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18 Maggio 2019
Stella Morra

8. Una verità che ci chiama dal futuro

Commento a: Ap 22, 1-21


Siamo alla fine del percorso di quest’anno e preparando questa riflessione ho pensato si potesse tirare qualche filo conclusivo, magari alla fine. Il percorso ci ha visto andare sui testi dell’AT più descrittivi rispetto alla questione della Verità: in Giuseppe verità e la sincerità, la verità per vivere in Nm, la questione del discernimento con Gn e Os. Poi le domande più evangeliche: “cosa vedere” in Gv 1, il racconto di Pilato in Gv 18 e l’ultima volta cosa fare “nel frattempo”.

Il testo di oggi è stato scelto mesi e mesi fa quindi non poteva essere influenzato dal mio stato d’animo attuale, invece si confà assolutamente ad esso che sempre di più è di una convinzione un po’ apocalittica: lasciamo che ciò che deve finire finisca. Mi sembra che ci sono ormai troppi segnali, anche di questo forse dirò qualcosa alla fine.

Il testo è di Ap 22 e il titolo che avevamo scelto all’inizio è “Una verità che ci chiama dal futuro”. In passato abbiamo spesso commentato Ap 21, almeno due o tre volte, e i testi legati alla visione della donna. Non credo che abbiamo mai commentato Ap 22. Il capitolo 21 è quello che in qualche modo fa da vera conclusione della Bibbia. Abbiamo spesso detto che la Bibbia si apre con un giardino e si chiude con una città. Si apre con un giardino che per gli antichi è l’immagine della natura, di ciò che Dio dona, del luogo buono, fruttuoso, vitale, in cui tutto comincia, della grazia originale, ma è anche il luogo del dramma della storia, che inizia contemporaneamente alla storia umana. La conclusione è una città, la Gerusalemme che scende dal cielo in Ap 21. È interessante perché per gli antichi la città era l’immagine della cultura, non della natura, di ciò che è costruito dall’uomo. Fin dall’inizio va bene, la costruzione della torre, la costruzione di mani d’uomo vissuta come una sfida, una sfida a Dio, ai ritmi della natura. Noi siamo oggi, anche culturalmente, all’altro estremo. Papa Francesco insiste tanto sui temi della città, in una delle sue omelie ha fatto tutto un ragionamento su come può essere che Dio si trova solo in campagna, cioè che il cristianesimo è adeguato solo alla vita rurale. Non è possibile, evidentemente deve potersi trovare anche in città, siccome ormai la maggior parte dell’umanità vive in città (piccole, medie, grandi, grandissime, megalopoli). Il Papa dice dato che Dio è interessato alle persone sarà più in città che altrove, là dove ci sono più persone.

A questo proposito, vi consiglio un piccolo libro uscito da poco e molto molto bello, di Vincenzo Rosito, un giovane studioso di filosofia politica che però scrive un libro con tutta la sua competenza ma non per il mondo accademico. È un piccolo libro più divulgativo, molto carino che si chiama: “Dio delle città” (ed. Dehoniane) ed è appunto commento alle posizioni di Papa Francesco intorno al tema della città ed è molto interessante.

Il capitolo 21, che abbiamo spesso commentato, mostra questa conclusione, ciò che è cominciato come un dono di Dio, finisce come una collaborazione tra Dio e l’uomo. Noi siamo abituati a pensare l’insieme della  Bibbia secondo uno schema che è quello del catechismo della seconda elementare, cioè che tutto comincia con il peccato originale, che sarebbe la libertà umana che dice di no a Dio, e tutto finisce con il giudizio universale, che sarebbe Dio che dice ok, tutti avete detto di no all’inizio in Adamo, ma adesso qualcuno si è comportato bene ed ha trasformato il suo no in un sì, qualcuno no e quindi va al diavolo. Il problema è che non è questa la logica della Bibbia, questa è la lettura ottocentesca. La Bibbia dice che tutto comincia con un dono gratuito di Dio, che è il giardino, e tutto finisce con l’articolazione tra questo dono e la libertà umana che fa sì che scenda dal cielo, quindi ancora una volta come dono, una città, che è ciò che ha costruito l’uomo e che però contiene il giardino. Cioè, tutto ci è reso, anche quello dell’inizio, dentro la città ci sono i due fiumi, i due alberi, tutta la descrizione di Genesi ripresa. Questa è un’altra logica, non c’entra niente,  non è che la libertà è stata giocata nel peccato originale e se l’hai giocata male peccato. E ognuno di noi riproduce sempre questo dramma e deve giocarla bene e dire sì a Dio, come un bambino vizioso. Non c’entra niente questa cosa qua. La logica della Bibbia è: a partire da un dono, l’articolazione delle libertà di Dio e dell’uomo, alla fine è un dono raddoppiato. È la stessa città che abbiamo costruito che ci viene ridonata con all’interno anche il giardino delle origini.

