunque, il titolo che abbiamo scelto è un po’ inquietante: La verità che non ragiona…di una verità che si va facendo e, spesso, non si sa. Viene dalla poesia di Davide Maria Turoldo sotto il titolo, che dice così:

Vivi di noi.
Sei
La verità che non ragiona.
Un Dio che pena
Nel cuore dell’uomo

David Maria Turoldo

Qui si potrebbe parlare per ore, invece ognuno di noi si rigira in bocca la poesia come una caramella, se la gusta come gli pare. Diciamo: è chiaro che per molto tempo l’idea di Dio è stata identificata con una ragione, spesso con la ragione filosofica, no? E questo è stato pieno di conseguenze negli ultimi mille anni. Da un lato l’identificazione della verità con la dottrina; dall’altro il fatto che la chiesa si è divisa in docente/discente: chi sapeva di filosofia, di teologia, spiegava a quegli altri che non avevano ragione, che erano sempre un po’ minorenni, non avevano strumenti per. Ma, ci sono modi molto contemporanei, apparentemente molto moderni, di dire la stessa cosa. A fine agosto ho sentito un rinomato teologo dire che Papa Francesco è perfetto, è la provvidenza da parte di Dio per questa Chiesa, ma il popolo di Dio non è preparato a capirlo. Che uno dice: «Vabbè però ragazzi dirlo di papa Francesco significa proprio avere la faccia come non si sa!» Nel senso che cosa vuol dire “non è preparato a capirlo?” Giustamente uno dell’assemblea – tra l’altro in termini molto colti, aveva detto che papa Francesco chiama i lettori a diventare protagonisti della fabula, del racconto, e ma il popolo di Dio non è preparato a essere protagonista -, e giustamente uno dell’assemblea ha alzato il ditino, e ha detto: «Ha ragione, bellissima relazione,» quando iniziava a fare troppi complimenti mi dicevo: «Ok adesso arriva la mazzata» e infatti gli ha detto: «Io volevo dire che secondo me il popolo di Dio è non solo preparato, ma è già dentro il racconto, ma in un altro racconto, non in quello che si racconta lei.» E trovo che ha detto benissimo una sensazione che abbiamo un po’ tutti. Cioè da una parte c’è una ragione che è molto raffinata, ma che pare che se la raccontino in sette o in settanta o in settecento e si capiscano solo tra di loro, e poi c’è il popolo di Dio, la gente comune, credenti, non credenti, tutti noi che in qualche modo stanno dentro il racconto delle loro vite. Hanno molte ragioni nelle loro vite compatibili con la vita sociale, dunque in grado di assumerci delle responsabilità, in alcune stagioni della nostra esistenza con molta fatica.

Sono proprio due racconti paralleli che vanno avanti ignorandosi a vicenda, con protagonisti, da una parte e dall’altra, considerati impreparati. Da questo punto di vista: “Un Dio che pena nel cuore dell’uomo, la verità che non ragiona”. E mi piaceva, per questo periodo, questo verso come titolo. Però poi il titolo aggiunge: “di una verità che si va facendo”. Spesso non si sa, perché spessissimo la verità, anche in noi stessi, è collegata all’idea di conoscere, sapere di concetto, di parola. Però, se io dico la verità di un’amicizia, tutti sappiamo che il problema non sono i concetti. La verità di un amore, il problema non sono i concetti. Anzi è difficilissimo spiegare cos’è la verità di un amore. Il problema della verità di un amore, è quello per cui dopo ventisei anni di matrimonio uno guarda indietro e dice: «Caspita abbiamo fatto un pezzo di verità». Non è per questo assicurato che dal ventisettesimo in poi continuerà a farlo. Perché è di nuovo alle prese dal fare la verità di quell’amore lì, che si nutre della storia passata ma contemporaneamente posto di fronte alle vite che cambiano, alle stagioni, alle questioni, ai desideri, ai pensieri. Quindi una verità che si fa, vuol dire semplicemente, moralisticamente, che non basta parlare ma bisogna fare le opere: vuol dire proprio che non la sai finché non l’hai fatta, che la sai all’indietro. Si può dire riferito a Dio che la verità si fa? Che la verità è al fondo dell’ultimo giorno o è nella creazione all’inizio, già data come un pacchetto? Allora, questo è lo scenario.

Sotto la poesia di Turoldo che ci slanciava grandi aperture commoventi, ho messo una poesia della Szymborska, che è una delle poche donne premio Nobel per la letteratura. A me piace molto, anche se è una di quelle da leggere nei pomeriggi da solo in cui sei molto allegro. Di suo è tendenzialmente un po’ deprimente, però è molto lucida, dice delle cose vere. Si intitola Scrivere un curriculum:

Che cos’è necessario?
È necessario scrivere una domanda,
e alla domanda allegare il curriculum.
A prescindere da quanto si è vissuto
è bene che il curriculum sia breve.
È d’obbligo concisione e selezione dei fatti.
Cambiare paesaggi in indirizzi
e malcerti ricordi in date fisse.
Di tutti gli amori basta quello coniugale,
e dei bambini solo quelli nati.
Conta di più chi ti conosce di chi conosci tu.
I viaggi solo se all’estero.
L’appartenenza a un che, ma senza perché.
Onorificenze senza motivazione.

Scrivi come se non parlassi mai con te stesso
e ti evitassi.
Sorvola su cani, gatti e uccelli,
cianfrusaglie del passato, amici e sogni.
Meglio il prezzo che il valore
e il titolo che il contenuto.
Meglio il numero di scarpa, che non dove va
colui per cui ti scambiano.
Aggiungi una foto con l’orecchio in vista.
È la sua forma che conta, non ciò che sente.
Cosa si sente?
Il fragore delle macchine che tritano la carta.