In questa logica, dunque, c’è una cosa interessante che voglio richiamare del capitolo 21, perché ci serve per il capitolo di oggi, tutta la seconda metà è giocato attorno al tema della misura. L’angelo che sta mostrando a Giovanni, che scrive l’Apocalisse, tutte le cose, che gli spiega, che gli fa da narratore, gli dà i sottotitoli. L’angelo misura la città, misura le porte, c’è un problema di misura. Anche qui non vorrei farla troppo facile ma è molto chiaro cosa sta dicendo: non c’è un sì e un no, c’è un dono originario e l’articolazione di due libertà che è un problema di misure, di trovare la misura giusta come in tutte le relazioni umane. Non è che uno ha sempre tutta la ragione e l’altro ha tutto il torto. È sempre un problema di misure, di trovare un’articolazione giusta per cui il mio modo di vedere le cose, di sentirle, la posizione in cui sono in cui certe volte ho un po’ più ragione io e tu hai un pochino più torto, magari sei stato più aggressivo. Il problema, però, è trovare un’articolazione di misure.

Questo è lo scenario, poi c’è il capitolo 22 che materialmente conclude l’Ap e che dunque in qualche modo è una specie di appendice della conclusione. Sono i titoli di coda come adesso è un po’ di moda nei film in cui in coda non ci sono solo i nomi, ma ci sono anche le scene del backstage, le papere, i pezzi tagliati del film. Questo capitolo 22 sono un po’ i pezzi tagliati del film, riprende alcuni punti e dice: “chissà se li hanno notati, forse gli è scappato, glieli ridico un attimo così si concentrano bene su quelle tre – quattro cose che è meglio che non dimentichino”. Quindi, il capitolo 22 dice tutta la logica di Ap, non so come dire, ricostruisce attraverso dei frammenti, riprendendo alcune figure, alcune immagini, alcune espressioni. Molti dei versetti che trovate qui ci sono già nel libro, sono proprio ripresi, ricitati uguali, sentirete a orecchio che li avete già sentiti da altre parti. Riprende tutte le cose e rifà in piccolo tutto lo schema, dicendo “questa qua è la storia della faccenda” e in qualche modo si potrebbe riassumere in quattro verbi che sono molto importanti per la nostra riflessione e che sono: mostrare, vedere, scrivere, ricordare.

“Mostrare” dice che il primo passaggio è negativo, è passivo. Il punto di partenza è sempre passivo, siamo sempre oggetto di qualche cosa, di un dono, di una visione, di una luce, di una interpretazione. Noi che ci sentiamo così all’inizio di tutto, che “io scelgo”, “io ho deciso”, “io ho pensato”, “io ho sbagliato”, “io ho fatto giusto”, ecc. Dobbiamo prendere atto che dal punto di vista della storia, almeno nella storia della Salvezza, la prima attitudine è passiva, non attiva, ci viene dato e lo è ovviamente nella struttura fondamentale degli esseri umani: nessuno di noi ha scelto di nascere. La prima cosa che ci mette in condizione di stare al mondo è un atto passivo, nasciamo perché qualcun altro ci mette in gioco, ma non lo è solo in quel momento lì. Nonostante il nostro continuo sforzo di renderci poi attivi in ogni momento della nostra vita. Una relazione vera, una relazione capace di verità di sé e degli altri è una relazione che parte da un atto passivo: ascoltare, guardare, ricevere, vedere cosa è mostrato, capire, cioè mettersi nell’atteggiamento di chi riceve qualche cosa.

Il secondo è “vedere”, cioè questa attitudine passiva non ci deve sviare, non è la totalità del gesto, ci va una volontà specifica di vedere. Da questo punto di vista appunto, il mio tono apocalittico mi fa dire soprattutto in questo momento che ci sono pezzi di chiesa, almeno, e sicuramente anche di paese che non vogliono vedere, che non vogliono sapere. È l’antico problema, non abbiamo bisogno di guardare nel cannocchiale, secondo il racconto di Brecht del processo a Galileo, in cui Galileo dice “ma qui non si tratta di dire chi ha ragione o chi ha torto, guardate nel cannocchiale, lo vedete!” e, secondo il racconto di Brecht, questi dicono “noi sappiamo, dunque non abbiamo bisogno di guardare nel cannocchiale”. Chiaro che questo lo può fare ciascuno di noi, nel piccolo e così via, ma quando un’istituzione o una parte di istituzione fanno queste cose sono già finite: “non abbiamo bisogno di guardare nel cannocchiale”.

“Scrivere” è il gesto che viene continuamente chiesto a Giovanni: scrivi queste parole che hai ricevuto, scrivi queste cose che hai visto. Scrivi, perché non è solo voler vedere, ma è anche un atto positivo di oggettivazione. Soprattutto nell’antichità in cui la carta era poca e l’inchiostro anche, scrivere era un atto solenne, un atto che rende oggettivo. Non è scrivere sul computer, che non ha più la stessa portata perché tu scrivi e poi cancelli e apparentemente non rimane più niente. Scrivere è usare un pezzo di pergamena che se poi devi riusare ti tocca grattare via e fare un sacco di lavoro. Scrivere è far diventare oggettivo, reale, materiale, fuori di te, qualcosa. L’altro grande peccato, oltre al non voler guardare nel cannocchiale, è esattamente quello di non scrivere mai, cioè di dire: “ma io non intendevo”. Va bene, sono sicura che tu non intendevi ma quello che tu hai fatto, quello che si è visto, quello che gli altri hanno udito, non è quello che tu intendevi… ma va bene, è uguale… scrivi! Cioè, rendi oggettivo ciò che hai visto, ciò che hai ricevuto.

Ultimo, “ricordare”, che si dice anche conservare, cioè mantenere questa cosa nel tempo, giocare una fedeltà, abitare un frattempo, come dicevamo la volta scorsa. Questo è un po’ il riassunto, adesso leggo il testo.

Tra l’altro, questi mi sembrano anche i quattro verbi della verità, del fare verità, non della verità conoscitiva, ma per fare verità così come siamo andati dicendo servono questi quattro atteggiamenti. Il riconoscimento passivo, cioè che non stabilisco io la verità, che non è semplicemente quello che penso io, la mia sincerità, come io capisco in quel momento. La verità è un dono ricevuto, è qualcosa che mi è mostrato, che si mostra, quindi l’atteggiamento della passività, l’atteggiamento di voler vedere, guardare nel cannocchiale, far la fatica di capire, studiare, pensare, dialogare, ascoltare. Scrivere, cioè rendere azione oggettiva al di là delle intenzioni dell’interiorità questa verità che intravedo, assumendosi la responsabilità. Ricordare cioè custodire ed essere fedeli.

Ora faccio una battutaccia ma questo è uno dei pochi posti in cui posso permettermelo. A Roma c’è una grande discussione, soprattutto negli ambienti ecclesiali, sul gesto del cardinale elemosiniere che ha riattaccato la luce al palazzo occupato: il rispetto della legge, questo e quell’altro. Mi sembra che quel gesto lì, è veramente un gesto di verità perché riceve una situazione di bisogno, ne prende atto, infatti ci sono due suore che vivono in quel palazzo da cinque anni. Quello è un posto dove l’esperienza dei credenti che hanno attenzione alla carità, fatta di relazioni umane, hanno ricevuto questa situazione, hanno visto cioè hanno ascoltato, parlato, hanno voluto capire e lui ha voluto capire, poi ha fatto un gesto oggettivo. Ha fatto una cosa, si è calato in un tombino e ha riattaccato la luce. E poi custodisce questa cosa, cioè ha messo il proprio biglietto da visita prendendosi la responsabilità di quello che poi succederà. In questo senso mi sembra un grande gesto di verità. Non è nemmeno un gesto giusto o sbagliato, possiamo discutere all’infinito, ma sono categorie che non c’entrano con questo, la questione non è se è giusto o sbagliato. Forse è sbagliato, non lo so, a me non sembra, ma forse uno può trovare diecimila ragionamenti teorici per dire che è sbagliato, ma è un gesto di verità e non è vero che la verità è sempre giusta: la verità taglia. Quindi certe volte per esempio è contro una legge ma come ha detto lo stesso cardinale elemosiniere si può andare contro la legge quando non arreca danni a persone, quando non è per il proprio tornaconto personale e quando ci si assume la responsabilità. Quindi è per un valore maggiore della legge, non per il proprio tornaconto, e si è disposti a pagare il prezzo che eventualmente la legge ti farà pagare. Forse sì, è un gesto di verità? Sì.

Il testo

1 Mi mostrò poi un fiume d’acqua viva limpida come cristallo, che scaturiva dal trono di Dio e dell’Agnello. In mezzo alla piazza della città e da una parte e dall’altra del fiume si trova un albero di vita che dà frutti dodici volte l’anno portando frutto ogni mese; le foglie dell’albero servono a guarire le nazioni.