Wislawa Szymborska

Fa venire un po’ spavento perché, se ci pensiamo, è proprio un tempo un po’ così: dove rischiamo tutti di essere distolti rispetto alla verità, spostati dal contenuto al titolo dal valore al prezzo. Non solo nello scrivere un curriculum, che magari non abbiamo voglia, tempo, necessità di scrivere, ma proprio in tutta l’esistenza. Solo che se invece di guardare la forma uno sta a sentire quello che sente, quella carta lì su cui abbiamo scritto il prezzo e non il valore, viene triturata, passa nel trita-documenti, non dura, non resta. La verità dovrebbe in qualche modo cercare di essere qualcosa che resta.

Ecco questo è lo scenario del tema su cui proveremo a misurarci, con una convinzione profonda che voglio ripetere, benché la sappiamo tutti, ma proprio per fare l’esercizio di dire il valore e non il prezzo, e cioè tutti gli anni comincio il percorso di lectio cercando le tracce sottili della grazia che la Parola di Dio ci consente di vedere nelle nostre vite. Questo è un tempo in cui – almeno io – sono abbastanza tentata di essere più inquieta, sfiduciata, che non capace di riconoscere la grazia. Ho un po’ di agitazione. Cominciare ancora un percorso di lectio per me significa compiere ancora una volta un atto di fiducia che Dio è già lì, che non dobbiamo portarlo da nessuna parte, in nessun tempo, e che si tratta di avere gli occhi giusti per riconoscere i segni della grazia, che in tempi misteriosi, faticosi, confusi, ci sono. Quindi, questo mi sembra l’idea del fare la verità e, in particolare, anche in questo momento, mi sembra che l’esercizio è fare la verità anche dell’Atrio, cioè fare questa assemblea vuol dire anche provare a fare una verità, no? Di parlare del valore, non del prezzo, del dove ci portano le scarpe e non di che numero sono. Provare a capire sapendo che possiamo anche sbagliare, ma compiendo lo stesso atto di fiducia, che Dio è già lì e che questo non è un’opzione, non c’è una scelta: è così.

La lectio

Il testo con cui iniziamo questa sera è un testo molto noto, e che io, personalmente, amo molto. Non tanto il singolo testo che leggiamo. Stasera ho scelto una selezione già fin troppo lunga, ma non riuscivo a tagliare di più. Proprio la storia di cui questo testo fa parte è molto conosciuta, molto narrata e ha avuto tante forme, anche un cartone animato, ecc. È una storia da infanzia, perché fa parte del ciclo dei patriarchi, ed è la storia di Giuseppe. Come tutte le storie dei patriarchi è una di quelle storie in cui la Bibbia ci aiuta ad andare all’ABC delle cose. I patriarchi, sapete, rappresentano in qualche modo la struttura fondamentale dell’antropologico. Abramo: l’amico di Dio, l’uomo di fede, quello che esce, ha tutte queste immagini che sono legate al grande tema dell’affidamento, del rischio dell’affidamento. Tutta la storia di Abramo è costruita in modo narrativo per parlarci della questione dell’affidamento. Poi, c’è Isacco, che è solo figlio, il padre sembra che lui non lo faccia, è il figlio che Sara ha avuto in vecchiaia. E ci dice l’altro grande tema umano, che è quello delle relazioni, non solo quelle paritetiche, ma quelle di dove veniamo e dove andiamo, del passato e del futuro, delle radici e del progetto. I patriarchi sono un po’ tutti così, ognuno serve a caratterizzare, diventa un po’ la figura tipica o tipologica di una delle grandi dimensioni dell’umano.

Giuseppe normalmente è raccontato come il sognatore, il visionario, l’interprete. Tanti modi. Se cercate nel museo diocesano la storia di Giuseppe vedete vari quadri, o se avete partecipato alle iniziative del museo diocesano avete Giuseppe nelle orecchie. La sua storia è la storia dell’interpretazione, un primo segnale rispetto al nostro tema. Ci viene detto che tra le questioni fondamentali dell’uomo c’è l’interpretazione, fino al punto di diventare una figura tipologica, un patriarca. Questa fatica a riconoscere la realtà, la verità, come capisco io, come te lo racconto, cosa succede davvero, è proprio una faccenda, come l’affidamento, come da dove veniamo dove andiamo, non è una cosa dei tempi. In certi tempi li rende più difficile, altri li rende più facili, in certi è più confuso, in altri è più lineare, ma gli esseri umani in quanto esseri umani hanno un tema di interpretazione. Se non ci basta la Bibbia, i greci si erano inventati addirittura un Dio apposta, Ermes, Dio dell’interpretazione. I cristiani dicono che lo Spirito Santo è lo spirito dei profeti, della lettura, della scrittura, delle cose che succedono e sono un po’ oscure. Anche Maria che aspetta un figlio, c’è sotto lo Spirito Santo, cioè c’è un tema di interpretazione. Allora, questa è la prima notizia: il rapporto tra la realtà e la verità, cioè la capacità di dire la realtà, di abitarla, di comunicarla, di confrontarci su di essa, di trafficarla, è mediata con l’interpretazione. Fino a quando? Fino a dove? Quanto si può? Quanto non si può? Dove diventa menzogna? È un problema, altrimenti non c’era una storia di un patriarca. In particolare, Giuseppe ci pone di fronte a un tema radicale sulla questione del rapporto tra verità e sincerità.

Gli adulti tendono ad avere idee un po’ confuse su questi temi, cioè a freddo l’idea sarebbe: se sono sincero è vero, se è vero sono sincero. Le due cose sono sinonimi. C’è un piccolo particolare, poiché un tema fondamentale è l’interpretazione, verità e sincerità non sono sinonimi. Si può essere sinceri e non veri, veri e non sinceri. È complicato il rapporto tra queste due cose ed è esattamente il caso della storia di Giuseppe: magari se avete voglia di leggerla sta nei capitoli finali dal 35-45, gli ultimi capitoli di Genesi. È una storia bella, non lunghissima, appassionante. Nella storia di Giuseppe si vede bene la differenza tra sincerità e verità. Io ho scelto un pezzo di questa storia, dove il tema mi pareva più chiaro. Ma potete davvero raccogliere una serie di altri spunti in tutta la sua storia. È uno di quelli divertenti, più belli: a un certo punto la moglie del Visir del regno del Faraone, si innamora di Giuseppe ma non può dirglielo perché pare brutto, essendo lei già sposata ad un altro. Alla fine, addirittura, si ferisce la lingua, proprio una grande simbolica del rapporto tra sincerità e verità! Così parla male e non si capisce cosa dice, e così ha risolto il problema. Allora, c’è tutto un gioco molto semplice nella narrazione, ma che se letto sotto questa luce è molto interessante perché riproduce gli schemi che tutti abbiamo attraversato, da quando abbiamo compiuto quattro anni e abbiamo detto “non sono stato io”, fino a oggi, più o meno tutti quegli schemi di rapporto tra sincerità e verità. Il pezzo di storia su cui vorrei invitare a soffermarci è uno dei pezzi finali. Riassumo per sommi capi: Giuseppe unico figlio, in un contesto poligamico, della moglie amata di Giacobbe. Fino quasi alla fine unico figlio, poi avrà un fratello, il secondo figlio di questa moglie, che si chiama Beniamino, che è il più piccolo dei figli di Giacobbe. Giuseppe in quanto unico figlio di Rachele, era trattato in modo privilegiato rispetto ai figli delle altre mogli, così suscita l’ira dei fratelli, che vogliono farlo fuori, cercano di ucciderlo, non ci riescono, quindi lo buttano in una cisterna e lo vendono. Fanno un po’ di casino, poi tornano a casa con le sue vesti sporche di sangue e dicono al padre che è morto.

Giuseppe continua la sua storia altrove: è un escluso, viene portato in Egitto, dove viene messo in prigione, però poi interpreta in maniera corretta i sogni del Faraone… le sette vacche magre, le sette grasse, le sette spighe piene e le sette secche, cioè: «Ci sono sette anni di abbondanza, poi verranno sette di carestia, metti da parte per dopo.» La storia gli dà ragione, la realtà gli dà ragione. Quindi il faraone dice: «Figo questo qua. Teniamocelo buono, perché interpreta, raccorda i sogni e la realtà.» Ne fa quindi un uomo potente. A quel punto, durante la carestia, famiglia di Giuseppe rimane senza beni e due volte scende in Egitto per cercare viveri. Lui già la prima volta li frega un po’, nel senso che gli vende i viveri, ma poi gli fa mettere nei sacchi insieme al grano anche il denaro che loro avevano pagato, cioè gli regala i viveri. Quelli dicono: «Oddio, se questi scoprono che non abbiamo pagato ci fanno la guerra.» Gli riportano il denaro, poi tornano una seconda volta. Insomma, la storia è complicata ed è tutta una storia di questo genere.

Genesi 44,1 – 45,8

44 1Giuseppe diede quest’ordine al suo maggiordomo: «Riempi i sacchi di questi uomini di tanti viveri quanti ne possono portare e metti il denaro di ciascuno di loro alla bocca del suo sacco. 2Metti la mia coppa, la coppa d’argento, alla bocca del sacco del più giovane, assieme al denaro del suo grano». Ed egli fece come Giuseppe aveva detto.

3La mattina, appena fu giorno, quegli uomini furono fatti partire con i loro asini. 4Quando furono usciti dalla città e non erano ancora lontani, Giuseppe disse al suo maggiordomo: «Parti, vai dietro a quegli uomini e quando li avrai raggiunti dirai loro: “Perché avete reso male per bene? 5Non è quella la coppa dalla quale il mio signore beve e di cui si serve per trarre presagi? Avete fatto male a fare questo!”» 6Egli li raggiunse e disse loro quelle parole. 7Essi gli risposero: «Perché il mio signore ci rivolge parole come queste? Dio preservi i tuoi servi dal fare una cosa simile. 8Ecco noi ti abbiamo riportato dal paese di Canaan il denaro che avevamo trovato alla bocca dei nostri sacchi; come dunque avremmo rubato dell’argento o dell’oro dalla casa del tuo signore? 9Quello dei tuoi servi presso il quale si troverà la coppa sia messo a morte e noi pure saremo schiavi del tuo signore!» 10Ed egli disse: «Ebbene, sia fatto come dite: colui presso il quale essa sarà trovata, sarà mio schiavo e voi sarete innocenti». 11In tutta fretta, ognuno di loro scaricò a terra il proprio sacco, e ciascuno aprì il suo. 12Il maggiordomo li frugò, cominciando da quello del maggiore, per finire con quello del più giovane; la coppa fu trovata nel sacco di Beniamino.