3 E non vi sarà più maledizione.
Nella città vi sarà il trono di Dio e dell’Agnello
e i suoi servi lo adoreranno;
4 vedranno il suo volto
e porteranno il suo nome sulla fronte.
Non vi sarà più notte
e non avranno più bisogno di luce di lampada,
né di luce di sole,
perché il Signore Dio li illuminerà
e regneranno nei secoli.

6 E mi disse: «Queste parole sono certe e vere. Il Signore, il Dio che ispira i profeti, ha mandato il suo angelo per mostrare ai suoi servi le cose che devono accadere tra breve. 7 Ecco, io vengo presto. Beato chi custodisce le parole profetiche di questo libro».

Sono io, Giovanni, che ho visto e udito queste cose. E quando le ebbi udite e viste, mi prostrai in adorazione ai piedi dell’angelo che me le mostrava. Ma egli mi disse: «Guardati bene dal farlo! Io sono un servo come te e i tuoi fratelli, i profeti, e come coloro che custodiscono le parole di questo libro. E’ Dio che devi adorare».

10 E aggiunse: «Non mettere sotto sigillo le parole della profezia di questo libro, perché il tempo è vicino. 11 Il malvagio continui pure ad essere malvagio e l’impuro ad essere impuro e il giusto continui a praticare la giustizia e il santo si santifichi ancora.

12 Ecco, io vengo presto e porterò con me il mio salario, per rendere a ciascuno secondo le sue opere.

13 Io sono l’Alfa e l’Omega, il Primo e l’Ultimo, il principio e la fine. 14 Beati coloro che lavano le loro vesti per avere diritto all’albero della vita e attraverso le porte entrare nella città. 15 Fuori i cani, i maghi, gli immorali, gli omicidi, gli idolàtri e chiunque ama e pratica la menzogna!

16 Io, Gesù, ho mandato il mio angelo, per testimoniare a voi queste cose riguardo alle Chiese. Io sono la radice della stirpe di Davide, la stella radiosa del mattino».

17 Lo Spirito e la sposa dicono: «Vieni!». E chi ascolta ripete: «Vieni!». Chi ha sete venga; chi vuole prenda gratuitamente l’acqua della vita.

18 A chiunque ascolta le parole della profezia di questo libro dichiaro: se qualcuno vi aggiunge qualcosa, Dio gli farà cadere addosso i flagelli descritti da questo libro; 19 e se qualcuno toglierà qualcosa dalle parole di questo libro profetico, Dio lo priverà dell’albero della vita e della città santa, descritti in questo libro.

20 Colui che attesta queste cose dice: «Sì, vengo presto!». Amen. Vieni, Signore Gesù. 21 La grazia del Signore Gesù sia con tutti.

Il commento

Vi faccio notare subito, perché poi temo di arrivare di corsa alla fine, che la chiusura del libro dell’Apocalisse è il saluto che usiamo nella liturgia.

21 La grazia del Signore Gesù sia con tutti.

Nella liturgia aggiungiamo “voi” o “noi”, cioè lo diciamo in quel momento lì per quel pezzo che è convocato e che, in qualche modo, porta con sé tutti gli altri che non ci sono. Ma non è un caso che “nel frattempo” ci salutiamo gli uni gli altri con questo versetto, che è la chiusura di Ap.

1 Mi mostrò poi un fiume d’acqua viva limpida come cristallo, che scaturiva dal trono di Dio e dell’Agnello

Ci sono due immagini nei primi versetti, l’acqua e la luce, che sono due grandi temi per un popolo del deserto che viveva senza illuminazione artificiale. L’acqua era un problema e anche l’illuminazione erano una grande fatica. “un fiume d’acqua viva limpida come cristallo” è l’immagine della ricchezza, del benessere, della possibilità di vita, del poter coltivare, del potere continuare a stare bene. Ma questo fiume, che è lo stesso del giardino di Genesi, scaturisce dal trono di Dio e dell’Agnello, cioè ha la sua origine, la sua sorgente, nel fatto che Dio e l’Agnello (vediamo poi il perché dei due termini) regna nel trono, nasce dal trono. Se ci pensate un attimo, sicuramente avete visto in qualche chiesa delle immagini, perché è stato un soggetto iconografico molto diffuso, di Gesù in croce con la croce piantata nel Golgota da cui scorre l’acqua, perché per molto tempo per i cristiani è stato chiaro che il Dio che regna è Gesù in croce, che il trono di Dio che regna non è il trono del faraone, è la croce. Per questo il “trono di Dio e dell’Agnello”, nel linguaggio di Giovanni l’Agnello è Gesù, l’Agnello pasquale, quello che è sacrificato perché le porte delle case ebraiche possano essere segnate col sangue e risparmiate. Gesù segna col suo sangue perché l’angelo sterminatore salti quelle persone e il trono di Dio e l’Agnello sono la croce da cui scaturisce un fiume di acqua limpida.