13Allora quelli si stracciarono le vesti, ognuno ricaricò il suo asino e tornarono alla città. 14Giuda e i suoi fratelli arrivarono alla casa di Giuseppe, il quale era ancora lì; si gettarono con la faccia a terra davanti a lui. 15Giuseppe disse loro: «Che azione è questa che avete fatto? Non lo sapete che un uomo come me ha il potere di indovinare?» 16Giuda rispose: «Che diremo al mio signore? Quali parole useremo? O come ci giustificheremo? Dio ha trovato l’iniquità dei tuoi servi. Ecco, siamo schiavi del mio signore: tanto noi, quanto colui in mano del quale è stata trovata la coppa». 17Ma Giuseppe disse: «Dio mi guardi dal far questo! L’uomo nella cui mano è stata trovata la coppa, lui sarà mio schiavo; quanto a voi, tornate in pace da vostro padre».

18Allora Giuda si avvicinò a Giuseppe e disse: «Mio signore, permetti al tuo servo di fare udire una parola al mio signore. La tua ira non si accenda contro il tuo servo, poiché tu sei come il faraone. 19Il mio signore interrogò i suoi servi, dicendo: “Avete un padre o un fratello?” 20Noi rispondemmo al mio signore: “Abbiamo un padre che è vecchio, con un giovane figlio, natogli nella vecchiaia; il fratello di questi è morto, è rimasto lui soltanto dei figli di sua madre, e suo padre lo ama”. 21Allora tu dicesti ai tuoi servi: “Fatelo scendere da me perché io lo veda con i miei occhi”. 22Noi dicemmo al mio signore: “Il ragazzo non può lasciare suo padre perché, se lo lasciasse, suo padre morirebbe”. 23Tu dicesti ai tuoi servi: “Se il vostro fratello più giovane non scende con voi, voi non vedrete più la mia faccia”. 24Come fummo risaliti da mio padre, tuo servo, gli riferimmo le parole del mio signore. 25Poi nostro padre disse: “Tornate a comprare un po’ di viveri”. 26E noi rispondemmo: “Non possiamo scendere laggiù; se il nostro fratello più giovane verrà con noi, scenderemo; perché non possiamo vedere la faccia di quell’uomo, se il nostro fratello più giovane non è con noi”. 27Mio padre, tuo servo, ci rispose: “Voi sapete che mia moglie mi partorì due figli; 28uno di questi partì da me, e io dissi: «Certamente, egli è stato sbranato»; e non l’ho più visto da allora; 29se mi togliete anche questo, se gli capita qualche disgrazia, voi farete scendere con tristezza i miei capelli bianchi nel soggiorno dei morti”. 30Or dunque, quando giungerò da mio padre, tuo servo, se il ragazzo, alla vita del quale la sua è legata, non è con noi, 31avverrà che, come avrà visto che il ragazzo non c’è, egli morirà e i tuoi servi avranno fatto scendere con tristezza i capelli bianchi del tuo servo, nostro padre, nel soggiorno dei morti. 32Siccome il tuo servo si è reso garante del ragazzo presso mio padre e gli ha detto: “Se non te lo riconduco, sarò per sempre colpevole verso mio padre”, 33ti prego, permetti ora che il tuo servo rimanga schiavo del mio signore invece del ragazzo e che il ragazzo se ne torni con i suoi fratelli. 34Altrimenti, come farei a risalire da mio padre senza avere il ragazzo con me? Ah, che io non veda il dolore che ne verrebbe a mio padre».

45 1Allora Giuseppe non poté più contenersi davanti a tutto il suo seguito e gridò: «Fate uscire tutti dalla mia presenza!» Nessuno rimase con Giuseppe quando egli si fece riconoscere dai suoi fratelli. 2Alzò la voce piangendo; gli Egiziani lo udirono e l’udì la casa del faraone. 3Giuseppe disse ai suoi fratelli: «Io sono Giuseppe; mio padre vive ancora?» Ma i suoi fratelli non gli potevano rispondere, perché erano atterriti dalla sua presenza. 4Giuseppe disse ai suoi fratelli: «Vi prego, avvicinatevi a me!» Quelli s’avvicinarono ed egli disse: «Io sono Giuseppe, vostro fratello, che voi vendeste perché fosse portato in Egitto. 5Ma ora non vi rattristate, né vi dispiaccia di avermi venduto perché io fossi portato qui; poiché Dio mi ha mandato qui prima di voi per conservarvi in vita. 6Infatti, sono due anni che la carestia è nel paese e ce ne saranno altri cinque, durante i quali non ci sarà raccolto né mietitura. 7Ma Dio mi ha mandato qui prima di voi, perché sia conservato di voi un residuo sulla terra e per salvare la vita a molti scampati. 8Non siete dunque voi che mi avete mandato qui, ma è Dio. Egli mi ha stabilito come padre del faraone, signore di tutta la sua casa e governatore di tutto il paese d’Egitto.

Siamo verso la fine, durante il secondo ritorno dei fratelli in Egitto.

44 1Giuseppe diede quest’ordine al suo maggiordomo: «Riempi i sacchi di questi uomini di tanti viveri quanti ne possono portare e metti il denaro di ciascuno di loro alla bocca del suo sacco. 2 Metti la mia coppa, la coppa d’argento, alla bocca del sacco del più giovane, assieme al denaro del suo grano».

Nel riassunto ho dimenticato di dirvi che però Giuseppe, nel primo viaggio, per perdonare la storia dei soldi, dice: «Dovete tornare con il vostro fratello più giovane, Beniamino.» che era rimasto l’unico figlio della moglie amata. Ovviamente, c’era stato un dramma, il padre non voleva lasciarlo partire, perché aveva già perso Giuseppe. Dice a se stesso: «Adesso perdo Beniamino.», ma poi lo lascia andare.

2 Ed egli fece come Giuseppe aveva detto.

Già in questi due versetti, c’è un sacco di roba interessante. Intanto, Giuseppe ha un maggiordomo, cioè Giuseppe, venduto, cacciato, minacciato di morte, schiavo, ha completamente girato la sua esistenza. E uno dice: «I casi della vita, la fortuna, anche no, forse?» Oppure, l’interpretazione, la capacità di mettere insieme sogni e realtà. Guardate che se uno dice: «La capacità di mettere insieme sogni e realtà gira l’esistenza» è un’affermazione pesante: si passa da una prigione ad avere un maggiordomo. Non ho il tempo di soffermarmi ma qui già si potrebbe ragionare molto. Per di più Giuseppe fa questo giochetto con i suoi fratelli sotto il segno di un potere, a partire dal denaro e dalla coppa, non cose qualsiasi. Il denaro è qui – si dovrebbe dire con la poesia di prima – il valore e il prezzo. Il denaro, va bene, è solo il prezzo, no? Certo, diventa un furto, perché il denaro, comunque pagato, se ti viene restituito insieme all’oggetto è un furto, ma la coppa è molto di più. Perché in una civiltà antica è davvero il segno del potere. Non dobbiamo immaginare una società come la nostra che abbiamo gli armadi pieni di bicchieri. La coppa è il segno – tra l’altro, pensate quante volte nella Scrittura compare una coppa: la coppa della benedizione, la coppa che deve circolare nella cena dell’Esodo, la coppa della cena pasquale di Gesù che diventa il calice -, l’ultimo figlio di questa simbolica è il calice che è talmente potente, che nonostante Vaticano II non si dà nemmeno ancora ai laici nell’ordinarietà perché fa un po’ impressione e perché, dall’altra parte, bere allo stesso calice, bere alla stessa coppa, è una contaminazione. È un segno potentissimo. Cosa dice Giuseppe? Mettete nel sacco del più giovane la mia coppa per costruire l’accusa contro il più giovane, contro Beniamino, di avere attentato non solo ai suoi averi, ma alla sua intimità più profonda, alla sua simbolica: tutto è calcolato, costruito. Giuseppe è l’organizzatore della disfatta altrui.

3La mattina, appena fu giorno, quegli uomini furono fatti partire con i loro asini. 4Quando furono usciti dalla città e non erano ancora lontani, Giuseppe disse al suo maggiordomo: «Parti, vai dietro a quegli uomini e quando li avrai raggiunti dirai loro: “Perché avete reso male per bene? 5Non è quella la coppa dalla quale il mio signore beve e di cui si serve per trarre presagi? Avete fatto male a fare questo!”» 6Egli li raggiunse e disse loro quelle parole.

Giuseppe costruisce l’inganno e dice: «Attenzione, è dalla coppa che io ricavo i miei presagi, che io interpreto. Mi avete rubato il potere di interpretazione: la possibilità di tenere insieme i sogni e la realtà. Peggio di così non potevate fare!» Peccato che è tutto falso, perché quelli non hanno rubato niente.

7Essi gli risposero: «Perché il mio signore ci rivolge parole come queste? Dio preservi i tuoi servi dal fare una cosa simile. 8Ecco noi ti abbiamo riportato dal paese di Canaan il denaro che avevamo trovato alla bocca dei nostri sacchi; come dunque avremmo rubato dell’argento o dell’oro dalla casa del tuo signore? 9Quello dei tuoi servi presso il quale si troverà la coppa sia messo a morte e noi pure saremo schiavi del tuo signore!» 10Ed egli disse: «Ebbene, sia fatto come dite: colui presso il quale essa sarà trovata, sarà mio schiavo e voi sarete innocenti».

Sono talmente sicuri, si sentono talmente a posto, sono talmente sinceri, proprio perché avendo trovato il denaro onestamente lo avevano riportato, che dicono: «Figurati, non può essere. Guarda, se lo trovi mettilo a morte!»

11In tutta fretta, ognuno di loro scaricò a terra il proprio sacco, e ciascuno aprì il suo. 12Il maggiordomo li frugò, cominciando da quello del maggiore, per finire con quello del più giovane; la coppa fu trovata nel sacco di Beniamino.

Giuseppe, l’interprete, sa di Beniamino, anche se non era più presso il padre, sa che Beniamino è il prediletto. È un interprete, come dire costruisce per andare a picchiare dove fa più male, proprio nel punto delicato. La questione è: le cose cosa dicono? Che questi sono dei ladri. Ma noi, che abbiamo letto la storia che cosa diciamo? Che Giuseppe è un gran bastardo, perché è lui che ha organizzato tutto. Loro, poveracci, stanno dalla parte della totale sincerità.

13Allora quelli si stracciarono le vesti, ognuno ricaricò il suo asino e tornarono alla città. 14Giuda e i suoi fratelli arrivarono alla casa di Giuseppe, il quale era ancora lì; si gettarono con la faccia a terra davanti a lui. 15Giuseppe disse loro: «Che azione è questa che avete fatto? Non lo sapete che un uomo come me ha il potere di indovinare?»