Dio regna. Da quando vivo a Roma, penso che per capire a fondo questa cosa bisognerebbe essere romani perché i romani hanno un’espressione gergale di fronte a chi è cinico, non tiene niente in conto e sembra non avere affetti, che se ne frega di tutto, ti dicono “nun je regna niente”, non gli regna niente. Dio regna è il contrario di chi è cinico e non gliene frega niente. Dio regna su tutto, che non vuol dire governa, vuol dire tutto consiste, tutto è importante, dalla cosa più piccola alla più importante, l’esatto contrario del fregarsene.

In mezzo alla piazza della città e da una parte e dall’altra del fiume si trova un albero di vita vita che dà frutti dodici volte l’anno portando frutto ogni mese; le foglie dell’albero servono a guarire le nazioni.

Abbiamo tutti in mente l’albero del bene e del male, l’albero della conoscenza di Genesi, qui non è più né l’albero del bene e del male, né l’albero della conoscenza. C’è un albero, come là, e c’è un fiume, come là, ma è l’albero di vita che dà frutti dodici volte l’anno, l’ideale di ogni coltivatore di frutta, e non solo ma le foglie servono a guarire le nazioni. È l’immagine della sovrabbondanza, la conoscenza e il bene e il male si sono unificate nella vita. Papa Francesco dice sempre che ci sono due tentazioni per il cristianesimo: l’agnosticismo e il pelagianesimo, che sono i due figli dell’albero: della conoscenza l’agnosticismo, e del bene e del male il pelagianesimo, e che noi siamo già più vicini ad Ap, abbiamo bisogno di un albero della vita che dia frutti e foglie che curano, che guariscano. Su questo potrei ragionare delle ore, fino all’ultimo giorno, anche quando Dio regna, abbiamo bisogno di guarigione, di foglie che guariscono perché siamo feriti. Abbiamo cicatrici perché la storia non è passata invano, perché anche Gesù risorto ha le piaghe in cui Tommaso può mettere il dito. Certo, non urla più di male, ma le piaghe ci sono ancora tutte.

E poi questo versetto che è bellissimo:

3 E non vi sarà più maledizione
Nella città vi sarà il trono di Dio e dell’Agnello
e i suoi servi lo adoreranno;

Abbiamo spesso riflettuto sul tema della benedizione, anche in questo percorso sulla verità abbiamo molto ragionato su come una verità che serve per vivere è una benedizione, dire il bene, non vi sarà più maledizione. Chiunque è un adulto sa bene che gran parte delle energie della propria vita, se cerca di essere una persona almeno un po’ in piedi, vanno per non maledire, per non arrivare in certi passaggi della propria vita a maledire, a maledire il passato, le persone, quello che è successo, la fatica che si fa. Rimanere uomini e donne che non maledicono è già un gran risultato. Nella piazza della città, nel cuore della città non ci sarà più maledizione.

In che senso non si dovrebbe maledire oggi? In che senso la città ci può consentire di non maledire? Ad esempio, la città dovrebbe diventare sempre più il luogo di ciò che è comune. Tutte le volte che facciamo un’esperienza, qui è capitato per esempio con l’esperienza della cappella di Boschetti, piuttosto che il museo diocesano, tutte le volte che facciamo un’esperienza in cui stiamo insieme, coltiviamo un po’ di bellezza, riusciamo anche con delle persone molto diverse da noi a fare delle cose belle, scopriamo che è divertente, che è bello, che c’è un comune anche rispetto alle esigenze concrete, che rispetto al risolvere alcuni problemi anche molto concreti della vita se qualcuno ti da una mano è meglio. La città è proprio il luogo dove paradossalmente, dico in modo simbolico, non sei tu Prometeo confrontato con le forze della natura, ce la faccio o soccombo, questa logica che non è per niente cristiana. Nella città mano a mano non c’è più maledizione perché è il luogo dove ciò che è in comune consente a tutti, al piccolo e al grande, al sano e al malato, al ricco e al povero, di avere un proprio luogo, di partecipare a questo fiume di acqua viva, a questa luce che è comune, che è di tutti. Per questo, ad esempio, la politica è così importante, perché dovrebbe essere lo strumento per trasformare la logica della contrapposizione tra pubblico e privato in una logica del comune. Per questo secondo me in questo momento facciamo così fatica, perché sembra che molta parte della politica si adopera a peggiorare lo scontro tra la difesa dei diritti privati, dei diritti miei contro i tuoi, da una parte e dall’altra. Il pubblico considerato come puro danno, un puro costo senza vantaggio. Senza più capacità di indicare dei territori comuni, del dire molto banalmente quello che poi è la realtà, ad esempio che un’economia in questo momento in Italia senza immigrati andrebbe a gambe all’aria, e che poi questo va gestito e governato dentro la legalità. La politica ci dovrebbe aiutare, indicarci al di là delle esperienze personali, che c’è un bene comune che va salvaguardato, governato, regolamentato e che non è semplicemente nella contrapposizione tra privato e pubblico in cui chi è più forte garantisce il proprio privato e se ne frega di tutti gli altri e il pubblico è considerato una pura zavorra. Non ne verremo mai fuori così, appunto la città diventa totalmente luogo di maledizione.

vedranno il suo volto
e porteranno il suo nome sulla fronte.

Questa cosa è molto interessante, l’indicazione sulla fronte è l’indicazione degli schiavi. Gli schiavi sono marchiati sulla fronte con un simbolo di proprietà del padrone. Portiamo il nome come schiavi? In un certo senso sì, sottoposti a Dio che regna.

Non vi sarà più notte
e non avranno più bisogno di luce di lampada,
né di luce di sole,
perché il Signore Dio li illuminerà
e regneranno nei secoli.

Il regno di Dio diventa il nostro regnare.

6 E mi disse: «Queste parole sono certe e vere. Il Signore, il Dio che ispira i profeti, ha mandato il suo angelo per mostrare ai suoi servi le cose che devono accadere tra breve. 7 Ecco, io vengo presto. Beato chi custodisce le parole profetiche di questo libro».

Qui c’è la dinamica che dicevo prima: le parole sono certe e vere, dunque le ho mostrate, tu le hai viste, le hai scritte. Beato chi custodisce queste parole. Questa è la dinamica del fare la verità, ma si aggiunge una cosa: “Ecco, io vengo presto”, che è proprio quanto dicevamo la scorsa volta, “nel frattempo”, ma c’è il tema dell’urgenza. Fare la verità è fare la verità per una persona che viene, non per un principio teorico.

Sono io, Giovanni, che ho visto e udito queste cose. E quando le ebbi udite e viste, mi prostrai in adorazione ai piedi dell’angelo che me le mostrava. Ma egli mi disse: «Guardati bene dal farlo! Io sono un servo come te e i tuoi fratelli, i profeti, e come coloro che custodiscono le parole di questo libro. E’ Dio che devi adorare».

Qual è la reazione di Giovanni? Dice ok, sono io, mi prendo la responsabilità, le scrivo. Ho visto e udito, ve le scrivo, e cosa fa? Si prostra in adorazione dell’angelo che gli dice “lascia perdere, solo Dio va adorato, io non c’entro”. Questo è un altro passaggio molto importante perché il rischio, lo dico in termini contemporanei, è che la verità diventi un’ideologia: quello che ho visto e udito allora va adorato perché ho capito, perché questa è la verità, perché queste sono parole certe. No, solo Dio va adorato, e Dio non sai dov’è. Noi siamo in questo ruolo scomodo, abbiamo visto e udito, dobbiamo scrivere, custodire senza poter adorare, senza poter fare di ciò che crediamo l’ultima bandiera, la battaglia. Dobbiamo continuare a ricevere la verità che pure serviamo. Questo qui è uno dei problemi più grossi in questo momento nella situazione ecclesiale e non solo, ma comunque nella situazione ecclesiale è molto chiaro.

10 E aggiunse: «Non mettere sotto sigillo le parole della profezia di questo libro, perché il tempo è vicino.

Poi, ci sono i versetti 10 e 11 che sono abbastanza complicati, intanto perché sono contrari ad ogni logica letteraria di questo genere di libri apocalittici che hanno sempre alla fine “metti sotto sigillo queste parole, riservale a chi è degno, a chi è preparato”. Qui dice non mettere sotto sigillo queste parole, già qui è molto strano, i libri di rivelazione coevi sono tutti libri iniziatici, mentre qui si dice: “guai a te, solo Dio va adorato dunque non mettere sotto sigillo queste parole, lasciale andare per la loro strada. Queste parole (e qui lo traduco per noi, non viene direttamente dal testo) genereranno molte verità, regneranno in molti modi. Questa è la condizione per non adorarne nessuna, per mantenere la libertà di Dio che è altro e altrove.

Non mettere sotto sigillo, il tempo è vicino e poi dice:

11 Il malvagio continui pure ad essere malvagio e l’impuro ad essere impuro e il giusto continui a praticare la giustizia e il santo si santifichi ancora.