Se so tenere insieme i sogni e la realtà, saprò sempre che avete rubato. Il potere della verità viene usato da Giuseppe come una mannaia, ma tutto, tutta la storia, comincia da questo ritorno. Tornano in città. C’è il ritorno al luogo del delitto. Non so come dire: quando verità e sincerità vanno in confitto bisogna tornare dove tutto è cominciato. Loro non sanno minimamente che alla fine del racconto, il luogo in cui torneranno è molto più indietro: è il loro aver venduto Giuseppe. Per adesso tornano in città e si sentono pure sinceri. Peccato che non sono veri, perché la verità richiederebbe un ritorno molto più indietro e sarà questo a cui Giuseppe li costringe.

16Giuda rispose: «Che diremo al mio signore? Quali parole useremo? O come ci giustificheremo? Dio ha trovato l’iniquità dei tuoi servi. Ecco, siamo schiavi del mio signore: tanto noi, quanto colui in mano del quale è stata trovata la coppa».

Non hanno vie di uscita. Questa è veramente la situazione in cui noi diremmo: «È la vita che mi ha messo in questa situazione.» Molto sinceramente diremmo: «È andata così.»

17Ma Giuseppe disse: «Dio mi guardi dal far questo! L’uomo nella cui mano è stata trovata la coppa, lui sarà mio schiavo; quanto a voi, tornate in pace da vostro padre».

I fratelli sono legati alla sincerità delle cose. Giuseppe, che mente a tutto spiano, va a colpire dove può esserci una verità delle relazioni, e di per sé non è affatto sincero sulle cose ma mette in processo – per dirla come diceva prima Nadia – è un processo di verità.

18Allora Giuda si avvicinò a Giuseppe e disse: «Mio signore, permetti al tuo servo di fare udire una parola al mio signore. La tua ira non si accenda contro il tuo servo, poiché tu sei come il faraone. 19Il mio signore interrogò i suoi servi, dicendo: “Avete un padre o un fratello?” 20Noi rispondemmo al mio signore: “Abbiamo un padre che è vecchio, con un giovane figlio, natogli nella vecchiaia; il fratello di questi è morto, è rimasto lui soltanto dei figli di sua madre, e suo padre lo ama”. 21Allora tu dicesti ai tuoi servi: “Fatelo scendere da me perché io lo veda con i miei occhi”. 22Noi dicemmo al mio signore: “Il ragazzo non può lasciare suo padre perché, se lo lasciasse, suo padre morirebbe”. 23Tu dicesti ai tuoi servi: “Se il vostro fratello più giovane non scende con voi, voi non vedrete più la mia faccia”. 2 Come fummo risaliti da mio padre, tuo servo, gli riferimmo le parole del mio signore. 25Poi nostro padre disse: “Tornate a comprare un po’ di viveri”. 2 E noi rispondemmo: “Non possiamo scendere laggiù; se il nostro fratello più giovane verrà con noi, scenderemo; perché non possiamo vedere la faccia di quell’uomo, se il nostro fratello più giovane non è con noi”.

Rifà tutta la storia. Proseguo per qualche versetto:

2 Mio padre, tuo servo, ci rispose: “Voi sapete che mia moglie mi partorì due figli; 28uno di questi partì da me, e io dissi: «Certamente, egli è stato sbranato»; e non l’ho più visto da allora;

Questo fratello, che fa questo atto di memoria, è molto sincero. Fa molta tenerezza perché spiega a Giuseppe tutta una storia che noi sappiamo già e che smentirebbe, o sarebbe smascherata, dalla falsità di Giuseppe, che ha costruito questa cosa. Ma qual è il piccolo particolare in quest’atto di memoria? Non c’è nessuna assunzione di responsabilità. Perché non dice niente del fatto che tutta questa vicenda comincia con la loro invidia nei confronti di Giuseppe. E non c’è cattiveria, lui descrive se stesso come in mezzo a due volontà: la volontà di colui che è simile al faraone, che lui non sa essere Giuseppe, e del padre. E lui dice: «Che devo fare? Qui o faccio dispiacere a te, oppure faccio morire di dolore mio padre. Sono in mezzo a due volontà in una via senza uscita.» Piccolo particolare: l’atto di memoria è l’atto incompleto. Perché il passaggio dalla sincerità alla verità è in primo luogo garantito da un atto di memoria che assume la responsabilità. In cui la memoria, la storia, si declina con la responsabilità. Giuseppe si assume la responsabilità, per esempio, la responsabilità di mentire, di costruire tutta la storia per arrivare al dunque, per arrivare al punto, per mettere i fratelli nella condizione di comprendere.

29se mi togliete anche questo, se gli capita qualche disgrazia, voi farete scendere con tristezza i miei capelli bianchi nel soggiorno dei morti”.

Loro riferiscono le parole del padre a Giuseppe. Piccolo particolare: quella cosa è più vera di quanto siano consapevoli. Perché sono loro che hanno portato via il primo. E quindi il padre non lo sa: è una verità che non sanno e che non sanno riconoscere, ma è una verità che il padre sta dicendo la verità: «Se mi porterete via anche questo…». Ora, conclude il fratello parlando con Giuseppe:

30Or dunque, quando giungerò da mio padre, tuo servo, se il ragazzo, alla vita del quale la sua è legata, non è con noi, 31avverrà che, come avrà visto che il ragazzo non c’è, egli morirà e i tuoi servi avranno fatto scendere con tristezza i capelli bianchi del tuo servo, nostro padre, nel soggiorno dei morti. 32Siccome il tuo servo si è reso garante del ragazzo presso mio padre e gli ha detto: “Se non te lo riconduco, sarò per sempre colpevole verso mio padre”, 33ti prego, permetti ora che il tuo servo rimanga schiavo del mio signore invece del ragazzo e che il ragazzo se ne torni con i suoi fratelli. 34Altrimenti, come farei a risalire da mio padre senza avere il ragazzo con me? Ah, che io non veda il dolore che ne verrebbe a mio padre».