La preoccupazione di Ap non è di ordine morale e questa cosa ci fa molto incavolare perché uno dice “va beh, tutta questa roba è bella, almeno qualcuno se lo sarà meritato e qualcuno no… “nel frattempo” fate quello che siete, non mettete sotto sigillo queste parole, come dire, Dio in qualche modo crede nella varietà molto di più di quanto ci crediamo noi ed è assolutamente convinto, ha fiducia che un uomo che riceve, vede, scrive e ricorda non potrà essere malvagio. Cioè, chi si misura con la verità prima o poi troverà una via di santità, forse non la nostra, ma chi si misura con la verità troverà una via di santità. Noi a questo non ci crediamo sempre, diciamo:

12 Ecco, io vengo presto e porterò con me il mio salario, per rendere a ciascuno secondo le sue opere.

I conti si faranno, ma questo Gesù che parla è lo stesso che ha dato agli operai dell’ultima ora quanto a quelli della prima ora. I conti si faranno ma Gesù è uno strano amministratore, d’altra parte il denaro è suo, fa quello che vuole.

13 Io sono l’Alfa e l’Omega, il Primo e l’Ultimo, il principio e la fine. 14 Beati coloro che lavano le loro vesti per avere diritto all’albero della vita e attraverso le porte entrare nella città. 15 Fuori i cani, i maghi, gli immorali, gli omicidi, gli idolàtri e chiunque ama e pratica la menzogna!

Fuori solo chi ama e pratica la menzogna, più chiaro di così! La condizione di umanizzazione, di ominizzazione quasi, è la verità, è fare questo tipo di verità. Questa è la verità che ci chiama dal futuro e che viene presto.

Ci sono i cani, gli immorali, gli omicidi e gli idolatri, queste sono tutte le categorie. Per esempio, non ci sono i malvagi, che cita poco prima, non ci sono gli impuri, che cita poco prima. Sono categorie nel linguaggio di Ap non di ordine morale, sono le categorie che indicano, noi diremmo, chi non fa la verità. Infatti, sono quelli che vengono chiamati i cani, che non sono i cagnetti, poverini non c’entrano niente, ma sono coloro che in qualche modo rimangono ad un livello non umano, non vogliono assumere il dramma e la fatica della libertà umana. Sto traducendo in linguaggio contemporaneo. I maghi sono quelli che in qualche modo non accettano la realtà, vogliono manipolarla. Gli immorali, cioè coloro che non accettano di misurarsi con delle regole di vita comune, la morale come regola comune. Gli omicidi perché chi toglie chi toglie la vita si mette al posto di Dio, impedisce radicalmente ad un altro di fare la sua verità, e gli idolatri. Non sono categorie di malvagità, di puro e impuro (linguaggio ebraico), sono le categorie di coloro che non stanno alle regole del mostrare, vedere, che non fanno mai i conti con il reale, che manipolano, rimangono sotto al proprio desiderio di umanità, non fanno la verità e quindi, dopo l’elenco di puri nomi dice “chiunque ama e pratica la menzogna”, che è un po’ il chiarimento.

Poi ci sono questi versetti di conclusione:

16 Io, Gesù, ho mandato il mio angelo, per testimoniare a voi queste cose riguardo alle Chiese. Io sono la radice della stirpe di Davide, la stella radiosa del mattino».

17 Lo Spirito e la sposa dicono: «Vieni!». E chi ascolta ripete: «Vieni!». Chi ha sete venga; chi vuole prenda gratuitamente l’acqua della vita.

18 A chiunque ascolta le parole della profezia di questo libro dichiaro: se qualcuno vi aggiunge qualcosa, Dio gli farà cadere addosso i flagelli descritti da questo libro; 19 e se qualcuno toglierà qualcosa dalle parole di questo libro profetico, Dio lo priverà dell’albero della vita e della città santa, descritti in questo libro.

20 Colui che attesta queste cose dice: «Sì, vengo presto!». Amen. Vieni, Signore Gesù. 21 La grazia del Signore Gesù sia con tutti.