È una storia bloccata. In cui c’è di peggio che non assumersi la responsabilità: ed è assumersi la responsabilità sbagliata. Che costruisce una logica di vittimismo: «Piglia me al suo posto.» Perché non potrei sopportare di far morire mio padre. Vedete come la logica s’ingarbuglia immediatamente. La non chiara distinzione tra sincerità e verità mette subito in gioco una successione di confusione. Poi uno dice: «È difficile discernere!» Si certo, è difficile discernere, perché la storia è lunga. Perché abbiamo incominciato a dire: «Non è colpa mia dal seno di nostra madre. E qui, come in tutti buoni racconti dei patriarchi, si innesca immediatamente la svolta.

45 1Allora Giuseppe non poté più contenersi davanti a tutto il suo seguito e gridò: «Fate uscire tutti dalla mia presenza!»

E uno dice: «Come? Questo ha calcolato tutto, ha fatto una costruzione molto raffinata, bella calcolata, questo gli fa tutta sta piva che è un’assunzione di responsabilità vittimistica assumendosi la responsabilità sbagliata e allora Giuseppe lo manda al diavolo? Gli dice che cavolo dici? Gli dice voi che mi avete venduto?» No! Niente di tutto questo. Giuseppe non poté più trattenersi, e disse fuori tutti. Un duplice movimento che è l’estroversione e la solitudine. Tutti e due insieme, perché ognuno da solo non fa la verità. Esce da sé, non può trattenersi, non può star lì a continuare a meditare del male che gli hanno fatto, del perché l’hanno messo nei guai, esce da sé, non riesce a trattenersi. Se non c’è questa rottura, l’uscita da sé, non succede niente. E il secondo è: uscito da sé, però non come semplice esplosione, sbrodolamento, l’uscita da sé con la solitudine, con la capacità di rimare presso se stessi. Fuori gli estranei, il contorno, i maggiordomi, il potere, la faccenda si fa tra me e i miei fratelli, fuori gli altri. Zero mediazioni di potere, di facciata, di narrazione, il nocciolo duro della questione è rimanere presso se stessi uscendo da sé.

Così nessuno rimase con Giuseppe quando egli si fece conoscere ai suoi fratelli.

Si faceva conoscere. Tutte le volte che leggo questo versetto mi viene in mente, per deformazione, «Sono io non temete” del Risorto. Di fronte a Gesù risorto i discepoli non sanno mai chi è, credono sia un fantasma. È Gesù che si fa conoscere. Tutti gli studiosi dicono che si riconosce con tre gesti: l’augurio della pace, la condivisone del cibo, cioè la figura dell’eucarestia, e la raccomandazione di non aver paura. Sono i tre caratteri con cui Gesù si fa conoscere. Giuseppe si fece conoscere dai suoi fratelli.

2Alzò la voce piangendo;

Uno dice: “Hai fatto tutto sto casino, ma perché ti metti a piangere?” Perché certe volte l’anima esce dagli occhi, perché quando la somma è troppa esce dagli occhi. Perché c’è un passaggio lì, il farsi conoscere di Giuseppe, che è un passaggio di nascita, un passaggio pericolosissimo. Perché lui non sa, non è in grado di sapere, se la paura avrà la preminenza. Se questo non trattenersi e rimanere presso di sé può mettere in moto un’altra storia, un processo. La redenzione è a caro prezzo, ha un buon risultato per verità e sincerità, se può riconciliare verità e sincerità.

gli Egiziani lo udirono e l’udì la casa del faraone.

Ci viene detto che questa cosa non è senza prezzo per colui che ha un potere, che ha un maggiordomo, per la sua immagine pubblica. Non passa sotto traccia, “la cosa fu risaputa”, cioè non è mai a costo zero riconciliare sincerità e verità o provare a riconciliare, ma è necessario.

3Giuseppe disse ai suoi fratelli: «Io sono Giuseppe; mio padre vive ancora?» Ma i suoi fratelli non gli potevano rispondere, perché erano atterriti dalla sua presenza. 4Giuseppe disse ai suoi fratelli: «Vi prego, avvicinatevi a me!»

È la frattura della distanza. Non sanno parlare perché la presenza può essere sotto un segno del rancore di “adesso ce le fa pagare tutte”, di “adesso gliela facciamo pagare noi”, “ma in che guaio ci hai messo?”. Cioè la distanza può essere sotto segni incredibili, e Giuseppe dice: “Avvicinatevi” e sottrae la distanza.

Quelli s’avvicinarono ed egli disse: «Io sono Giuseppe, vostro fratello, che voi vendeste perché fosse portato in Egitto. 5Ma ora non vi rattristate, né vi dispiaccia di avermi venduto perché io fossi portato qui; poiché Dio mi ha mandato qui prima di voi per conservarvi in vita.

Spesso discutiamo con Manuela perché delle mie interpretazioni su questa cosa qua dice: «Sì tu te la conti, anche la Bibbia un po’ se la conta, alla fine fa tornare tutti i conti». È chiaro, è un po’ archetipico quindi non è così banalmente realizzabile, ma, diciamo, il movimento finale di tutta questa vicenda non è semplicemente nella riconciliazione con i fratelli, ma è nel fatto che Giuseppe può ricomprendere quello che a lui è accaduto, nella verità di quel fatto. E la verità di quel fatto non è che gli è andata male, ma che gli è andata benissimo, non solo: che se è andata benissimo a lui, ha potuto aiutare a mantenere in vita i fratelli e la sua famiglia. Che se fosse rimasto con i suoi fratelli, se nessuno lo avesse venduto per schiavo in Egitto, non lo avrebbe potuto fare. Sarebbero tutti morti di fame durante la carestia. E quindi la possibilità di questa verità riconciliata è una verità che Giuseppe attua su di sé, non con i fratelli. Potersi raccontare la sua storia, ciò che gli è successo non come: «Nonostante il fatto che i miei fratelli mi hanno massacrato io poi ce l’ho fatta», ma esattamente il contrario: «I miei fratelli credevano di avermi massacrato, in realtà Dio mi ha condotto in un luogo dove io ho potuto aver cura di me e di loro.»

6Infatti, sono due anni che la carestia è nel paese e ce ne saranno altri cinque, durante i quali non ci sarà raccolto né mietitura. 7Ma Dio mi ha mandato qui prima di voi, perché sia conservato di voi un residuo sulla terra e per salvare la vita a molti scampati. 8Non siete dunque voi che mi avete mandato qui, ma è Dio. Egli mi ha stabilito come padre del faraone, signore di tutta la sua casa e governatore di tutto il paese d’Egitto.

E qui ci sono due passaggi. Dico solo che il libro dell’Esodo comincerà dicendo: “Sorse un faraone che non aveva conosciuto Giuseppe”: la grande liberazione è quella che ci sarà con l’Esodo, ma qui – rimanendo nella storia di Giuseppe – si dice sostanzialmente che un atto di verità non ha niente a che fare con la sincerità. Il “vero” qui è Giuseppe, che riprende la storia con un’assunzione di responsabilità e la fa diventare una paternità. Qui non centra essere maschi o femmine, è un esercizio di paternità: colui che provvede non solo a sé ma anche agli altri. E questo non può non passare se non per un passaggio di redenzione, cioè di misurarsi con la realtà del proprio male che non è necessariamente nelle proprie intenzioni. Chiudo dunque con poche righe, che magari poi manderò a Carlo se vuole metterle sul sito, una citazione di E. Salmann che dice:

Senza questa tensione e tenzone dialettiche tra grazia e peccato, tra vita e morte, tra diritto umano e giustizia divina, tra crisi e salvamento, la fede cristiana perderebbe ogni rapporto alle esperienze più traumatiche e belle dell’umanità, l’umanesimo della quale non sussiste e si ricrea mai in sè e di per sè, non è una conquista pacifica, ma si ricupera solo mediante il sacrificio, la preghiera, l’espiazione. Si paga sempre troppo per ogni bene – e solo il bene sofferto può promettere un sollievo e un riscatto. Pensiamo alla storia quanto mai umanistica del Giuseppe biblico che subisce diverse forme di purificazione (per poi poter diventare il Nutritore dell’Egitto) e che non può non imporre la sofferenza dell’espiazione ai suoi fratelli per diventare degni del perdono, cioè solo rispettando la profondità del loro delitto, del loro destino fallimentare, potrà salvaguardare la loro libertà e dignità.

E. SALMANN, Contro Severino. Incanto e incubo del credere,
con un contributo di A. GRILLO, Piemme, 1996, 283-284.

A me sembra che questo è proprio il grande tema, il rapporto tra verità e sincerità passa per il rispetto della profondità dei nostri e altrui delitti, per il rispetto della profondità del nostro e altrui destino fallimentare, per salvaguardare la libertà e la dignità che soli ci consentono di vivere. Questo tema, verità e sincerità, comincia – mi sembra – attraverso questo testo a mostrarci e introdurci in una logica non troppo materiale (vero/falso, sincero/menzognero), ma in una logica un po’ più di tensione.

28Dio ha scelto le cose ignobili del mondo e le cose disprezzate, anzi le cose che non sono, per ridurre al niente le cose che sono, 29perché nessuno si vanti di fronte a Dio.

Dio lo ha scelto per ridurre al nulla le cose che sono, sembrerebbe una vocazione nichilista di Dio che proprio schiaccia, ma è perché nessuno possa vantarsi di fronte a Dio. Perché c’è una sola questione che non può cambiare, che è la differenza radicale tra noi e Dio ed è che appunto che lui non ha cambiamento, perché è di fronte alla totalità delle cose. Questo è il motivo per cui il cambiamento ci infastidisce molto: il cambiamento annuncia la nostra parzialità “questo non l’avevo pensato, questo non l’ho ancora capito, a questo non sono preparato” e quindi è profondamente inquietante per noi.

30Ed è grazie a lui che voi siete in Cristo Gesù, che da Dio è stato fatto per noi sapienza, giustizia, santificazione e redenzione; 31affinché, com’è scritto: «Chi si vanta, si vanti nel Signore».

Ed è interessante, nessuno può vantarsi ma chi si vanta si vanti nel Signore. Possiamo vantarci, sì, ma in relazione al crocifisso. C’è qualcosa di cui ci possiamo vantarci: del modo in cui ci rapportiamo a ciò che non sappiamo. La croce appunto, la domanda scandalosa, il rapportarmi continuamente a ciò che non conosco. Questo deve essere il nostro vanto, di come siamo capaci di reggere la nostra stessa parzialità o se volete, tradotto ancora, di come siamo bravi a non essere Dio.

Fossano, 20 ottobre 2018

(Testo non rivisto dall’autore)

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