Sono i versetti dell’ansia, del non ne potremo più. Trovo che sono i versetti di questi tempi in cui siamo, in cui uno ha la sensazione che la misura è colma e che dice: “adesso va tutto bene però ci sono dei limiti, perché Dio non tira giù due “zot”, mirati, perché ci sono alcune questioni che superano ogni logica, basta!” e apparentemente da dovunque li prendi ti sfuggono di mano, qualsiasi operazione cerchi di fare per assumerti la responsabilità di contrastare certe situazioni, tutto sembra naufragare in una palude. Sembra tutto irrisolvibile, sembra che la nostra intelligenza non porti da nessuna parte. Allora, ci sono questi versetti conclusivi, cioè c’è una potenza dell’invocazione. Io credo seriamente che in tempi di transizione come questo, in un tempo di grande fatica della verità, bisogna non aggiungere e non togliere, cioè mantenersi nel regnare in quello che c’è. E invocare, proprio invocare, anche invocare i salmi deprecatori, anche dire “va beh, Signore, tu farai quello che ritieni giusto, detto ciò, se vuoi il mio parere, Babilonia devastatrice in questo momento si chiama così, questo è il nome e il cognome di Babilonia devastatrice, questo è quello che capisco io poi tu vedrai, però dal mio punto di vista io non ne potrei più”. C’è una urgenza dell’invocazione che poi si raccoglie tutto in quel La grazia del Signore Gesù sia con tutti e non è un caso che la Chiesa da secoli usa questo come saluto liturgico, ripetuto più volte, tutte le volte che celebriamo l’eucarestia. Perché senza questa urgenza dell’invocazione, cioè ogni volta che noi rispondiamo a questo saluto che ci viene rivolto da parte di Dio per bocca del sacerdote, noi rispondendo “e con il tuo spirito” diciamo “vieni, non ne possiamo più”. Per questo siamo arrivati fino qui, siamo venuti a Messa, per questo siamo in questa Liturgia, perché non ne possiamo più, perché c’è bisogno di verità e perché devo avere ancora la forza di mostrare, vedere, scrivere, ricordare, anche domani, anche stasera, e non ne potrei più.

In questo senso all’inizio dicevo che non vorrei che il mio tono di umore apocalittico di questo periodo mi influenzasse troppo, ma credo che non sia così, che abbiamo bisogno di inventare modi, luoghi, tempi dove mostrare, vedere, scrivere, ricordare. Forme concrete. Quello che la Chiesa ci ha assicurato per secoli sembra, per le dinamiche di autoreferenzialità, di clericalismo in cui ci si trova, abbia tendenzialmente esaurito il suo scopo. Funziona qui e lì, a macchia di leopardo quando funziona, quando c’è qualcuno un po’ carino, occasionalmente ma apparentemente sembra non andare avanti.

Citavo prima che il 9 di maggio il Papa ha incontrato, in quanto Vescovo di Roma, la diocesi di Roma come fa tutti gli anni e ha fatto un discorso che è in un video di YouTube. Vi consiglio non solo di ascoltare ma di vedere, perché bisogna vedere la faccia del Papa e vedere le facce di chi lo ascolta, perché sono tutte e due esplicative del discorso. Tutti gli anni gli incontri hanno un tema e il tema era il grido della città, che è qualcosa di molto reale, chi vive in una città come Roma sa che in questo momento la città urla con gli scontri in periferia sulle case affittate ai rom, urla da tutte le parti per mille motivi, del non funzionamento quotidiano delle cose, della cattiva gestione, della fatica di tutti. C’erano stati una serie di ragionamenti e il Papa inizia dicendo: “Abbiamo sentito tanti bisogni, tante grida della città e la tentazione”, usa proprio questa parola, tentazione, “la tentazione sarebbe quella di dire ok, adesso ci organizziamo, rimettiamo a posto un po’ la Chiesa perché possa rimettere un po’ a posto la città. Qualcuno ha anche chiesto di fare un nuovo ufficio per non so che cosa, però è una tentazione questa qua, perché non è compito della Chiesa mettere a posto i problemi, compito della Chiesa è prendere in mano lo squilibrio”. Praticamente parla per una quarantina di minuti spiegando questo concetto, che il compito non è rimettere a posto le cose ma prendere in mano lo squilibrio. Io credo, appunto, che tutte le volte che rispondiamo al saluto “la grazia del Signore sia con voi” diciamo che siamo lì per prendere in mano lo squilibrio. Il Papa ad un certo punto dice: “ma le avete lette le beatitudini? Dovrebbero prendere il premio Nobel per lo squilibrio, vi sembrerà mica un testo sensato”. Lo trovo meraviglioso detto così. Allora credo che questa è la questione, mettersi dalla parte dello squilibrio e non dell’equilibrio. Veniamo da secoli in cui la forma di Chiesa si è adoperata a garantire, a mantenere, anche contro ogni logica, equilibri. Siamo alla fine di un tempo che ha sancito comunque, che ci piaccia o no, che non è più così. Forse dovremmo avere coraggio di chiederci cosa vuol dire per ciascuno di noi, ma anche in termini pubblici, reggere lo squilibrio, prendere in mano lo squilibrio, anzi, augurarsi lo squilibrio come evangelico.

Fossano, 18 maggio 2019

(Testo non rivisto dall’autore)

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